E' di nuovo Cool Britannia

Paola Peduzzi

Andare a vedere una casa in vendita, a Londra e nel sud-est del Regno Unito, è come imbucarsi a una festa. Tutti ti guardano male appena varchi l’ingresso, studiano come sei vestito, che borsa hai, se ci sono segni apparenti del tuo status sociale. Cercano di capire quali sono le tue reali intenzioni, e se possono, ti smascherano, non sei stato invitato, vai via. Gli esperti dicono che la bolla immobiliare, a Londra in particolare, scoppierà a breve: l’anno scorso i prezzi sono cresciuti del 9,1 per cento in tutto il paese, ma a Londra il tasso è raddoppiato, e soltanto nel 2014 si registra un aumento del 5,3 per cento.

    Andare a vedere una casa in vendita, a Londra e nel sud-est del Regno Unito, è come imbucarsi a una festa. Tutti ti guardano male appena varchi l’ingresso, studiano come sei vestito, che borsa hai, se ci sono segni apparenti del tuo status sociale. Cercano di capire quali sono le tue reali intenzioni, e se possono, ti smascherano, non sei stato invitato, vai via. Gli esperti dicono che la bolla immobiliare, a Londra in particolare, scoppierà a breve: l’anno scorso i prezzi sono cresciuti del 9,1 per cento in tutto il paese, ma a Londra il tasso è raddoppiato, e soltanto nel 2014 si registra un aumento del 5,3 per cento. Se si vuole diventare proprietari di una casa – e chi non vuole? Gli inglesi stanno ritornando ad avere fiducia nel futuro, consumano e risparmiano e riconsumano – è bene affrettarsi. Gli agenti immobiliari, per sostenere una domanda tanto travolgente (finché dura), organizzano appuntamenti collettivi per vedere le case, ci si ritrova anche con 50 persone fuori dal portone assieme a te. I visitatori sono infastiditi: ti viene l’ansia a guardare una cabina armadio pensando che quello di fianco starà per rubarti l’occasione, c’è una competizione bestiale e finisce che non ti soffermi a controllare se gli infissi sono nuovi, perché devi fare calcoli tutto il tempo. Quanto posso offrire, quanto vale, ma se viene quella burina con le ginocchia enormi a guardare casa con me non sarà che sto sbagliando tutto? Ti dimentichi di controllare se c’è l’attacco per la lavatrice, perché c’è poco tempo, e quel signore così sorridente dell’agenzia è già pronto a dirti che “sorry”, quella splendida casa con affaccio su giardinetto è già stata venduta (ma intanto ti dice di tenerlo, l’orsetto di peluche che ti ha regalato per il bimbo al seguito: ormai le famiglie li conservano per ricordarsi quante case sono andate a vedere, c’è un riciclo permanente su eBay).

    Gli “open house” sono il segnale di un paese che sta bene, ma che ha sperimentato anche che si può stare male, e tanto, in pochissimo tempo – soprattutto quando c’è il mercato immobiliare che fa tali e tante follie. Al di là dello stress della fila sui pianerottoli, la fiducia c’è. I dati confermano: l’economia è cresciuta dello 0,8 per cento nel primo trimestre del 2014, allargandosi rispetto allo 0,7 degli ultimi tre mesi del 2013. Su base annuale si tratta di una crescita del 3,1 per cento, un valore che rende il Regno Unito l’economia che si sta espandendo a ritmi più veloci di tutto il G7. A differenza di quanto avviene in altri paesi che pur crescono di nuovo, anche i dati sull’occupazione sono rassicuranti. Come ha ricordato Bloomberg Businessweek, il premier David Cameron e il suo cancelliere dello Scacchiere, George Osborne, erano stati derisi quando sostenevano che gli incentivi al business avrebbero riassorbito quei lavoratori che, in seguito ai tagli, avrebbero perso il posto nella Pubblica amministrazione. Invece è andata proprio così: l’occupazione nel settore pubblico è scesa del 13 per cento rispetto al 2009, l’occupazione nel settore privato è salita di oltre il 10 per cento nello stesso periodo (il tasso di disoccupazione generale è del 6,9 per cento, nell’Eurozona è dell’11,9). Secondo i dati del budget di marzo, i programmi di austerità del governo hanno portato a un taglio delle spese di 64 miliardi di sterline (circa 78 miliardi di euro) con un risparmio totale che nell’anno fiscale 2015-’16 sarà di 101 miliardi di sterline (123 miliardi di euro). L’austerità è stata aiutata anche dalla Banca centrale inglese che è sopravvissuta alle critiche, ha ingoiato tutti gli editoriali e i commenti su quanto fosse colomba e poco coraggiosa e ha tenuto i tassi di interesse bassi. E’ anche grazie a questa collaborazione che oggi si può esultare: l’austerità funziona!

