Il pivot asiatico di Obama non ha il fascino del sogno cinese di Xi

Massimo Morello

Un pescatore d’aragoste nella baia di Cam Ranh, in Vietnam. Un croupier di un casinò di Boten, in Laos. Un commerciante di giade di Mandalay, in Myanmar. Un costruttore di pinisi, le tradizionali barche indonesiane, nell’isola di Sulawesi. Un calligrafo di Seul. Secondo la teoria del piccolo mondo, sono tutti individui con un basso grado di separazione. A connetterli è l’essere personaggi di una nuova partita del “Grande Gioco per il dominio del mondo”. A definirlo così, nel 1898, fu Lord Curzon, viceré dell’India. Si riferiva al conflitto occulto tra Gran Bretagna e Russia per il controllo dell’Asia.

    Un pescatore d’aragoste nella baia di Cam Ranh, in Vietnam. Un croupier di un casinò di Boten, in Laos. Un commerciante di giade di Mandalay, in Myanmar. Un costruttore di pinisi, le tradizionali barche indonesiane, nell’isola di Sulawesi. Un calligrafo di Seul. Secondo la teoria del piccolo mondo, sono tutti individui con un basso grado di separazione. A connetterli è l’essere personaggi di una nuova partita del “Grande Gioco per il dominio del mondo”. A definirlo così, nel 1898, fu Lord Curzon, viceré dell’India. Si riferiva al conflitto occulto tra Gran Bretagna e Russia per il controllo dell’Asia.
    Quel Grande Gioco si replica tra Cina e Stati Uniti. Per l’America si chiama “Asian pivot”, il perno sull’Asia, ed è in sintesi lo spostamento del focus della politica estera dal medio all’estremo oriente. La prossima mossa tocca a Washington con il tour del presidente Barack Obama, che inizia oggi, in Giappone, Malesia, Filippine e Corea del sud. Il pivot asiatico è la strategia resa pubblica nel 2011 in un articolo di Foreign Policy dall’allora segretario di stato Hillary Clinton e intitolato “America’s Pacific Century”. Recentemente, però, la strategia è stata ridefinita di “ribilanciamento”. Forse per apparire meno dura rispetto all’idea di pivot, il giocatore attorno a cui nella pallacanestro ruota l’attacco.
    Comunque la si voglia chiamare, quella strategia non pare di grande successo. I problemi in medio oriente e Asia centrale sono rimasti prioritari per la politica estera americana. Ma è stata soprattutto la “disfunzionalità” della politica interna a bloccare il movimento attorno al perno asiatico. E’ accaduto nell’ottobre scorso, quando Obama ha dovuto cancellare la sua partecipazione ai meeting in Asia per gestire lo shutdown del governo. L’assenza ha alimentato dubbi sulla capacità dell’America di far fronte alla sfida cinese. Per i cinesi è accaduto l’inverso. Inizialmente fu proclamata una strategia di “crescita pacifica”, che trascendesse le “differenze ideologiche” tra i paesi dell’Asia orientale. Poi, con l’ascesa di Xi Jinping, nuovo presidente, segretario generale del Partito comunista e presidente della commissione centrale militare, si è materializzata la sua visione di un’area dell’Asia-Pacifico guidata dalla Cina. Che ha avuto il suo momento di gloria proprio nei meeting dell’ottobre scorso. Xi “è stata la più brillante stella politica sul palcoscenico della diplomazia asiatica”, ha scritto un quotidiano di Hong Kong. “La nuova leadership cinese ha proposto la costruzione di una ‘comunità dal comune destino’, guidata da una nazione il cui carisma può essere amplificato solo dalla forza etica”, ha scritto il Global Times, una delle voci del Partito.

    Ciò non significa che la Cina stia pensando a una politica di conquista. L’obiettivo è la creazione di una zona d’influenza sul Pacifico occidentale. Quello che nel XV secolo, all’epoca della dinastia Ming, era “il Mediterraneo asiatico”, controllato dalla flotta dell’ammiraglio Zheng He, che si faceva vanto di non condurre spedizioni militari bensì commerciali e d’esplorazione. Con una popolazione di 1,35 miliardi di persone, il territorio più vasto dell’Asia e uno sviluppo triplo di quello degli Stati Uniti, la Cina non punta soltanto a divenire la maggiore economia planetaria ma anche a ristabilire il predominio del Regno di Mezzo, al centro di un sistema di stati vassalli. Com’era prima dell’arrivo delle potenze coloniali. E’ questo il “China Dream” di Xi Jinping.

