That win the best

L'italiano medio

Jack O'Malley

Se sento parlare ancora una volta di “modello inglese” metto mano alla bottiglia. Meglio darsi al brandy e addormentarsi dimenticando che leggere ancora dichiarazioni di “addetti ai lavori” (ma quali lavori, poi?) che non avendo risolto un tubo per trent’anni danno aria alla bocca dicendo che adesso basta, bisogna imitare il modello inglese senza sapere nemmeno di che parlano. Ho assistito basito alla buffonata di sabato sera, e ho avuto la triplice sfortuna di: vedere il siparietto di Genny; seguire una partita dal tasso tecnico mediocre; ascoltare la cronaca degli eventi fatta dai giornalisti della Rai.

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    Londra. Se sento parlare ancora una volta di “modello inglese” metto mano alla bottiglia. Meglio darsi al brandy e addormentarsi dimenticando che leggere ancora dichiarazioni di “addetti ai lavori” (ma quali lavori, poi?) che non avendo risolto un tubo per trent’anni danno aria alla bocca dicendo che adesso basta, bisogna imitare il modello inglese senza sapere nemmeno di che parlano. Ho assistito basito alla buffonata di sabato sera, e ho avuto la triplice sfortuna di: vedere il siparietto di Genny; seguire una partita dal tasso tecnico mediocre; ascoltare la cronaca degli eventi fatta dai giornalisti della Rai. Qui si tende a cazzeggiare, lascio perciò da parte il lato drammatico della vicenda (la sparatoria, i feriti…) e provo a soffermarmi sul fatto che, come sempre, la farsa ha preso il sopravvento sulla tragedia. Il capo ultrà ciccione in bilico sulla balaustra, la mimica da film muto di Genny, gli scugnizzi che fanno invasione di campo al 90’ minuto, la Digos e la polizia imbarazzati, sono [**Video_box_2**]solo i titoli iniziali della commedia all’italiana che è poi subito andata in scena durante e dopo finale di Coppa Italia. Pensateci, i personaggi tipici ci sono tutti: l’editorialista che moralizza dicendo che all’estero-queste-cose-non-succedono, le ridicole figure di contorno che saltano fuori (spesso con soprannomi da fumetto), il classico pentito che sapeva tutto e parla solo dopo (in Italia ne avete una sfilza, potrebbero coprire da soli lo scibile umano), i commentatori della Rai che spiegano che Genny è seduto sulla balaustra perché così può lanciare meglio i cori, i distinguo di chi si affretta a dire non-chiamiamoli-tifosi, i retroscenismi più assurdi, Genny che nel giro di 24 ore passa da pericoloso criminale a simpatica macchietta, ispiratore di brillanti hashtag e divertente meme su internet, fino alle interviste esclusive al capo ultrà che in tutto questo impazzimento sembra persino una persona ragionevole.

    Ma dove volete andare? Ma quale modello inglese? Perché il modello inglese funzioni bisogna essere inglesi, avere un governo, delle forze dell’ordine che si facciano rispettare, e due primi ministri come Thatcher e Blair. Voi avete cose molto più serie di cui discutere, tipo l’opportunità di mostrare su Facebook le belle chiappe di Paola Bacchiddu. Ma forse l’uomo giusto in Italia c’è già. Basta lamentarvi dello stato assente, dei politici inermi e silenziosi davanti ai soprusi delle curve e del tifo violento. Carlo De Benedetti ha capito tutto, prima ancora di vederlo domenica pomeriggio rispondere con un dito medio agli insulti dei tifosi del Torino: Piero Fassino presidente della Repubblica. Il sindaco di Torino ha la ricetta giusta: con la curva bisogna mediare.

    Paola Back-iddu. L’ex fogliante è così brava da meritarsi un posto tra le belle di “That win the best”. Vote for her

     

     

     

