Il ritorno del capitale

Giorgio Arfaras

Si torna a parlare di “ricchi” e “poveri”, contrapposti in un mondo dove, come denunciano piazze e intellettuali, “il 99 per cento della crescita finisce nelle mani dell’1 per cento della popolazione”. I nuovi ricchi non sono più gli affettati gentiluomini di Parigi o di Londra, che, più che inventare la ricchezza, la ereditavano. Oggi i “nemici di classe” sono i rudi fondatori di nuove imprese e gli ossessionati dirigenti delle grandi imprese, saliti nella scala sociale studiando prima e lavorando poi. La diseguaglianza, con una nuova concentrazione della ricchezza nelle mani di pochi, torna con prepotenza nel discorso politico e culturale, presentata come l’antagonismo della nuova epoca.

    Si torna a parlare di “ricchi” e “poveri”, contrapposti in un mondo dove, come denunciano piazze e intellettuali, “il 99 per cento della crescita finisce nelle mani dell’1 per cento della popolazione”. I nuovi ricchi non sono più gli affettati gentiluomini di Parigi o di Londra, che, più che inventare la ricchezza, la ereditavano. Oggi i “nemici di classe” sono i rudi fondatori di nuove imprese e gli ossessionati dirigenti delle grandi imprese, saliti nella scala sociale studiando prima e lavorando poi. La diseguaglianza, con una nuova concentrazione della ricchezza nelle mani di pochi, torna con prepotenza nel discorso politico e culturale, presentata come l’antagonismo della nuova epoca.

    A studiarla, come era ieri e come si presenta oggi, non poteva che essere un francese, un economista che trasforma in numeri l’indagine della ricchezza vecchia e nuova alla quale si erano dedicati i romanzieri del XIX secolo, da Balzac a Stendhal, e la porta nel Duemila. La ricerca di Thomas Piketty, “Le Capital au XXIe siècle”, di cui il Foglio ha scritto gli scorsi 14 e 17 aprile, ha fatto irruzione in un dibattito dominato da anni dagli anglosassoni. Anche perché la Francia offre un “laboratorio” speciale: nel 1791 con la riforma fiscale, che fa emergere anche la ricchezza della nobiltà e del clero, si introduce la registrazione dei beni posseduti e che possono essere ereditati. In questo modo, i diritti di proprietà e di trasmissione della stessa sono garantiti. Grazie alla natura “borghese” della Rivoluzione, Piketty può studiare con precisione la dinamica della ricchezza nel corso dei secoli. Una ricerca senza precedenti per ricchezza statistica, che mette in imbarazzo – con l’idea che la dinamica della ricchezza rispetto al reddito sia crescente invece che convergente – il pensiero economico dominante.

    In Europa – dal XIX secolo fino alla Grande Guerra – il possesso del capitale (immobiliare e mobiliare) generava un reddito (rendite fondiarie, affitti, dividendi, cedole) cospicuo. Dalla Grande guerra fino ai primi anni Cinquanta del ’900 il peso del capitale in Europa si è contratto, perché l’inflazione ha quasi azzerato il valore delle obbligazioni e si è avuta una crisi notevole delle imprese, oltre alla perdita delle rendite coloniali. Questi sommovimenti nel corso di qualche decennio hanno abbattuto il capitale e quindi il reddito dei ricchi. Nel secolo scorso finisce l’epoca del “rentier”.

    Nel Secondo Dopoguerra, sempre in Europa, mentre si comprime il peso dei ricchi, il ceto medio accumula un patrimonio significativo, soprattutto immobiliare. Si ha perciò in cima un mondo di ricchi, ma meno ricchi di quanto fossero in passato, in mezzo si ha un mondo benestante, e, alla base, si ha chi possiede una ricchezza modesta o nulla, ma che è protetto dallo stato sociale. I redditi da lavoro nel XIX secolo – anche quando ben pagati – non potevano avvicinarsi al reddito da capitale quando questo fosse stato corposo, e dunque, se uno avesse avuto la possibilità di sposarsi bene, ossia di entrare nel mondo dei “rentier”, non gli sarebbe convenuto lavorare. Le strategie per vivere bene senza lavorare (“appendere il cappello”) raccontate in “Le Père Goriot” incontrano l’ammirazione di Piketty, che trova l’analisi di Balzac di grande precisione, nonostante non disponesse di statistiche ricche come quelle di oggi.