    Secondo Robert Kelly, professore alla Pusan University, uno dei più importanti centri di studio coreani, il governo di Pechino sta applicando la propria versione della dottrina Monroe. Kelly si riferisce a quanto proclamato nel 1823 dal presidente James Monroe, che diffidò ogni altra nazione da qualunque pretesa d’influenza sul continente panamericano. La versione cinese, secondo Kelly, prevede il ritiro delle forze americane da Giappone e Corea e l’arretramento della flotta possibilmente sino alle Hawaii, una divisione del Pacifico in zona orientale controllata dall’America e occidentale sotto l’egemonia cinese, la formazione di un’area commerciale, dalla Corea al sud-est asiatico, che abbia per valuta il renminbi. E ovviamente il ritorno di Taiwan alla madrepatria. E’ una strategia che sembra materializzarsi nelle ultime mosse cinesi. Come afferma Elizabeth C. Economy, direttrice degli Studi asiatici al Council on Foreign Relations, il governo cinese ha reagito al “ribilanciamento” americano con “autoritarismo assertivo”. Le rivendicazioni sul mar della Cina del sud si sono spinte a comprendere l’80 per cento dei 3,5 milioni di chilometri quadrati d’acque tra Taiwan e il Borneo. Nel novembre scorso la Cina ha dichiarato una “Air defense identification zone” (Adiz) sul mar della Cina dell’est – una manovra che potrebbe essere replicata nei cieli sopra il mar della Cina del sud. In questo caso, tuttavia, Washington ha mostrato i denti: due bombardieri B-52 che hanno sorvolato la Adiz e le dichiarazioni dell’ammiraglio Greenert, comandante delle operazioni navali della US Navy, hanno assicurato il sostegno a tutti gli alleati.

    E’ lo scenario di “Scontro frontale”, l’ultimo romanzo di Tom Clancy, creatore del techno-thriller, esperto d’intelligence e tecnologie militari spesso consultato dai falchi del Pentagono. Pubblicato pochi mesi dopo la sua scomparsa, il libro porta alle estreme conseguenze il confronto tra America e Cina. Una possibilità che, secondo l’Eurasia Group (società d’analisi del “rischio politico”), è “molto bassa” (tra il 5 e il 10 per cento). Ma, come scrive Clancy, l’Amministrazione statunitense tende a sottovalutare gli “eventi ad alto impatto ma a bassa probabilità”.

    Tutti sentono aria di guerra. Il presidente filippino Benigno Aquino ha paragonato le rivendicazioni sul mar della Cina a quelle della Germania nazista sui Sudeti. Il primo ministro giapponese Shinzo Abe ha dichiarato che Cina e Giappone si trovano nella stessa situazione di Germania e Inghilterra alla vigilia della Prima guerra mondiale. I cinesi hanno filosoficamente replicato che dar credito a tali opinioni è come “osservare l’albero e non vedere la foresta”. In compenso hanno avvertito gli Stati Uniti che se non porranno un freno all’estrema destra giapponese, “nessuno può garantire che non si ripeta un sanguinoso attacco come quello di Pearl Harbor”. Il confronto storicamente più rilevante è stato quello di Hillary Clinton, che ha citato le guerre del Peloponneso tra la democratica Atene e l’autoritaria Sparta per definire il confronto tra Stati Uniti e Cina.

    Sembra che questa guerra, o meglio, questo Grande Gioco, lo stiano vincendo i cinesi. Perché le regole sono le loro, sono quelle del Wei Qi. E’ un’idea esposta da Henry Kissinger – che non ha mai nascosto la sua ammirazione per la filosofia politica e il concetto di leadership cinese – nel saggio “On China”. L’artefice della ripresa delle relazioni tra America e Repubblica popolare, nel 1972, paragona le strategie occidentale e cinese agli scacchi e al Wei Qi (più noto nella variante giapponese, il Go). Se gli scacchi si giocano secondo le regole di una battaglia decisiva, il Wei Qi è per una guerra prolungata. Il suo stesso nome, “gioco di pezzi che circondano”, implica un concetto d’accerchiamento.
    E’ per questo che la politica cinese si basa sul rapporto con le diverse pedine: per dividere la regione. Gli Stati Uniti, invece, seguono un approccio multilaterale, cercando di formare un blocco che si contrapponga alla crescente influenza cinese. Secondo Christian Le Mière, esperto dell’International Institute for Strategic Studies, questo differente approccio riflette l’atteggiamento nei confronti di un conflitto: gli Stati Uniti cercano di risolverlo, i cinesi di gestirlo. E’ l’applicazione del principio di Zhou Enlai, parafrasando Von Clausewitz: “La diplomazia è la continuazione della guerra con altri mezzi”. Il problema di fondo, secondo molti analisti, è che gli Stati Uniti non hanno elaborato una strategia in grado di contrapporsi a quella cinese. Ne sono consapevoli soprattutto i repubblicani, secondo i quali il tentativo dell’Amministrazione Obama di ribilanciare la politica estera sull’Asia “manca di sostanza e non è in grado di rassicurare gli alleati dell’area” mentre il presidente manda “segnali confusi”, che rafforzano la Cina.

