Un Giro di romanzi

Giovanni Battistuzzi

Ci sono universi paralleli che non si incontreranno mai, altri che si intersecano come andassero a braccetto. Universi amanti e vicini, altri opposti e distanti. Universi fisici, materiali, che si possono vedere, toccare. Altri ipotetici, solo presunti, immaginari. Ci sono universi particolari, letterari, scritti con prosa elegante, retorica o sentimento, altri veloci, passionali, sportivi a volte. Universi che si stringono e camminano su una strada comune e non si lasceranno mai, si sovrappongono, diventano una cosa sola. Altri che si prendono e si lasciano, si ritrovano magari, oppure si perdono per sempre dopo il primo abbraccio.

    Ci sono universi paralleli che non si incontreranno mai, altri che si intersecano come andassero a braccetto. Universi amanti e vicini, altri opposti e distanti. Universi fisici, materiali, che si possono vedere, toccare. Altri ipotetici, solo presunti, immaginari. Ci sono universi particolari, letterari, scritti con prosa elegante, retorica o sentimento, altri veloci, passionali, sportivi a volte. Universi che si stringono e camminano su una strada comune e non si lasceranno mai, si sovrappongono, diventano una cosa sola. Altri che si prendono e si lasciano, si ritrovano magari, oppure si perdono per sempre dopo il primo abbraccio. Universi che si credono lontanissimi, ma che invece sono prossimi, talmente vicini da essere la stessa cosa: a cambiare è solo il nome, nonostante nessuno noti la loro similarità. E così, ad esempio, si pensa a uno scrittore, seduto su una sedia, con una pipa o un sigaro in bocca, curvo su una tastiera di computer, o una macchina da scrivere, o sulla propria penna, intento a pensare, magari guardando fuori dalla finestra, un po’ emaciato, scolorito. E così, ad esempio, si pensa a un ciclista, elegante sulla propria bicicletta, affrontare salite che sembrano muri, steso sul manubrio a mulinare rapporti e a divorare asfalti, abbronzato solo dove il sole batte. Nulla di più lontano, nulla di più diverso, eppure la stessa cosa, quasi: creatori di storie, d’immagini, di gesta da raccontare. Perché il ciclismo non è altro che una storia, un percorso che si presta a essere messo in prosa. Perché lo scrittore ha bisogno di un tema da svolgere, di una trama da far vivere. Scrittori e ciclismo, universi diversi, ma vicini più di quanto si è portati a pensare. Achille Campanile il precursore di una stirpe di viaggiatori della prosa, padre, almeno d’avventura, di Alfonso Gatto, di Dino Buzzati, di Vasco Pratolini e Anna Maria Oriani, osservatori voraci e poco importa se quasi analfabeti di ciclismo, di tecnicismi, di conoscenze meccaniche e storico-ciclistiche. La cronaca è materia per giornalisti. Non di sola cronaca vive però il ciclismo, ma soprattutto di storie, di retroscena, di imprese che risuonano di epica a pedali, di gente assiepata a bordo strada, frementi nell’attesa di vedere i loro miti passare, anche se solo per un attimo. Quei pochi secondi rappresentano un evento, un’emozione imperdibile, fortissima, qualcosa di indimenticabile. Questo è il bello di questo sport, l’attesa, tutto ciò che gravita attorno al gesto del campione, alla fatica del gregario; il preambolo, il palcoscenico, infine il sipario dell’evento.