    Negli Stati Uniti la situazione nella prima parte del XIX secolo era diversa: una concentrazione della ricchezza minore di quella europea, perché la terra era abbondante (la rendita fondiaria era bassa) e perché chi emigrava non aveva ricchezze (nessuno nasceva ricco). Negli stati schiavistici del Sud le cose non erano però molto diverse da quelle europee. Gli Stati Uniti hanno poi registrato una concentrazione crescente della ricchezza fino agli anni Venti dello scorso secolo – l’epoca del “Grande Gatsby”. Con la Grande depressione, la concentrazione di patrimoni si è ridotta, ma molto meno che in Europa, per poi ripartire dagli anni Ottanta. Con una novità: la concentrazione di ricchezza è alimentata anche dagli enormi redditi da lavoro dei dirigenti delle grandi aziende. Un fenomeno che comincia a palesarsi anche in Europa. I redditi da lavoro ben pagati nel XXI secolo possono avvicinarsi al reddito da capitale quando questo non è troppo corposo, e dunque, se uno/una ha la possibilità di guadagnare molto, può, a differenza del passato, evitare di ereditare o di sposarsi bene, vale a dire può nascere “male” e sposarsi “per amore”.

    Come mai la ricchezza dei pochi – dopo essere caduta dal 1914 al 1980 in Francia e negli altri paesi europei – torna a crescere? Per una ragione meccanica: è sufficiente che il reddito da capitale – che ruota nel lungo termine, secondo i calcoli dell’economista francese, intorno al 4 per cento – cresca più del reddito nazionale – che, sempre nel lungo termine, è a un passo dal 2 per cento. Se si consuma solo una parte del 4 per cento – poniamo il 2 per cento – e si investe quanto resta – quindi il 2 per cento – si ha il capitale che cresce al 4 per cento contro una crescita economica del 2 per cento. Il capitale, anche non reinvestendo tutto il reddito che genera, acquisterà un peso sempre maggiore, con un peso che sarà tanto maggiore quanto maggiore è il risparmio. Se però il rendimento del capitale alla lunga fosse decrescente – come è nei modelli economici – e se il risparmio fosse stabile o crescente, si avrebbe una caduta prima e un annullamento poi del rendimento del capitale. Se il rendimento del capitale fosse decrescente, l’edificio di Piketty mostrerebbe delle crepe. L’economista francese pensa però che l’idea del rendimento decrescente sia priva di base empirica, anche se è comprensibile in via logica.

    Oggi negli Stati Uniti la concentrazione della ricchezza si sta avvicinando ai livelli degli inizi del XX secolo, in Europa e in Giappone non ancora; anche se lo stock di capitale rispetto al reddito in Europa e Giappone è ancora maggiore. Come che sia, la ricchezza con annessa quota di reddito è in parte “inventata” ex nihilo dagli imprenditori, e in parte ricevuta in eredità, per “lotteria biologica”. Quanta parte della ricchezza è ereditata e quanta inventata? In Francia dal 1850 al 1910 il 90 per cento della ricchezza era ereditato (perciò il 10 per cento era frutto dell’iniziativa e inventiva imprenditoriale). Nel 1970 veniva ereditato meno del 50 per cento. Oggi è il 60 per cento. Questa è la ricchezza complessiva – lo stock. Osserviamo ora la parte dello stock di ricchezza che ogni generazione eredita – il flusso.

    Nel XIX secolo il 10 per cento di ogni generazione riceveva in eredità un reddito pari a quanto guadagnava nel corso della vita il 50 per cento della popolazione meno abbiente. Poi si è avuto il crollo fra le due guerre, quando solo il 2 per cento di ogni generazione aveva un reddito ereditato pari al reddito di una vita dei meno abbienti. Negli ultimi tempi siamo tornati sopra il 10 per cento. Se oggi si ereditano 750 mila euro, si guadagna quanto una persona con un reddito di 15 mila euro – il reddito normale della gran parte della popolazione meno abbiente – guadagna in 50 anni di vita. Anche un’eredità che non stupisce per la propria consistenza consente oggi di vivere con una libertà che altri sognano.

    Il frutto del lavoro imprenditoriale e manageriale – misurato come quota di nuova ricchezza sullo stock di patrimoni – è emerso nel XX secolo: l’imprenditore lascia un’eredità cospicua, così come il grande dirigente d’azienda. Anche queste eredità crescono per effetto del tasso di rendimento della ricchezza che è maggiore della crescita del reddito. E dunque, anche se in origine si aveva una ricchezza “da capitalista”, questa, per effetto delle eredità, diventa una ricchezza “da rentier”. La concentrazione della ricchezza sembra avere una natura permanente – un’idea non nuova, che richiama Pareto. La si lascia correre, oppure la si tassa di più per attenuare i suoi effetti? E, se la si tassa di più, quanto di più? La si tassa in modo lieve, oppure con intenti da confisca?