    Il prossimo viaggio di Obama in Asia dovrebbe servire proprio a rassicurare gli alleati. Un “make up”, così è stato definito: un rifarsi il trucco per dimostrare che l’America intende davvero “pivotare” sull’Asia. A questo scopo Obama arriverà con la proposta del Trans-Pacific Partnership (Tpp), un iper accordo economico. L’obiettivo è creare un’immensa area di libero scambio che dovrebbe comprendere un terzo del commercio planetario e il 40 per cento del pil globale (Cina esclusa, ovviamente). Peccato che Obama abbia già incontrato l’opposizione del suo partito. Paradossalmente il Tpp sarà approvato rapidamente solo se nelle prossime elezioni di midterm i repubblicani otterranno il controllo del Senato. I cinesi, invece, possono muoversi con più scioltezza e hanno già proposto un blocco economico alternativo, la “Comprehensive Economic Cooperation in East Asia”. Xi ha stanziato 50 miliardi di dollari per la Asian Infrastructure Investment Bank, concorrente della Asian Development Bank, controllata da Giappone e America.

    Per confermare che “il ribilanciamento degli Stati Uniti nell’Asia-Pacifico resta una massima priorità”, il segretario di stato John Kerry ha compiuto il suo quinto viaggio in Asia. In quella occasione, soprattutto a Pechino, ha definito le due priorità della sua missione: il controllo sulla Corea del nord e i cambiamenti climatici. Il presidente Xi Jinping ha concordato sul clima, rilevando che la Cina sta facendo progressi “non perché ci sia chiesto ma per nostra volontà”. Riguardo la Corea del nord si è trovato un facile accordo data la crescente diffidenza di Pechino verso il regime di Kim Jong-un (l’esecuzione di Jang Song-thaek, zio del dittatore, ha privato la Cina del suo uomo a Pyongyang). Tra una cosa e l’altra, dopo aver espresso la sua soddisfazione per gli accordi raggiunti, Kerry ha fatto cenno ai problemi territoriali nel Pacifico. Ma non ha trovato altrettanta disponibilità. Altro punto di disaccordo, anche questo di sfuggita, ha riguardato i diritti umani. E anche questo è uno degli elementi fondamentali nel Grande Gioco, che potrebbe risolvere la partita in favore della Cina. In Asia è sempre più forte la contrapposizione tra i valori occidentali, identificati nei diritti fondamentali di ogni individuo, e i valori asiatici, basati sul controllo, la salvaguardia della struttura gerarchica.

    E’ stato un segnale di distensione più che di attenzione, invece, il “good will tour”, il viaggio di simpatia in Cina di Michelle Obama, con figlie e madre: tra ping-pong, Tai Chi e calligrafia, visite alla Grande Muraglia e coccole ai panda, la first lady si è astenuta da dichiarazioni sui diritti umani. Cortesia che i cinesi hanno ricambiato invitando il segretario alla Difesa Chuck Hagel a bordo della “Liaoning”, la prima portaerei della marina dell’Esercito di liberazione popolare. Anche se, a giudizio di qualche osservatore, è stata una sottile risposta alle dichiarazioni di Hagel che invitava la Cina al “rispetto per gli stati confinanti”. Ecco perché non ci resta che seguire i personaggi del Grande Gioco là dove interpretano il loro ruolo.