    Inno pop. Evito di scrivere cosa penso dei tifosi gallesi che fischiano sulle sacre note di “God Save the Queen” perché alla libertà ci tengo, ma sarei tentato di farlo per far capire quanto disgusto mi si agita nello stomaco (anche vuoto) quando sento una tifoseria che deturpa in vari modi un qualsivoglia inno nazionale. E questo vale anche per i calciatori che ridacchiano sapendo di essere inquadrati o per i politici che sbirciano lo smartphone per vedere quante volte sono stati ritwittati. Insomma, vicende tragiche a parte, l’inno italiano vilipeso è un’aggravante non da poco. Ma c’è anche di peggio: l’inno cantato da Alessandra Amoroso. Nulla da eccepire sulle qualità canore, per carità, ma la scelta di affidare l’inno al cantante pop è in generale infelice, è roba da Super Bowl, americanismo che trasuda invidia e forse anche un latente complesso d’inferiorità, è un processo di mercificazione per cui si parte con sentimenti patri nel cuore, sogni di gloria all’orizzonte, l’elmo di Scipio in testa e poi si finisce catapultati nello studio di Maria De Filippi. La banda contiene già tutti gli elementi per ornare adeguatamente un inno, non serve l’interprete pop o l’arrangiamento da canzonetta. In America l’inno cantato dalla celebrità è fonte di infinita pena. E passi per le grandi manifestazioni, dove almeno il tasso tecnico del cantante è accettabile, ma se ci si addentra nelle serie minori e nei campetti periferici è tutto uno spettacolo di vecchi tenori incartapecoriti, starlette mai decollate, ridicoli idoli di provincia. Perché infliggersi tutto questo quando basta una banda e la voce del popolo?

    Lauren Thompson è americana. La perdoniamo perché conduce un programma sul canale del golf, sport inventato da noi inglesi

     

     

     

     



    Uscire dall’Europa. A proposito di modello inglese, spero vi stiate godendo gli ultimi scampoli di Premier League, dove il Liverpool soffre di insonnia e alterna momenti di eccitazione a istanti di disperazione. Il Manchester City è padrone del proprio destino, come direbbe un giornale sportivo italiano, il Chelsea ha smesso di vincere e ha salutato con le lacrime di Ashley Cole, Frank Lampard e John Terry  i suoi tifosi nell’ultima in casa del campionato. Come tutte le cose che finiscono, anche la stagione calcistica presenta il conto ai suoi protagonisti: un anno di troppo e gli obiettivi stagionali falliti potrebbero non garantire più i privilegi di un tempo. Il manager del Liverpool, Brandan Rodgers, tenta il pressing psicologico sui rivali per il titolo dicendo di non credere che i Citizens vinceranno le prossime due partite. Intanto cominci a vincerle lui, poi si vedrà. Ho il sospetto che, chiunque vinca alla fine, i tifosi festeggeranno in modo più convinto di quanto abbiano fatto domenica pomeriggio a Torino i tifosi juventini. Li capisco: quest’anno la Serie A se l’è giocata con la Bundesliga per il titolo di campionato più scontato d’Europa. I bianconeri hanno meritato di vincere almeno da gennaio, e hanno avuto il pregio di vincere molto e chiacchierare poco. L’esatto opposto di quanto fatto in Europa, dove la piccolezza del calcio italiano si è fatta sentire con preoccupante forza. Grillo, Salvini, e tutti quelli che dopo le prossime elezioni vogliono uscire dall’Europa non hanno che da chiedere consigli a Conte, Allegri e Benítez: gli allenatori di Juve, Milan e Napoli sono i massimi esperti sul campo.

    Pericolo criminalità in Brasile durante i Mondiali. Meglio uscire con pochi oggetti personali addosso. Ma ovviamente non dimenticate di portare i palloni

     

     

     

     

    Guardioladämmerung. Su Guardiola sono sempre stato della scuola Beckenbauer: produce un calcio noioso, televisivo, molto perbene, è l’apoteosi del calcisticamente corretto nella sua sterilità fatta di possesso palla e poco altro. Dentro di me, però, sospettavo che Guardiola avesse ragione, e certo i risultati, in generale, sono dalla sua. Per questo la settimana scorsa ho esultato come un bambino nel vedere un allenatore accorto, Ancelotti, con una squadra dotata ha preso a pallonate il maestrino del calcio bello, intelligente e contro il razzismo (qualità che si porta sempre) e i suoi boriosi ragazzi. Mi levo il cappello di fronte all’allenatore emiliano, che con il suo ragionare pratico all’andata si è difeso come sa fare un grande allenatore e ha trovato un golletto pesantissimo in contropiede, al ritorno ha lasciato sfogare la teutonica foga di riequilibrare e poi ha affondato colpi senza pietà. Questo, e non quello bello e sorridente degli avversari, è football. Tanta goduria non poteva che essere accompagnata da una dose uguale di amarezza per l’uscita fatale del Chelsea di Mourinho contro una squadra che corre tanto (anche troppo, dicono i malpensanti) difende con ordine e la butta dentro, che poi sono le fasi fondamentali della filosofia mouriniana. Duole dirlo, ma il maestro è stato sconfitto sul suo campo.