    Gli universi hanno un’estensione, ma soprattutto una storia e ogni storia ha un inizio. Il ciclismo in Italia ha origini ottocentesche; 1870, 3 febbraio, Firenze-Pistoia, prima gara, non solo d’Italia, d’Europa. 33,3 chilometri, vinse Rynner Van Heste, nobile statunitense. Il ciclismo in Italia è però, soprattutto, Giro d’Italia. Prima edizione nel 1909, quasi 40 anni dopo. Da allora sono passati 104 anni e 97 edizioni (quella di quest’anno si concluderà domani a Trieste). Tutto è cambiato, soprattutto il ciclismo: dai pionieri su biciclette da 15 chili a scatto fisso e un unico rapporto, ai professionisti su mezzi ultraleggeri, in carbonio monoscocca da nemmeno 7 chili; dai baffi a manubrio ai visi e gambe glabre; dai distacchi abissali alle corse decise da poche decine di secondi; dalle imboscate alle radioline comanda gruppo; dagli uomini soli al comando al tutti assieme appassionatamente sino agli ultimi chilometri e poi sia quel che sia. A non essere cambiato è il contorno. Uomini e donne a bordo strada, ora come un tempo, le adunate sulle montagne della corsa rosa, le bici ancora protagoniste, sicuramente diverse, più nuove e funzionali, ma sempre uguali a loro stesse, sempre rispondenti al vecchio e intramontabile diktat: per muoversi bisogna pedalare. La differenza tra oggi e un tempo sono gli scrittori, le penne prestate al ciclismo. C’è stato Fabio Genovesi, prima blogger, poi autore di romanzi, inviato dal Corriere della Sera al Giro del 2013, certamente, c’è Marco Pastonesi, giornalista di professione alla Gazzetta dello Sport, ma scrittore più di altri. Mosche bianche in un mondo che sembra aver abbandonato questo sport.
    Saranno stati gli scandali legati al doping, sarà stato l’oblio che ha avvolto per anni la bicicletta, sarà stata la televisione che ormai trasmette quasi interamente l’evento, sarà che il Giro è diventato ormai industria, carrozzone, ma il panorama ciclistico vive ormai solamente di cronaca e sembra aver dimenticato il contorno e tutto ciò che gravita attorno al Giro, sembra aver scordato di essere romanzo e non solo mero resoconto. Ha dimenticato di essere, citando le parole di Anna Maria Oriani “il maggio più straordinario, più affascinante e anche il primo e l’ultimo maggio d’infanzia. Perché chiunque parta col Giro diventa, per un mese, bambino”.

    Bambino probabilmente lo è stato, almeno per una ventina di giorni, anche Achille Campanile, quando nel 1932 venne inviato, suo malgrado, al Giro d’Italia dalla Gazzetta del Popolo. Lo scrittore stava finendo di scrivere un romanzo, “Città” (mai pubblicato), quando lo chiamò il direttore del quotidiano, Ermanno Amicucci, e, dopo un tira e molla di qualche giorno, partì per la corsa rosa. Così almeno scrive l’autore nella prefazione dell’opera. Se davvero così è stato, non è dato a sapersi. Lo scrittore romano, infatti, riporta i fatti di quel Giro in modo talmente assurdo e paradossale che sorge il dubbio che a quell’evento sportivo ci sia davvero andato. Poco importa, rimane l’indiscusso valore narrativo e letterario di “Battista al Giro d’Italia”. Campanile descrive la corsa dal gruppo, o meglio dalla coda, fingendosi corridore e capitano della fantomatica formazione dei “Sempre in coda”, la compagine degli ultimi in classifica, capeggiata da lui e dal suo fantomatico servitore Battista, uomo dai “bianchi favoriti, dignitosissimo in bicicletta”. Nel suo racconto, un nonsense ciclistico-narrativo lungo 13 tappe e 10 soste, riporta le gesta degli “isolati” (ovvero la categoria di allora dei senza squadra, di quei corridori non supportati da una casa di biciclette) che parteciparono al Giro d’Italia vinto da Antonio Pesenti.
    Nella sua narrazione assurda e umoristica, descritta con finto intento cronachistico, Campanile riporta la vita del ciclista, le problematiche che vivevano gli isolati, le loro peripezie in un’Italia che sognava il progresso, che inseguiva il mito futurista della velocità, ma che si emozionava, più che per le automobili, per le imprese degli assi del pedale. Reale e immaginario si fondono senza soluzione di continuità e il lettore è immerso in una divagazione continua, in una descrizione degli eventi che abbraccia l’assurdo, non scordando mai però il nucleo base della passione ciclistica, ovvero l’ammirazione dello sforzo sovrumano che accompagna sempre il pedalare. “Il Puma di Cercola ha un diavolo per capello; e non ha tutti i torti. Nella sosta a Napoli i cittadini di San Giovanni a Teduccio hanno dato a Improta, il Leopardo indigente, 150 lire, i cittadini di Barra hanno sussidiato Liguori, il Giaguaro del luogo, con 400 lire. Gli abitanti di Cercola, non hanno dato invece nemmeno un soldo a lui che, come è noto, è il Puma di quella frazione di Napoli”. In Campanile non c’è spazio per i campioni decantati dalla stampa, gli Alfredo Binda (ovvero il Signore della Montagna, secondo il soprannome in voga allora), i Learco Guerra (la Locomotiva Umana) o gli Joseph Demuysère (il primo Leone delle Fiandre). Sono i senza fama del ciclismo i suoi eroi, gli Improta, il Leopardo di San Giovanni a Teduccio, i Liguori, il Giaguaro di Barra o i Perna, il Puma di Cercola. Campanile esalta gli ultimi, diversi anni prima dall’introduzione della maglia nera che rese immortali personaggi come Malabrocca, Carollo o Bini, quelli che adesso farebbero i gregari, insomma, l’esercito di soldati del pedale dalla grande forza d’animo, ma dalle normalissime capacità atletiche.