    Il mare dell’est. “Antico e moderno sono connessi, l’evoluzione discende dalla tradizione”, dice il calligrafo Kim Tae-wan. Nella sua galleria di Seul dipinge i segni dell’Hangul, la scrittura coreana, che appaiono come ideogrammi, mentre sono ventiquattro lettere composte in unità sillabiche. E’ la storia che rende il mare dell’est (mar della Cina dell’est per i cinesi) lo scenario possibile della Terza guerra mondiale o della Seconda guerra fredda. Circondato dalla Repubblica popolare cinese e dalla Repubblica di Cina (l’isola di Taiwan, che lo delimita a sud nello stretto che segna il passaggio al mar della Cina meridionale), dai due stati della penisola coreana e dalle isole meridionali dell’arcipelago giapponese, da millenni vi s’intersecano flussi culturali e flotte militari. E’ in questa regione, secondo lo scrittore giapponese Haruki Murakami, che bisognerebbe sviluppare una “sfera culturale condivisa” per sanare le antiche ferite e quindi superare le dispute contemporanee.

    Il punto critico è focalizzato sulle isole che i cinesi chiamano Diaoyu e i giapponesi, che ne hanno il controllo, Senkaku. Sopra quelle isole e le acque circostanti nel novembre scorso la Cina ha stabilito una “Air defense identification zone”, che in pratica rivendica il controllo su parte dello spazio aereo giapponese e sudcoreano e sfida il trattato di mutua sicurezza tra America e Giappone. Come ha rilevato il sinologo Thorsten Pattberg, le isole rischiano di diventare un nido di kaiju, i mostri giapponesi come Godzilla, “metafore di conflitto, minacce esistenziali, apocalisse, incarnazioni delle guerre passate e future”.

    In proporzione appare ben poca cosa il confronto tra Giappone e Corea del sud per le isole di Dokdo (Takeshima in giapponese), piccolo arcipelago tra i due paesi, rivendicato da entrambi e occupato dalla Corea. A complicare i rapporti tra i due alleati dell’America, ci ha pensato il premier giapponese Abe, che il 26 dicembre scorso ha reso omaggio al tempio di Yasukuni, dove sono sepolti anche 14 criminali di guerra. Secondo i nazionalisti “i giapponesi ci vanno a pregare per le anime dei morti in guerra, oltre 2,4 milioni, non per glorificare la guerra o giustificare i criminali di guerra”. Ma è chiaro che il gesto ha offeso i coreani, soggetti al dominio giapponese dal 1910 al 1945 e vittime di atroci abusi. E’ per tentare di ricucire lo strappo che il presidente Obama ha incluso la Corea nel suo viaggio in Asia.
    La provocazione giapponese appare anche un’affermazione d’autonomia dagli Stati Uniti. Abe, infatti, vuole riformare la Costituzione “pacifista” imposta dopo la guerra secondo cui il Giappone rinunciava al diritto di ricorrere alle armi se non in caso estremo di difesa. Secondo il premier, che descrive la sua strategia come “pacifismo proattivo”, di difesa preventiva, è anche un modo affinché il Giappone divenga una nazione “normale”. Se ne fossero in grado, probabilmente, i coreani seguirebbero l’esempio, preoccupati dalla progressiva devoluzione delle forze americane.

    A sud, invece, la tensione sembra diminuire. Specie dopo lo storico incontro tra diplomatici di Pechino e Taipei, il primo dopo 65 anni. Molti lo attribuiscono al pragmatismo di Xi Jinping. “Osserva una carta geografica”, consiglia un giornalista occidentale. “Guarda il colore delle acque. E’ solo dalla costa occidentale di Taiwan che possono operare i nuovi sottomarini”.

    Il mar della Cina del sud. Nella baia di Cam Ranh, sulla costa centrale del Vietnam, sono disseminati piccoli villaggi di pescatori. Cacciano aragoste a bordo delle thung chai, ceste di vimini impermeabilizzate con la pece. Uno di loro indica la grande nave grigia ormeggiata al centro della baia. “A-me-ri-ca”, scandisce. Più a nord, c’è la grande base navale che negli ultimi quarant’anni è stata controllata dagli americani prima, dai sovietici poi. Adesso è in uso ai russi: è destinata ad accogliere gli ultimi acquisti della marina vietnamita: le fregate leggere Gepard 3.9 e i sottomarini classe Kilo. Nella baia di Cam Ranh si concentrano tutte le contraddizioni, passate e presenti, della politica americana in Vietnam e, per proiezione, in Asia. La loro presenza è condizionata, tanto che quella nave di appoggio militare imbarca un equipaggio civile. Recentemente è stato dato risalto all’apertura del primo McDonald’s a Saigon, ma per le armi i vietnamiti devono rivolgersi ai russi. La necessità di nuovi mezzi navali, a sua volta, è determinata dal fatto che i vietnamiti non si fidano troppo dell’assistenza statunitense per far fronte alla politica espansionistica cinese sul Bien Dong, il mare dell’est (il mar della Cina del sud). Per i russi, invece, il ritorno in Vietnam è un modo di contrastare al tempo stesso l’influenza statunitense e cinese.