    [**Video_box_2**]Non festeggiano tutti, naturalmente. Sull’approccio alla crisi – spendere o tagliare – da anni è in corso un dibattito duro e interessante. Tutto quel che gli studenti delle facoltà economiche hanno letto nei libri negli ultimi anni è diventato vita vera: i keynesiani e i friedmaniani si sono incarnati in corpi e idee nuove e hanno forgiato le politiche economiche moderne (ora che c’è Thomas Piketty a far impazzire il mondo anglosassone, dopo aver subìto la totale distrazione della sua Francia, si va ancora più alle origini del dibattito, con Marx e la mitica curva di Kuznets, dal nome del premio Nobel bielorusso che diede all’economia una rinfrescante faccia empirica). Non è un caso quindi se ieri sul Financial Times Lawrence Summers abbia raggelato chi osa celebrare i fasti dell’austerità: Summers è noto per aver scelto, quando lavorava alla Casa Bianca di Barack Obama nel primo mandato, la via della spesa più che quella dei tagli (è noto anche perché s’addormenta spesso agli incontri pubblici: l’ultimo scatto lo ritrae abbioccato proprio a una presentazione del libro della rockstar Piketty). Secondo l’economista americano, la situazione britannica di oggi “conferma l’allarme di J. M. Keynes, quando diceva di stare attenti ai tagli del budget indiscriminati nel bel mezzo di una fase economica depressa”. Il Regno Unito cresce a ritmi forsennati perché era andato molto più in basso degli altri (“il buco che s’è scavato da solo”, secondo le parole di Summers): gli Stati Uniti crescono meno, ma producono più di quanto facessero prima della crisi, e lo stesso vale per l’area di New York, che come il Regno Unito è strettamente dipendente dal settore finanziario. Summers non crede che i dati inglesi siano legati alla politica del rigore: dopo la Grande depressione, gli Stati Uniti crescevano del 9 per cento, ma solo perché, appunto, non erano mai andati tanto in basso come nei primi anni Trenta. Anzi, se proprio bisogna andare a vedere bene, sottolinea Summers, l’austerità dell’inizio, quella che l’Economist immortalò con una copertina con Cameron con la cresta da punk, si è ammorbidita: quindi si può dire che la crescita deriva proprio dall’allentamento dell’austerità. E poi c’è la bolla immobiliare che non va sottovalutata, scrive Summers, con quel programma dello stato a sostegno dei prestiti per i mutui – si chiama Help to Buy – fatto apposta per rivoltarsi contro i suoi creatori (per non parlare dei problemi di redistribuzione che derivano dall’incentivo all’acquisto della casa e non all’affitto). “Può essere che per gli inglesi questa (soluzione economica, ndr) sia stata l’alternativa migliore, ma non dovrebbe costituire fonte d’ispirazione per nessun altro paese”, conclude Summers.

    Resta sempre l’incognita che non si sa come sarebbe andata se le politiche adottate fossero state diverse, lo stesso Summers conosce bene la questione, visto che ripete spesso che nell’emergenza del 2009, di fronte al collasso dei sistemi finanziari e poi del contagio all’economia reale, non c’erano alternative ai programmi di stimolo multimiliardari introdotti dall’Amministrazione Obama. Non si sa come avrebbe potuto essere, si sa com’è ora. E cioè che, ritornando al Regno Unito, i politici stanno litigando perché c’è una grande azienda americana che vuole andare a comprare una grande azienda britannica per ragioni per lo più fiscali. Cioè: nel paese dell’austerità che ha visto nel 2008 scappare soldi e cervelli con gli scatoloni tra le mani ora è diventato di nuovo molto conveniente investire. Non soltanto per gli individui, come ripetono i francesi che scappano inorriditi dalla pressione fiscale introdotta dalla presidenza Hollande (che ancora non ha dato i suoi buoni effetti, ammesso che ci siano, visto che ancora ieri la Commissione europea ha detto che con tutta probabilità la Francia non manterrà le sue promesse di crescita e rigore nemmeno per quest’anno), ma anche per le aziende.

