Foto LaPresse

Aspettando Mario

Beppe Di Corrado

Italia-Inghilterra, inizia qui Brasile 2014. Appesi ai piedi di Balotelli (e alla sua testa). Astenersi pessimisti, anche sul resto dell’attacco.

Astenersi pessimisti. Perché poi? O tifi contro e se tifi contro puoi avere anche la stima degli altri. Oppure taci. Quelli che alzano il dito e dicono “e però” no grazie. Non più, almeno. Non da oggi in poi. È il giorno dell’Italia, questo. E il primo giorno dell’Italia è il vero inizio del Mondiale. Perché va bene l’inaugurazione, va bene pure Brasile-Croazia, va bene – anzi benissimo – Spagna-Olanda, però Italia-Inghilterra è l’incipit di Brasile 2014. C’è poco da spiegare. Il resto verrà da oggi in poi, come quei concerti che cominciano con una canzone che non è la prima, ma è quella che da sempre per quel pubblico ha significato l’inizio di qualcosa. Astenersi pessimisti, ancora. Perché è facile storcere il naso a prescindere. E’ il pronostico più facile, come giocare vittoria-pareggio-sconfitta e pensare di poter vincere tanti soldi. Il meccanismo funziona così: se sono pessimista e si perde, ho avuto ragione; se sono pessimista e si vince, nessuno si ricorderà che io avevo torto. Che poi la questione è sempre e solo una: chi gioca? E non chi gioca in generale, ma chi gioca davanti. Uno, due o tre? E chi, appunto. Arrivi sempre qui, alla vigilia di un Mondiale. Quindi adesso arrivi a Balotelli, ovvio. Perché ha ragione Pierluigi Pardo: è Mario il nome. Il personaggio, quantomeno il primo. Poi si vedrà. Mario ha un fisico che non gli permette di nascondersi e una testa che non gliel’ha mai suggerito: spinge gli avversari con le spalle, salta con i gomiti alti, difende il pallone con le anche. Comanda il cervello e gli dice anche che può fare il corsaro fino a quella soglia che non lo trasforma in maleducato. Una soglia superata molte volte, per qualcuno più volte di quante ne suggerisca la decenza. In Brasile dicono non si senta a suo agio: troppo caldo. L’Italia è piena di storie di talenti viziati, lo sappiamo anche troppo bene. Balotelli, però, sfugge alla catalogazione classica. E’ più indefinito, nella sua semplicità è più complesso. L’altro ribelle della compagnia azzurra, Antonio Cassano, risponde a un criterio più elementare. Ha capacità fuori dal comune che ha messo in discussione per un carattere incontrollabile. Mario no. E’ così, ma poi ci aggiunge qualcos’altro: il bisogno di sentirsi al centro di un mondo e contemporaneamente di voler uscire da quel mondo.
Ecco, noi siamo nelle mani e nei piedi di Balotelli. Nella sua testa, anche. Un destino che non abbiamo cercato, ma che ci siamo trovati. Tocca a Mario. Cioè al meglio e al peggio di noi. Balotelli è un tipo strano. Non è più solo la storia del genio ribelle, della sregolatezza che si mescola alla stoffa, della follia che s’alterna all’estro. Qui c’è altro. E’ un carattere indefinito: assomiglia più a una rockstar che a uno sportivo celebre. Uno che se decide che una tournée la deve finire, s’impegna come un operaio. Ha voglia, più di quanta gliene si attribuisca. Solo che dentro quella voglia infila i capricci. Tanti, per qualcuno troppi. Quelli che uno per uno finiscono segnati sul taccuino dei detrattori. Quelli che ti lasciano sempre la sensazione di puntare su un precario. Brillante, fenomenale, ma comunque precario della vita. Uno che c’è e poi si brucia per autocombustione. E’ come se Balotelli non abbia ancora capito quale sia il limite da non superare prima di sfociare nel suicidio: una specie di sfida perenne con se stesso e con chi gli sta attorno. Un tira e molla continuo tra positivo e negativo, tra ragione e sentimento, tra buone intenzioni e pessime azioni.

 

E’ oggettivamente il nostro uomo. Quantomeno è quello da cui si parte. Ora, alla vigilia dell’inizio dei Mondiali, l’inizio vero, cioè quello della prima nostra partita, si può per cortesia sospendere il pregiudizio? Parliamo di qualche numero, dài. Nel Milan, dove molti dicono non sia decisivo né abbia giocato al suo massimo, ha fatto 30 gol in 54 partite, cioè più di mezzo gol a partita. E in Nazionale sono 12 in 30 presenze, con una media più bassa, ma forse più decisiva. Perché non si può non ricordare l’Europeo di due anni fa, quando demolì da solo la Germania. Ora, va benissimo massacrarlo, ma non diciamo che sia sopravvalutato. Calcisticamente è il meglio che abbiamo. E’ il nostro specchio. E’ la soddisfazione e l’insoddisfazione insieme, spesso a parti invertite. Un tormento che accompagna lui e noi. Ha la forza, il talento e il genio. Poi ha il risvolto della nostra identità: spaccone, sbruffone, arrogante, presuntuoso, strafottente. E’ una sgasata sbattuta in faccia al mondo con la sua nuova auto di lusso. E’ la multa presa per divieto di sosta pur avendo un parcheggio comodo e legale a venti metri. E’ la gomitata data inutilmente al difensore che mette in difficoltà tutta la squadra. E’ quello capace di distruggere in un secondo il lavoro di un anno intero. E’ la mancanza di rispetto continua. E’ uno che al compagno di squadra pallone d’oro, campione di tutto ma arrivato a fine carriera, in allenamento l’ha chiamato “vecchio”. Senza pudore e senza ritegno. E’ una scorrettezza che a volte va oltre il bene e persino il male. E’ tutto questo mescolato con una bravura difficile da trovare in uno così giovane. Perché Mario ha ancora 24 anni. E’ l’attenuante generica dei suoi peccati ed è ora la risorsa migliore che abbiamo per tenerci su, per provare a stare nell’Europa del calcio. L’età, la grinta, la forza, la voglia di Balo sono il nostro miglior titolo di stato. Clamoroso, questo. E’ il segno dei tempi: puntiamo sul genio scorretto che si può portare in Paradiso e subito dopo spedire nelle tenebre. Tra rettitudine e risultato devi scegliere il secondo. Che fai altrimenti? Metti in campo quelli meno bravi ma più affidabili? Il calcio che si gioca in un Mondiale non può accettare compromessi. Adesso all’Italia conviene rischiare lui, sapendo che c’è altro.

 

L’altro è tutto il resto dell’attacco. Astenersi pessimisti, di nuovo. Perché tranquilli: ne abbiamo. Immobile, Cassano, Cerci, Insigne. Solo l’ultimo non ha ancora una storia. O almeno non l’ha ancora raccontata. Nessuno s’aspettava fosse portato. E’ in Brasile, però. Portato con convinzione e contro anche una certa logica che nei giorni delle convocazioni girava: se il problema era la tenuta mentale, fisica, emotiva di Balotelli, Insigne è la variabile che non ti aspetti, la sorpresa. Ha talento, ha classe, ha tocco. Ha probabilmente il ruolo più giusto tra quelli dell’attacco per giocare con Prandelli, perché con Benítez ha già fatto quel ruolo, perché è abituato a correre. Parte da quinto, però. Parte come riserva delle riserve, perché ha davanti gli altri. Cioè Balotelli più quattro. A cominciare dal primo degli altri, quello che tutti adesso vedono come il contrario di Mario. Ciro Immobile.

L’antidivo, banalmente ma efficacemente. Ora, la base di partenza che dovrebbe giustificare il suo utilizzo al posto di Mario, la partita con la Fluminense (dove ha fatto tre gol), è un po’ debole. A renderla molto più solida c’è la stagione intera, c’è il campionato, ci sono i gol fatti con il Torino che l’hanno trasformato nel capocannoniere della serie A, c’è l’arrivo a Dortmund, nel Borussia che da anni arriva in fondo alla Champions League e che ha scelto lui per sostituire Lewandowski. Ha smentito il più clamoroso dei luoghi comuni che ruotavano attorno a lui, Immobile: quello che dice che segnasse solo con Zeman. Ventidue gol senza rigori. Punta, salta, calcia, segna. Il gol che ha rappresentato meglio la sua stagione è stato quello a Milano con il Milan. Non il più bello, ma il più simbolico: Bonera non è il miglior difensore italiano, arretra, caracolla, poi s’inclina. La finta di Ciro è prevedibile, ma perfetta: corpo che tende a destra, piede che accompagna il pallone a sinistra. Ora Immobile è solo e qui fa la cosa migliore. Perché se cede all’idea di farla scivolare sul piede sinistro si chiude l’angolo: quel diagonale prevede un tiro perfetto e basta, se chiudi troppo rischi di mandare la palla alla bandierina. Ciro si sposta col corpo, per colpire di destro, così può dare quella rotazione sufficiente che permette di aggirare il portiere. Ecco il gol. Come il terzo segnato contro il Livorno, un gol tipicamente suo per come può essere tipicamente suo un gol segnato da uno che è solo alla seconda stagione di serie A. Comunque per chi l’ha visto nelle giovanili e nel Pescara, il terzo gol col Livorno è una specie di archetipo dell’“Immobilismo” inteso come qualcosa figlia di Ciro. Fuori area, 22-23 metri dalla porta, nella zona di centrodestra, passaggio in orizzontale, lui stoppa con il sinistro, si sistema il pallone e calcia: teso, forte, di destro da destra verso sinistra, quindi in diagonale a 50 centimetri da terra. La palla non gira neanche, va dritta, precisa. Non si può prendere.