    Uno degli scenari più importanti del Grande Gioco è una specie di mare interno circondato da Cina, Taiwan, Vietnam, Filippine, Malesia e Brunei. Tutti ne rivendicano qualche isola, scoglio o arcipelago, ma i cinesi lo considerano il loro Mare Nostrum e nel 2009 ne hanno definito i nuovi confini, tracciando la cosiddetta “nine-dash line”, una linea a nove trattini che ingloba tutte le isole e le acque contese. Secondo gli accademici cinesi è giustificata dalla storia: è stata tracciata dalle rotte degli esploratori cinesi oltre 2.000 anni fa. Poco importa che, secondo la United Nations Convention on the Law of the Sea, la storia non ne giustifichi le violazioni.

    Sino a poco tempo fa l’America si era dimostrata ambigua rispetto alle pretese marittime di Pechino, limitandosi ad affermare che era necessario proteggere la libertà di navigazione. Il che ha indotto i cinesi ad alzare la posta: nel 2012 hanno preso possesso dello Scarborough Shoal, un atollo che era sotto la giurisdizione filippina, e nel 2013 hanno imposto divieti di pesca in acque considerate internazionali. Alla fine l’America ha reagito: l’assistente segretario di stato per gli Affari dell’estremo oriente e Pacifico Danny Russel ha dichiarato che le rivendicazioni cinesi “sono in disaccordo con le leggi internazionali”.

    La presa di posizione di Washington non sembra aver intimorito Pechino. Soprattutto perché gli Stati Uniti, insistendo sulla multilateralità della disputa, si scontrano con le divisioni in politica estera all’interno dell’Asean. E ciò accade perché i cinesi hanno applicato una loro versione del divide et impera. Lo stesso Vietnam, per cui il nemico storico non è l’America bensì la Cina – che lo ha dominato per un migliaio d’anni e invaso 25 volte, l’ultima nel 1979 –, sembra privilegiare il rapporto col potente vicino, suo principale partner commerciale. Inoltre, dopo il no-show di Obama nei summit asiatici, il premier cinese Li Keqiang si è affrettato a far visita al suo omologo vietnamita Nguyen Tan Dung per concordare un accordo di libero scambio bilaterale. Secondo Jia Duqiang dell’Accademia cinese di Scienze sociali, “Hanoi ha capito che non può contare su Washington per sostenere le sue pretese sulle isole”. I vietnamiti, in realtà, giocano su due tavoli, ma è certo che l’America, continuando a fare pressioni in materia di diritti civili, alimenta i dubbi.

    In questo momento l’unico vero alleato dell’America nell’area è la loro ex colonia delle Filippine. Minacciate sempre più da vicino in quello che definiscono “mar delle Filippine occidentale”, si sono dichiarate disposte ad accogliere la marina statunitense nella base di Subic Bay, da dove l’avevano “sfrattata” nel 1991. L’accordo dovrebbe essere firmato proprio in occasione della visita di Obama il 28 e 29 aprile. A fine febbraio è stato approvato il piano per costruire una base navale militare nel porto di Hong Kong. La nuova porta tra i mari della Cina del sud e dell’est.

    La Grande Regione del Mekong. Il croupier del casinò di Boten, villaggio lao al confine con la Cina trasformato in una micro Las Vegas, dice che quel villaggio è come se fosse in Cina. Si parla cinese, la valuta è il renminbi, i negozi vendono prodotti cinesi. E’ uno degli effetti del crescente “impegno” cinese nella “grande sub-regione del Mekong”. E’ un termine coniato dalla Asian Development Bank per definire l’area del bacino del fiume Mekong: un territorio di 2,6 milioni di chilometri quadrati che comprende Cambogia, Laos, Birmania, Thailandia, Vietnam e le regioni cinesi dello Yunnan e del Guangxi Zhuang, con una popolazione totale di 326 milioni di persone. Un mercato con un prodotto interno lordo che nel 2020 potrebbe superare mille miliardi di dollari. Col movimento di merci e uomini attraverso corridoi economici e frontiere sempre più aperte si modifica soprattutto la trama storica e culturale dell’area. Scrive Thitinan Pongsudhirak, direttore dell’Institute of Security and International Studies di Bangkok: “Per quanto il sud-est asiatico stia progredendo, comincia ad assomigliare in modo curioso a com’era in epoca precoloniale, quando le sue popolazioni, in maggior parte buddiste, si muovevano liberamente mescolando etnie e lingue”.