    Stiamo parlando della volontà di Pfizer di acquisire AstraZeneca (non potete non esservene accorti: gli articoli che parlano di questo affare sono tutti colorati di blu, ché Pfizer produce le pilloline blu meglio note come Viagra). L’offerta vale 106 miliardi di dollari, è appena stata rialzata dopo che gli inglesi avevano rifiutato il primo approccio ma il valore ufficiale sarà presentato entro il 26 maggio, e dalla Pfizer non fanno mistero che l’investimento porterebbe anche una efficienza fiscale che per un colosso globalizzato come questo non può che essere utile: l’azienda americana ha intenzione di mettere la sede fiscale nel Regno Unito. Non si tratta della prima acquisizione che ha un obiettivo fiscale: anche la francese Publicis (nel settore pubblicitario) e l’americana Omnicom puntano a creare un nuovo colosso che abbia sede fiscale a Londra.

    Agli inglesi non piace che, mentre portano il peso dell’austerità, le grandi aziende arrivino nel paese soltanto per usufruire di benefici fiscali, e il Parlamento ha aperto un’indagine sul funzionamento – e le eventuali distorsioni – delle corporate tax. Ma la politica, che ha a cuore i posti di lavoro ma anche la credibilità del paese sui mercati, ha fatto di tutto per far tornare i capitali: è stata proposta una tassa corporate al 10 per cento che sarebbe più bassa della già bassissima aliquota che c’è in Irlanda, pari al 12,5 per cento. Il sindaco conservatore di Londra, quel Boris Johnson che tra tutti spicca per originalità e follia, ha fatto pubblici appelli ricordando quanto sia di nuovo cool e conveniente mettere soldi e progetti nel Regno Unito. Ed è anche per questo che l’affaire di AstraZeneca si è trasformato in pochi giorni in un caso politico-ideologico che ha a che fare con la crescita, con l’interesse nazionale e con la visione di un paese che, il 7 maggio del 2015, andrà al voto (il Regno Unito è in campagna elettorale perenne, non si ferma mai). Ed Miliband, leader laburista in grande affanno negli ultimi mesi, da quando cioè l’economia ha ricominciato a girare togliendogli la possibilità di criticare la strategia del governo, ha denunciato Cameron come “una cheerleader” della Pfizer: ci vorrebbe “un test di pubblico interesse”, ha scritto Miliband in una lettera inviata direttamente al premier, quando si parla di acquisizioni di aziende strategiche come la AstraZeneca (è il secondo gruppo farmaceutico britannico).

    Il leader laburista sostiene che molto spesso i benefici previsti da grandi fusioni non si sono realizzati, e in questo caso il rischio di fallire è alto. Da Downing Street hanno fatto sapere che l’esecutivo non è una cheerleader, “combatte per i posti di lavoro britannici e per la scienza britannica”: Pfizer ha infatti promesso che il 25 per cento dell’unità di ricerca e sviluppo, così come una “grande presenza manifatturiera”, resteranno in Inghilterra per i prossimi cinque anni. Chuka Umunna, ministro del Business ombra nonché astro nascente del Labour (è uno che quando gli dicono che assomiglia a Peter Mandelson inorgoglisce invece che inorridire come fanno tutti i suoi compagni di partito), dice che bisogna fare di più per proteggere le aziende strategiche: nelle sue parole – è stato intervistato da Sky News – non si sente l’eco di quel che fa, per esempio, Arnaud Montebourg, in Francia, quando si mette di traverso nelle acquisizioni straniere per puro pregiudizio ideologico. Umunna vuole maggiori garanzie, vuole che il Regno Unito non diventi preda nelle battute di caccia dei mercati. Al cuore del suo discorso ci sono due temi che nelle prossime settimane – prima delle europee – e ancor più in vista del voto dell’anno prossimo ricorreranno spesso: il rapporto con il business e la “britishness”.