 

Immobile quest’anno non avrebbe neanche dovuto essere titolare. Giampiero Ventura è il principale teorico dell’uso di calciatori già conosciuti e sperimentati. A Torino s’è portato mezza squadra del suo Bari di qualche anno fa, quello con cui tornò ad allenare in serie A dopo molto tempo: Gillet, Glik, Gazzi, Masiello, Barreto, Meggiorini. Anche Cerci appartiene alla categoria: giocò con lui a Pisa, in B, e da allora ha sempre cercato di riprenderselo. Tentò di portarlo per due anni di seguito proprio a Bari, senza riuscirci. Ce l’ha fatta a Torino, aiutandolo a diventare uno dei migliori giocatori di questo campionato. Tutto questo serve a spiegare perché Immobile, nei piani dell’allenatore, avrebbe potuto tranquillamente essere una seconda scelta. La prima probabilmente sarebbe stata Barreto, il quale però è rimasto fermo per una squalifica per omessa denuncia nel caso calcioscommesse. E poi non s’è più ripreso. Così Ciro è diventato la scelta imposta dal fato più che dalla logica. Immobile ha funzionato e Immobile è rimasto in campo. Basta. Poche storie e niente discussioni. Attaccante vero: punta, si sposta il pallone, tira. Destro e sinistro. Potente, preciso, convinto. Così convinto che ora entra pure se la tocca sporca, se non colpisce bene.

 

Il contrario di quanto accade a Cerci che in Brasile arriva forse come il più scarico degli attaccanti. Quello che ha fatto l’inizio di stagione migliore di sempre e che in fondo è parso stanco, forse un po’ provato. Eppure i suoi piedi e la sua testa pallonara sono stati i migliori del campionato. Lucido, tecnico, elegante. Uno che sa fare tutto quello che deve fare chi gioca sulla fascia e poi il resto: lo scambio veloce, il lancio, il taglio in profondità, la sponda, l’inserimento. In sostanza è un esterno con colpi da centrocampista e da attaccante. Perfetto? Ovviamente no. Ma diverso, molto diverso. In Italia è l’unico così ed è tra i pochi anche all’estero. A David Silva, per esempio, mancano le giocate e i movimenti da punta. A Theo Walcott, altro esempio, manca invece tutta la parte da centrocampista. I paragoni servono a capire le differenze. Cerci è un rimpianto di molti: chi non ha creduto in lui adesso deve pentirsi. In Brasile pare che il modulo di Prandelli lo possa penalizzare parecchio. Perché per il Ct gli esterni sono dei difensori che attaccano, non possono essere attaccanti che rientrano. Non nelle soluzioni provate fino a questo momento. A Cerci il ruolo che resta, quindi, è quello di seconda punta. Per carità, può andare bene. A Torino l’ha fatto meravigliosamente per tre quarti di campionato, ma onestamente il suo mondo è più defilato, il suo mondo ha un confine preciso che è la linea laterale destra, quella dalla quale lui parte verso il centro e poi può o infilare la difesa con un assist o calciare in porta. E poi come seconda punta ha quell’altro, cioè Cassano. Dicono sia sul depresso andante, Antonio.

 

Preoccupato di non giocare, forse un po’ amareggiato dal fatto che questo sarà il suo primo e ultimo Mondiale e rischia di farlo tutto partendo dalla panchina. Per come è lui, sta pensando: io che sono venuto a fare? Perché Cassano che non gioca non ha molto senso. Ma un disegno c’è, va solo capito quale sia. Ha vissuto la stagione migliore della vita: 13 gol (sfiorato il suo record di 14 nella stagione 2003-2004). Ha portato il Parma in Europa, prima che una sentenza amministrativa lo escludesse. L’ha fatto come piace a lui: elevando a semigrande una squadra normale, una rosa fatta da scarti di altre squadre. Biabiany, Amauri, Parolo, Gobbi, Paletta, Lucarelli, Obi. Una squadra praticamente identica a quella che l’anno scorso fece 49 punti in 38 giornate e che quest’anno è arrivata sesta. Antonio migliora gli altri e infatti ancora una volta è stato il giocatore del campionato che ha fatto più assist (dove per assist s’intende l’ultimo passaggio che libera al tiro anche se poi il tiro non diventa gol). E’ un altruista che gioca al singolare, perché ha bisogno di sentirsi il centro del mondo, o almeno il centro di un gruppo. Nell’Italia non lo è, non ancora. E’ l’unico, con Balotelli, che può diventarlo. Se entra e cambia una partita, può prendersi la Nazionale. E’ già successo in passato ad altri. Scoraggiati all’inizio, carichi a metà. E’ controintuitivo ovunque tranne che nel calcio e soprattutto tranne che in un Mondiale.