    Questo scenario apparentemente armonico cela i cuori di tenebra del Mekong, che siano traffici di droga, d’armi o esseri umani. Solo che, anziché essere nascosti nel folto della giungla, come nelle scene di “Apocalypse Now”, si occultano in quelli che erano sperduti villaggi di frontiera come Boten o Ruili, in Cina, a un passo dalla Birmania, nota come centro di smistamento di eroina e metanfetamine. Per i cinesi, tuttavia, è soprattutto uno degli snodi fondamentali nella loro strategia d’espansione commerciale nel sud-est asiatico, dove nel 2013 il valore totale d’import-export “legale” è stato di 1,4 miliardi di dollari.

    La connessione col paese ufficialmente denominato Myanmar, per Pechino è fondamentale quale via di sbocco sul Golfo del Bengala e, quindi, sull’oceano Indiano. Ma è solo una nella rete d’integrazione regionale che ha per terminali i porti sul mar delle Andamane, nel Golfo di Thailandia e nel mar della Cina del sud. Una rete che s’intreccia in snodi come Ruili e in una serie di “Zone economiche speciali”, soprattutto in Laos e in Cambogia. Il che spiega il proliferare di scuole di mandarino frequentate dai giovani lao o khmer che sperano di essere partecipi del “China Dream”. Allo stesso modo i governi locali sono disponibili a cedere parte della loro sovranità e delle loro risorse, in cambio di una partecipazione agli utili e, soprattutto, di un sostegno al potere indifferente alla violazione dei diritti umani (per non parlare di quelli del lavoro).

    In questo gli Stati Uniti non possono certo competere con la “charm diplomacy” di Pechino, ma potrebbero farlo alimentando le crescenti diffidenze nei confronti di un Grande Fratello che rischia di diventare sempre più oppressivo. Tanto più sfruttando i nascenti movimenti democratici, com’è accaduto in Birmania e, più recentemente, in Cambogia. L’America, però, continua a insistere su una strategia multilaterale che non consente di condurre il gioco su diversi fronti, tra le reciproche diffidenze tra i paesi dell’Asean (prima fra tutte tra Vietnam e Cambogia). I cinesi corrono ai ripari: prendono contatti con le nazioni in causa e, all’interno di ognuna, con le forze di governo e con l’opposizione.

    La regione degli Stretti. Nel porto del villaggio di Bira, nel sud di Sulawesi, in Indonesia, i marinai parlano d’isole remote e misteriose invocando Antolaut, lo Spirito del Mare. Quei marinai sono i discendenti di un popolo di mercanti e pirati: i Bugis, che commerciavano in tutto l’arcipelago e ancor oltre. La loro conoscenza del mare aveva segnato le rotte da Sumatra allo Stretto di Malacca e al mar delle Andamane. Sulle rotte dei Bugis nell’intrico d’isole e passaggi che collegano l’oceano Pacifico all’Indiano, è stata tracciata la “Via della Seta marittima”, almeno la tratta che connette l’oceano Indiano al Pacifico occidentale e su cui transitano le commodities fondamentali allo sviluppo cinese.
    E’ un concetto geopolitico che aggiorna la cosiddetta “collana di perle”, definizione formulata in uno studio americano del 2005 per indicare gli snodi commerciali e strategici cinesi – specie in Bangladesh, Sri Lanka, Pakistan – lungo una linea che va dal mar della Cina del sud sino a quello arabico. Il nuovo termine di “Via della Seta marittima” è stato considerato un’operazione di marketing, per sottolineare l’importanza economica e commerciale degli investimenti lungo quella via. Ma le implicazioni strategiche sono evidenti, specie nell’area d’accesso all’oceano Indiano, tra Indonesia, Malesia e Singapore.