    Il divertissement di Campanile, il ciclismo visto come macchietta, vissuto con fine ironia (permessa dal mecenatismo della stampa politica in quanto “fa lavorare gli scrittori, mettendoli in grado di trarre dal proprio lavoro i mezzi di vita” e li fa lavorare a modo loro, nel modo che ritengono più idoneo a farsi leggere), diventa nel secondo Dopoguerra racconto dell’Italia. La bicicletta è intesa come fuga dalla quotidianità, dalla distruzione che ha provocato la Seconda guerra mondiale, ma non dimenticando mai quest’ultima.
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    Negli scritti di Alfonso Gatto, inviato per l’Unità al Giro del 1947, questi elementi si bilanciano, si fanno racconto, conciso e preciso, ma elegante. C’è politica e sport, descrizione e narrazione, qualche volta anche un po’ di cronaca, che non pesa, che si limita a riportare i fatti della corsa e poi scompare nel flusso del racconto delle emozioni. L’incipit è chiaro: “La confidenza che vi farò, tenetevela per voi. Sarò l’unico inviato che non sa andare in bicicletta. ‘Vergogna’, direte voi. Me lo dico anch’io e non da oggi. Però, per il nostro giornale che vantaggio! Riuscirete a immaginare le emozioni in servizio esclusivo che riceverò, le mie meraviglie per episodi e per incidenti che gli altri miei colleghi nemmeno prenderanno sul serio, il mio originale stupore per quei benedetti ragazzi che riusciranno a volare su due ruote sole come angeli?”. Un viaggio alla ricerca del realismo sentimentale durante il quale il poeta si lascia trasportare dalla corsa, ne riassume le sensazioni, i duelli, il paesaggio. E così i lettori vivono il duello di Bartali, il vecchio campione di fede cattolica, e Coppi, il giovane campione che sembra immagine stessa del comunismo, vivono i due volti dell’Italia di allora, personificati proprio in Coppi e Bartali, diventati reali. Vivono però soprattutto le loro immagini di uomini. “Bartali ha avuto un sogno”, scrive Gatto alla vigilia del tappone dolomitico, “per la vetta del Pordoi egli saliva affaticandosi portando sulle spalle una gerla di mattoni. Giunto in cima la scaricava tornando indietro a capofitto nella discesa a prenderne un’altra”. Sogno e realtà, Giro d’Italia. Il poeta salernitano guarda tutto con occhi innocenti, di bambino divertito dal contesto, con passione pura e trasporto verace.

    Sempre nel 1947 anche Vasco Pratolini seguì la corsa dalla carovana come inviato del Nuovo Corriere. Il suo occhio però è totalmente opposto a quello del collega. Nulla è puro, tutto è corrotto. La sua narrazione descrive il vivo entusiasmo dei paesi che il Giro attraversa, riporta i drammi di un’Italia che prova a uscire dalla distruzione della guerra. Gli scenari sono città e paesini distrutti, lungo i quali i girini “pedalano tra macerie e strade rattoppate, tra scheletri di palazzi un tempo eleganti, ma ora feriti, ansimanti, comatosi”. Si concentra sui retroscena del Grande Circo Barnum, come soprannomina il Giro, sul non detto della corsa: “L’industria è il mecenate del ciclismo. E’ negli interessi delle case il ‘giuoco di squadra’, e il giuoco di squadra è la palla al piede della libertà sportiva, l’acqua a rovesci sui falò della combattività e dell’ardimento. Non vi aspettate nulla di nuovo fino alle Dolomiti, questi sono gli ordini di squadra. Ci saranno fughe e scaramucce, vincerà Conte, Bertocchi o Leoni, vinceranno Malabrocca, Pugnaloni o Ausenda le prossime tappe, se alle squadre maggiori farà giuoco un arrivo isolato dei cacciavite. Una rete di compromessi, di accordi, di parole date e rispettate o intercorse colà dove si può ciò che si vuole che legano più o meno fra loro i 57 superstiti… Andrà a finire che prenderemo il treno e li aspetteremo a Pieve di Cadore. Così vi invito a fare, bar San Piero di tutta la Toscana. Bisogna, qualche volta saper tenere il broncio a chi si ama, appunto perché si ama”. Una critica al vetriolo, un realismo duro, puro, spietato, apprezzato dal giornale e dai lettori, ma mal visto dai giornalisti di professione, dai “docenti del ciclismo”, a tal punto da nominarlo reporter sgradito, da far decidere ad Armando Cougnet, patron della corsa, di non invitarlo alla serata conclusiva di gala.