    Da quando lo spregiudicato Tony Blair ha lasciato la guida del Labour, il partito si tormenta nel suo rapporto con le aziende e più in generale con il capitalismo. L’irresponsabilità di banchieri e finanzieri nel 2008 ha fatto sì che i laburisti si spostassero sempre più in quell’area della sinistra che vede le corporation come un male da combattere. La ripartenza economica e una buona dose di concretezza hanno contenuto questa deriva, soprattutto perché l’Inghilterra vive di servizi, e di servizi finanziari: se non è più sicuro stare a Londra, il mondo offre molte altre alternative. Una soluzione ai tormenti non è ancora stata trovata: sul New Statesman, rivista della sinistra fabiana, c’è un articolo che spiega che la battaglia tra chi vuole un “manifesto radicale” che ripensi il capitalismo e chi invece vuole un ripensamento più limitato è ancora in corso. Pare che stia vincendo l’ala radicale, capitanata da Miliband che non fa che citare ai suoi un pamphlet dell’anno scorso scritto da un suo collaboratore, Sadiq Khan, che si intitola “Our London” e che funge da linea guida per il cosiddetto manifesto radicale.

    Sul punto i conservatori non sono tormentati: hanno scelto il business e le loro politiche sono plasmate su questo target, anche se la City ha rumoreggiato spesso in passato nei confronti del governo. Gli insider spiegano che si tratta più di credibilità di questi giovani politici che di strategia in senso stretto: quando nel 2010 l’avventura di Cameron è iniziata, a crisi già scoppiata e senza una maggioranza forte, molti non si fidavano di lui. Le sue politiche rigorose, in anticipo su tutti, piacevano ma allo stesso tempo spaventavano: ce la faranno questi figli di papà prestati alla politica a sostenere i costi sociali e di consenso di una strategia così ambiziosa? A lungo tutti hanno risposto di no, poi ci sono state l’inversione dei dati, una prospettiva per il futuro più rosea, la promessa (la minaccia?) che l’austerità è per sempre, e la credibilità di Cameron è tornata alta. Semmai il punto più delicato, per i Tory che sperano di ribaltare i sondaggi e di vincere da soli l’anno prossimo, è la “britishness”. I conservatori subiscono l’attacco dell’Ukip di Nigel Farage, che sta facendo una campagna elettorale spietata per rubare la scena a chi tratta con gli europei e a chi non ha a cuore soltanto la sovranità nazionale britannica. Ora inizieranno i dibattiti, prima del voto di fine mese, e lo spin sui giornali degli ultimi giorni fa pensare che Cameron voglia castigare Farage almeno a parole (è allenato da quel mastino dei guru politici che si chiama Lynton Crosby, lo stesso che ha fatto andare Boris Johnson a City Hall), sperando così di contenere i danni nelle urne: l’Ukip raccoglie anche il voto di protesta, non soltanto quello antieuropeo, ed è in testa secondo i sondaggi. L’obiettivo dei Tory è di strappare all’Ukip il monopolio sulla “britishness”, soprattutto in vista del referendum scozzese per l’indipendenza (si vota il 18 settembre) che potrebbe mischiare, nell’immaginario collettivo, il fallimento delle promesse del governo sull’integrità territoriale con quelle sulla difesa dell’interesse pubblico.

    Per ora Cameron non si toglie il suo sorriso trionfale perché i numeri sono davvero buoni. Può non durare, la scommessa sul rigore permanente potrebbe essere pericolosa, ma l’aria da “Cool Britannia” di ritorno non c’è soltanto davanti alle tante case in vendita. Basta rivedere il video che ha aperto l’intervento di Barack Obama al Correspondent Dinner alla Casa Bianca, sabato sera. La protagonista è Selina Meyer, la vicepresidente protagonista della serie tv “Veep”, in onda su Hbo (interpretata da Julia Louis-Dreyfus). Selina sale su una Corvette gialla assieme a Joe Biden, vicepresidente americano (quello vero), va a mangiare un gelato cremosissimo nella cucina della Casa Bianca e viene scoperta da Michelle Obama che la sgrida in nome della sua fissazione per i broccoli, e finisce per farsi fare un tatuaggio assieme a Nancy Pelosi. Un’altra serie sulla politica americana, c’è da stupirsi? No, ce ne sono di straordinarie, ma questa è stata creata da Armando Iannucci, che è scozzese, e che è il cantore più cool che c’è della Britannia, e della sua politica (rivedersi “The thick of it” per credere).

    • Paola Peduzzi
    • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi