Luigi Angeletti, Susanna Camusso, Raffaele Bonanni (Foto Roberto Monaldo / LaPresse)

Pa alla prova dei sindacati

Sul moloch statale si parrà la nobilitate dei renziani

Marco Valerio Lo Prete

Concertazione no, ma neanche esuberi e tagli. Il quid possibile della riforma Pa

Roma. Saranno i sindacati, oggi, a saggiare per primi il tasso di “rivoluzionarietà” della riforma renziana della Pubblica amministrazione. Il ministro Marianna Madia, infatti, dopo aver letto e commentato le quasi 40 mila email spedite da cittadini e associazioni all’indirizzo “[email protected]”, alle 10 e 30 di stamattina incontrerà i rappresentanti dei lavoratori a Palazzo Vidoni per presentare loro le misure che poi venerdì arriveranno in Consiglio dei ministri. Rossana Dettori, segretario generale della Cgil Funzione pubblica, già ha fatto capire di non aver gradito il metodo della consultazione: “La Pubblica amministrazione avrebbe avuto bisogno non di un dibattito fatto di email, hashtag e post sui social, ma di una discussione vera”. Vedere il ministro a soltanto 24 ore di distanza dal Cdm che approverà un decreto legge (affiancato da misure di maggiore respiro contenute in un disegno di legge) assomiglia più a una “comunicazione” che alla tradizionale “concertazione”.

 

[**Video_box_2**]Sul merito della riforma, poi, Cgil, Cisl e Uil hanno ritrovato un’apparente unità d’intenti rispondendo ieri con i loro “45 punti” a quelli proposti dal governo. La sintesi della piattaforma sindacale, racchiusa in un tweet (ma non c’era bisogno di “una discussione vera” e non di “un dibattito fatto di hashtag”?), recita così: “#Renzi rinnova il mio contratto”. La salvaguardia dei livelli occupazionali, per usare un gergo più vicino al classico sindacalese, dev’essere dunque il primo obiettivo della riforma. Ha detto Giovanni Torluccio, segretario generale della Uil Pa: “Prevediamo che, qualora non vi siano risposte – non per garantire i pubblici dipendenti ma i servizi ai cittadini attraverso i pubblici dipendenti – ci saranno contestazioni che potrebbero diventare forme di lotta importante”.

 

Come risponderà il governo? Sul “metodo”, innanzitutto, l’esecutivo non è sceso a compromessi: la concertazione in pianta stabile con le parti sociali non è stata finora riabilitata. Sul merito il discorso si fa più complicato. Soprattutto, un giudizio definitivo si potrà dare soltanto dopo l’approvazione dei primi testi normativi. Anche perché i sindacati non sono gli unici a incalzare il governo. Ieri, per esempio, la Corte dei Conti ha diramato una nota in cui si legge che “l’esigenza di garantire il buon andamento della magistratura contabile subirebbe un irreparabile vulnus” nel caso in cui fosse eliminato “l’istituto del trattenimento in servizio”, con 90 magistrati contabili sui 430 in servizio costretti a lasciare nel prossimo quinquennio. I dipendenti pubblici oggi possono restare in servizio per un biennio dopo l’età pensionabile: il governo, eliminando il trattenimento in servizio, ritiene di poter liberare 10 mila posti per i giovani nel settore pubblico (“pura fantascienza”, hanno commentato i sindacati che prevedono un numero molto inferiore di “posti liberati”). Questa, nelle attese dell’esecutivo, doveva essere una delle misure meno impopolari. Un meccanismo teoricamente utile a realizzare il progetto originario di una “staffetta generazionale” nella Pa. Evidentemente, quando si tenta di mettere mano al moloch statale, tutto è più difficile di come sembra. Lo sanno bene Sabino Cassese, Franco Bassanini e Renato Brunetta, i tre estensori delle ultime riforme della Pa negli ultimi vent’anni. Anche il governo, che pure ostenta uno slancio riformatore ancora intatto, ne è consapevole.

 

Il paradigma Cottarelli vale ancora?