    Anche in questo caso la Cina sta conducendo il suo gioco adottando una tattica che alterna movimenti di capitali e di navi. Nel suo tour di ottobre, a Giacarta Xi Jinping ha annunciato una serie di accordi commerciali del valore di 30 miliardi di dollari e a Kuala Lumpur ha fatto capire che la “speciale relazione” con la Malesia dipende dalla cooperazione strategica. La Cina è il maggior partner commerciale del paese e non si è opposta allo sfruttamento malesiano dei giacimenti di gas e petrolio nel mar della Cina del sud. In cambio, però, vorrebbe arricchire la sua collana con una perla nello Sabah, lo stato malese all’estremo nord del Borneo, che costituirebbe la base navale della marina dell’Esercito di liberazione popolare più avanzata verso il Pacifico orientale. Per riaffermare i propri interessi, nei primi mesi di quest’anno, la marina cinese ha compiuto manovre d’addestramento e ricognizione lungo le coste occidentali del Borneo e quelle meridionali dell’isola di Giava. Gli indonesiani hanno fatto buon viso a cattivo gioco affermando che le manovre erano coordinate con la loro marina. I malesiani hanno espresso un certo “fastidio”, ma lasciandosi il beneficio del dubbio sulle buone intenzioni cinesi.

    Ancora una volta la strategia cinese della bilateralità si dimostra vincente. Tanto più che le nazioni dell’area continuano a perdersi in dispute di un medioevo passato prossimo. E’ il caso, ad esempio, delle recenti tensioni tra Indonesia e Singapore create dal nome di una nuova fregata indonesiana. E’ stata battezzata “Usman Harun”, in onore di due marine indonesiani responsabili dell’attentato a Singapore che nel 1965 provocò la morte di 3 persone. L’azione faceva parte del cosiddetto Konfrontasi, il tentativo dell’allora presidente Sukarno di destabilizzare la formazione della federazione malese (di cui Singapore faceva parte). Questo esempio dimostra quanto sia difficile per gli Stati Uniti opporsi alla Cina cercando un accordo congiunto con i paesi dell’area. E’ per questo che molti analisti geopolitici hanno sollecitato Obama a utilizzare il viaggio per rafforzare le relazioni con i singoli stati. In particolare la Malesia, senza curarsi delle recenti involuzioni del paese in termini democratici, ma anzi sfruttando il risorgere di sentimenti anticinesi e anti indiani.

    Ha dichiarato il premier di Singapore Lee Hsien Loong: “L’America deve continuare a impegnarsi in questa regione perché gioca un importante ruolo e non può essere sostituita da altri, non la Cina, non il Giappone, né alcun altro paese”. Nella città-stato che più investe in centri di studi strategici ci si rende conto dei potenziali pericoli.

    L’oceano Indiano. “Cinesi, indiani: sono loro che controllano il mercato”, dice con disappunto un commerciante birmano del mercato delle giade di Mandalay, storica città nel centro della Birmania, la pupilla ne “L’occhio del Budda”. “Tracciate un cerchio attorno a Mandalay, con un raggio di circa 700 miglia: racchiude gli stati del Bengala occidentale e del Bihar in India, le province cinesi dello Yunnan e del Sichuan, nonché il Tibet, mentre a sud copre la maggior parte del Laos e della Thailandia”, scrive lo storico Thant Myint-U, nipote di Maha Thray Sithu U Thant, che tra il 1961 e il 1971 fu segretario generale delle Nazioni Unite. Attraverso l’occhio del Budda, lo sguardo di Pechino osserva l’oceano Indiano, vede le navi che trasportano il greggio che alimenta le energie delle economie asiatiche. L’oceano Indiano, è stato osservato, sta diventando esso stesso “pivot”, uno spazio in cui s’intersecano interessi di molte nazioni. Lo è soprattutto per la Cina che qui si gioca la possibilità di divenire una potenza globale, sia navale sia terrestre, affacciata su due oceani, senza dover far passare le importazioni attraverso stretti che possono essere bloccati.