    Incontro tra le esperienze di Gatto e Pratolini, furono le “cronache” che scrisse Dino Buzzati nel 1949 per il Corriere della Sera del Giro. Il suo resoconto giornalistico fu una panoramica dell’Italia, della gente a bordo strada, ma fu anche epica, narrazione di uno scontro fra titani, tra l’antico Bartali e il moderno Coppi, sogno, viaggio, fantasia. Anche lui ineducato alla materia ciclistica descrive lo scenario, cerca di entrare all’interno del Giro con passo felpato, con occhi attenti. Si stupisce del calore umano al sud, della fatica nei volti degli atleti lungo le traversate appenniniche, descrive i paesaggi colpiti da distruzioni passate, le ricostruzioni in corso, la passione con la quale le persone festanti che aspettano il passaggio dei corridori. L’iniziale distacco dello scrittore veneto che, per sua stessa ammissione “in fatto di ciclismo è una completa bestia; non sa niente di cambi e di moltipliche, non ha nessuna chiara idea circa la strategia di corsa”, si trasforma, tappa dopo tappa, in passione sincera. Il viaggio in un’Italia “essenziale e plastica, dei mestieri ruderi e colmi di storia, l’Italia delle querce e dei cipressi, delle immense ville sedute sui declivi come imperatrici stanche, l’Italia dei muri gibbosi carichi di stemmi, delle autovetture che tutte sdrucite si precipitano vorticosamente giù per le valli, l’Italia delle chiese antichissime, dei minuscoli caselli ferroviari (…) delle Madonne incastonate negli angoli delle case con il lumino sempre acceso”, diventa narrazione di un amore a tappe, dove i protagonisti, da semplici ciclisti si trasformano in eroi. Dalle pianure “indifferenti” all’apoteosi della montagna, madre di ogni impresa, dispensatrice di racconti. Passate le Dolomiti, casa e balia di Buzzati, troppo amate per poter essere scenario di scontro, il racconto dello scrittore esplode nelle Alpi piemontesi, durante la tappa per antonomasia, la Cuneo-Pinerolo. E’ lì che i duellanti diventano eroi, è lì che Coppi si fa Achille e Bartali Ettore. “Quando oggi, su per le terribili strade dell’Izoard, vedemmo Bartali che da solo inseguiva a rabbiose pedalate, tutto coperto di fango, gli angoli della bocca piegati in giù per la sofferenza dell’anima e del corpo – e Coppi era già passato da un pezzo, ormai stava arrampicando su per le estreme balze del valico – allora rinacque in noi, dopo trent’anni, un sentimento mai dimenticato.
    Trent’anni fa, vogliamo dire quando noi si seppe che Ettore era stato ucciso da Achille. E’ troppo solenne e glorioso il paragone? (…) Fausto Coppi certo non ha la gelida crudeltà di Achille: anzi, tra i due campioni è certo il più cordiale e amabile. Ma in Bartali anche se scostante e orso, anche se inconsapevole, c’è il dramma come in Ettore, dell’uomo vinto dagli dèi. (…) Contro una potenza sovrumana ha lottato Bartali e doveva perdere per forza: la potenza malefica degli anni”. Il racconto di Buzzati diventa lirico, diventa manifestazione di un cambio di sentimento, dall’incertezza alla partecipazione, dal velato disinteresse alla passione per il Giro, che si fa rimpianto una volta terminato. “E’ stato un Giro d’Italia duro, ci ha dato qualche giornata di noia, qualche giornata, diciamolo pure, di scoramento, ma ci ha offerto momenti di emozione indimenticabile (…). Ne abbiamo invocato tante volte la fine ma ora che è finito lo rimpiangiamo: ora che non c’è più ne sentiamo la nostalgia. Quanti chilometri la tappa di domani? Domani non c’è tappa. Peccato!”. Domani il Giro finirà, almeno per quest’anno; a Trieste si concluderà il viaggio. Peccato.

    Giovanni Battistuzzi è autore del libro “Girodiruota - Viaggio in bicicletta, tappa dopo tappa, alla ricerca del Giro d’Italia” (216 pp., 15 euro), uscito in questi giorni per Stampa Alternativa - Nuovi Equilibri.