 

Un po’ di pragmatismo, dunque. Non a caso le fondamenta della riforma non sono più esattamente le stesse proposte da Carlo Cottarelli qualche settimana fa. Il commissario governativo per la Revisione della spesa pubblica oggi è ancora a Via XX Settembre per “piccole questioni burocratiche”, assicurano dal governo, anche se la sua destinazione finale – come ha scritto il settimanale Panorama – è Largo Chigi (il ministero delle Riforme di Maria Elena Boschi) e non Palazzo Chigi come si era detto. Il ricordo delle slide di Cottarelli dev’essere un po’ troppo per Renzi: l’ex dirigente del Fmi, a marzo, aveva infatti previsto “esuberi per almeno 85 mila unità al 2016” dalla Pa e 3 miliardi di risparmi che ne sarebbero discesi. Parlava a titolo personale, si disse. In effetti la scelta politica è quella di non puntare esplicitamente su riduzioni del personale e tagli alla spesa. Almeno su questo i sindacati l’avrebbero spuntata.

 

Renzi dunque arretra? L’Istituto Bruno Leoni, think tank liberista diretto da Alberto Mingardi, sostiene che “parlare di riforma della Pa senza mettere nel mirino ben definiti obiettivi in termini di risparmio di spesa, per le diverse amministrazioni, è una presa in giro”. I più rigoristi poi potrebbero far notare che l’esecutivo nelle ultime ore ha già aperto a un rinnovo della parte economica del contratto nazionale (bloccato dal 2009). Ha già fatto retromarcia sull’introduzione dell’“esonero dal servizio” (ipotizzato anch’esso da Cottarelli), cioè la possibilità che il lavoratore sia lasciato a casa con qualche anno di anticipo rispetto alla pensione, con stipendio ridotto al 50-60 per cento. Inoltre sull’obbligatorietà dell’iscrizione delle imprese alle Camere di commercio si teme un compromesso che non semplificherà la vita alle aziende. Sulla riduzione del 50 per cento dei permessi e dei distacchi sindacali nella Pa, perlomeno, l’esecutivo non sembra disposto a cedere.

 

Queste tuttavia diventeranno “schermaglie politico-sindacali” di importanza minore se la riforma inciderà comunque su tre aspetti di fondo: selezione e formazione del personale, regole di condotta per la dirigenza e privatizzazione del rapporto d’impiego della Pa. Così la pensa Giovanni Valotti, ordinario di Economia delle aziende e delle amministrazioni pubbliche alla Bocconi, uno dei massimi esperti in materia: “Venerdì si vedrà se il futuro della Pa sarà un lungo declino oppure ci sarà un’inversione di rotta. Oggi, a differenza che altre volte in passato, anche i tempi e la società sembrano maturi – dice al Foglio – Sui meccanismi di selezione, pur salvaguardando l’imparzialità dei concorsi, occorre per esempio abbandonare l’approccio meramente nozionistico. Esattamente come nel settore privato o nella Pa europea, al momento della selezione si verifichi piuttosto la capacità di ricoprire certi ruoli nella Pa: quindi di gestire soldi, persone, progetti. Nei prossimi anni, considerata l’età media nella Pa, il turnover sarà comunque fortissimo. Perciò la selezione dei nuovi assunti sarà ancora più importante”. Se una svolta in tal senso ci sarà, lo si capirà dal disegno di legge più che dal decreto di venerdì, anche perché a breve non sono molte le possibilità di assunzione. Valotti auspica poi una “privatizzazione del rapporto di impiego” nella Pa. Vale a livello dirigenziale, in primis: “Più responsabilità, più meccanismi premiali ma anche più possibilità di licenziare”. Poi molto dipenderà da come sarà definita la possibilità di demansionare i dipendenti. E soprattutto da come sarà trattato il tema della mobilità: secondo le bozze governative, i dipendenti potranno essere spostati da una sede all’altra anche senza il loro consenso e soprattutto senza attendere il via libera dell’ente ricevente: “All’estero la mobilità non è temuta. Anche da noi, più che una punizione, deve diventare una condizione per fare carriera”, conclude Valotti.