    E’ per questo che la Birmania riveste una straordinaria importanza per la Repubblica Popolare: è la connessione tra la “Via della Seta marittima” e quella terrestre, lo snodo in cui s’integrano i corridoi economici occidentali, verso l’Eurasia, e orientali, verso la regione del Mekong. Porti, gas e oleodotti, strade, dighe: o sono finanziate da società cinesi, o servono a collegare la Cina al Golfo del Bengala, o a rifornirla d’energia. Alla fine di quest’anno, quando sarà completato l’oleodotto che congiunge la costa allo Yunnan, ogni giorno partiranno dal porto di Kyaukpyu 440.000 barili di greggio diretti in Cina. Nel 2009, quando fu siglato l’accordo per l’oleodotto, la Birmania si poteva considerare uno stato vassallo della Cina. Questo, forse, è stato uno degli elementi che hanno accelerato la transizione verso la democrazia condotta dal presidente Thein Sein. Il primo segnale di cambiamento si è avvertito due anni fa, con la sospensione dei lavori della diga di Myitisone, che avrebbe prodotto energia destinata per il 90 per cento alla Cina e il 10 alla Birmania. Il governo cinese ha reagito affermando che il nuovo corso birmano apre “una nuova èra” nelle relazioni tra i due paesi e lasciando intravedere un cambio di proporzioni nella gestione delle risorse. E’ il solo modo per rispondere all’offensiva americana in Birmania, che si è manifestata con la visita di Obama nel novembre 2012 e con quella di Hillary Clinton nel dicembre precedente, culminata nell’abbraccio con Aung San Suu Kyi. Per ora, tuttavia, a parte la “sospensione” dell’embargo e una consulenza focalizzata sulle “funzioni militari in una democrazia”, gli Stati Uniti non sembrano aver soppiantato l’influenza cinese. “Non voglio dover scegliere tra la Cina e l’occidente, perché entrambi sono necessari allo sviluppo del Myanmar”, ha dichiarato la stessa Suu Kyi.

    La Cina, comunque, sta cercando passaggi alternativi ed è per questo che sta rafforzando gli accordi commerciali con Bangladesh e Sri Lanka: “Per costruire assieme la Via della Seta marittima del XXI secolo”. L’altra grande potenza della regione, l’India, sembra invece orientata verso “l’autonomia strategica”. Dalla Cina e dagli Stati Uniti. Spinta da un crescente nazionalismo, rivolge lo sguardo a oriente (la Cina è al suo nord), cercando accordi con paesi che può giudicare alla pari (o inferiori) e che stanno manifestando lo stesso orgoglio nazionale. E’ il caso dell’Indonesia. Ma, soprattutto, del Giappone: quando, nel gennaio scorso, il primo ministro Shinzo Abe è stato l’ospite d’onore alla Festa della Repubblica, è apparso chiaro chi fosse il partner strategico prescelto dall’India.

    Eurasia. “A quei tempi era tutto più semplice e più divertente”, dice un giornalista russo che vive nel sud-est asiatico dai tempi della guerra in Vietnam. Secondo lui, chiamiamolo Ivan, tutto si giocava tra America e Russia. “Adesso c’è l’Asia. E Putin s’è inventato l’Eurasia”. L’Eurasia, oltre che una definizione continentale (Europa e Asia compongono una massa unica), è anche un concetto geopolitico dai tempi di Alessandro Magno. E’ stata lo scenario del primo Grande Gioco. E oggi può divenire parte del nuovo. Lo si è visto a Sochi, in occasione delle Olimpiadi invernali. L’incontro tra il presidente Xi Jinping e Vladimir Putin è l’ennesima prova che la Cina sta rafforzando le relazioni bilaterali con la Russia, già “collaudate” nella comune opposizione alle sanzioni dell’Onu nei confronti del regime siriano. Con la secessione della Crimea dall’Ucraina, poi, la Russia ha offerto alla Cina un “modello” di rivendicazioni etniche che potrebbe essere utilizzato in tutti i teatri: dalle isole del mare del sud a Taiwan e Hong Kong. Ma soprattutto la giustificazione per un intervento, sia pure “morbido”, nelle nazioni con una forte presenza cinese. Ossia tutte quelle dell’Asean. Il fatto che l’Ucraina fosse il secondo partner commerciale della Cina, inoltre, appare meno importante rispetto all’asse Pechino-Mosca.

    La strategia eurasiatica cinese, tuttavia, si manifesta soprattutto a Gwadar, il porto pachistano quasi al confine con l’Iran. Esattamente un anno fa il governo di Islamabad lo ha dato in concessione alla Cina, con una mossa che è stata considerata una delle più efficaci risposte al “pivot” asiatico di Obama. Gwadar è destinata a divenire parte integrale di quella immensa rete di corridoi economici stabiliti dalla Cina per ricostruire la versione contemporanea delle Vie della Seta (marittima e continentale). Oltre a ridurre di migliaia di chilometri la distanza tra Cina e Golfo Persico (fornitore del 60 per cento del fabbisogno energetico cinese), segna l’inizio della progettata Indus Highway che connetterà Pakistan, Cina e quindi Tagikistan, Kirghizistan e Kazakistan. Per l’America, invece, l’Eurasia continua a essere un’espressione puramente geografic