Pennsylvania Avenue

Berlino non si cura dei propri squilibri, Obama prende nota

Domenico Lombardi

Mentre il Giappone ha registrato a marzo un deficit commerciale record pari a 1,44 miliardi di yen (10,2 miliardi di euro), “sottolineando – come ha scritto ieri il Financial Times online – un cambiamento strutturale per una economia da sempre conosciuta come una potenza esportatrice”, non ha invece ricevuto molta attenzione la revisione dei dati sull’avanzo corrente della Germania che il Fondo monetario internazionale (Fmi) ha pubblicato la scorsa settimana al margine degli incontri ministeriali di Washington. Le revisioni per l’anno in corso consistono di quasi due punti percentuali di pil, con il risultato che l’avanzo in parola, una misura dell’eccesso di risparmio dell’economia tedesca, sarà del 7,3 per cento.

    Mentre il Giappone ha registrato a marzo un deficit commerciale record pari a 1,44 miliardi di yen (10,2 miliardi di euro), “sottolineando – come ha scritto ieri il Financial Times online – un cambiamento strutturale per una economia da sempre conosciuta come una potenza esportatrice”, non ha invece ricevuto molta attenzione la revisione dei dati sull’avanzo corrente della Germania che il Fondo monetario internazionale (Fmi) ha pubblicato la scorsa settimana al margine degli incontri ministeriali di Washington. Le revisioni per l’anno in corso consistono di quasi due punti percentuali di pil, con il risultato che l’avanzo in parola, una misura dell’eccesso di risparmio dell’economia tedesca, sarà del 7,3 per cento. Si tratterebbe di un valore record se non fosse che, secondo la nuova serie storica, sia nel 2013 che nel 2012 il surplus è stato del 7,5 per cento. Ne consegue che la Germania ha sforato il tetto del 7 per cento da due anni. Pertanto, il meccanismo di sorveglianza rafforzata da parte della Commissione europea sarebbe dovuto scattare assai prima.

    Nel complesso, il surplus tedesco sospinge al rialzo anche quello dell’intera Eurozona che quest’anno sarà del 2,9 per cento, più elevato di quello cinese sia in valore assoluto che in proporzione al pil, pari al 2,1. L’elemento rilevante è che gli squilibri – pur pubblicamente denunciati in passato –  continuano a dilatarsi: nel 2018 il Fmi prevede che il surplus della Cina sarà del 3 per cento, quello dell’Eurozona del 3 (con il surplus tedesco al 6) e il disavanzo degli Stati Uniti si amplia a quasi il 3 per cento.

    Si comprende la preoccupazione con cui il Tesoro americano ha accolto questi numeri e, soprattutto, le tendenze di fondo che essi confermerebbero, contravvenendo all’agenda e allo spirito del G20 e del Fmi. Il dicastero economico ha affidato al suo rapporto semestrale, recapitato al Congresso pochi giorni fa, l’articolazione del suo pensiero. In esso esprime seri dubbi che il meccanismo di sorveglianza della Ue possa portare a risultati concreti in termini di ribilanciamento dell’eccesso di risparmio tedesco. A livello strutturale, ribadisce che il tasso di crescita della domanda domestica nelle economie in surplus, in Germania come in Cina, dovrebbe eccedere la crescita del pil per contribuire alla riduzione degli squilibri globali. All’opposto, fanno notare al dicastero con sede a Pennsylvania Avenue, in Germania la domanda domestica è cresciuta a un tasso superiore a quello di espansione dell’intera economia solo in tre anni negli ultimi 10.

    In Asia, il surplus corrente della Cina si è progressivamente ridotto, riflettendo la crescita degli investimenti – che a Pennsylvania Avenue giudicano non sostenibile – più che dei consumi. Allo stesso tempo, la valuta si è apprezzata rispetto al dollaro nel corso del 2013. Dall’inizio del 2014, tuttavia, lo yuan sembra aver invertito la tendenza perdendo il 2,7 per cento. Le autorità americane lamentano gli interventi sul mercato dei cambi volti a tener artificialmente basso il corso della valuta cinese per aumentarne la competitività dell’export. Lo scorso 17 marzo, le autorità monetarie hanno raddoppiato la banda di oscillazione portandola al 2 per cento, sospingendo il corso della valuta verso il limite della nuova banda, che si deprezzava in un solo mese del 2,6 per cento sul dollaro. Una dinamica così sostenuta non si era mai osservata in precedenza.

    Da Pechino, tendono a smussare i toni notando che la svalutazione del renminbi si iscrive in una generale tendenza al deprezzamento delle valute delle economie emergenti. Allo stesso tempo, notano che il trend di lungo periodo per la valuta cinese va nella direzione di un generale apprezzamento. Pertanto, flessioni nel cambio vanno considerate come fenomeni di breve periodo destinati a essere corretti.

    Del resto, a febbraio le esportazioni si sono contratte del 20 per cento. Nei primi due mesi dell’anno, c’è stata una flessione nel tasso di investimento. Il valore aggiunto del settore industriale ha subìto un rallentamento particolarmente marcato, pari a quasi il 9 per cento. Allo stesso tempo, il primo default obbligazionario di Chaori Solar e la situazione di stress finanziario di altre aziende contribuiscono a innalzare la percezione di rischio associata all’economia di Pechino e a scoraggiare gli investimenti.

    A fronte del riemergere di squilibri globali, fa da contraltare il crescente isolamento dell’Amministrazione americana a due anni e mezzo dalla scadenza del mandato presidenziale. Nel caso della Cina, la mancata ratifica congressuale del pacchetto di riforma della governance del Fmi grazie al quale l’economia asiatica sarebbe diventata il terzo azionista scavalcando la Germania, pone l’Amministrazione in una situazione del tutto unica. Le conseguenze della mancata ratifica vanno al di là dell’istituzione multilaterale e investono lo stesso G20, i cui leader avevano sugellato di persona l’esito del negoziato nel 2010, compromettendone l’efficacia come foro di consultazione per la cooperazione economica mondiale e il ruolo di fulcro che l’Amministrazione pensava di ritagliarsi.

    Nel caso della Germania, l’Amministrazione percepisce di trovarsi in un vicolo cieco poiché, con l’introduzione dell’euro, Berlino ha ottenuto di poter “depoliticizzare” il tasso di cambio della nuova valuta comune, spezzando il legame tra ampliamento del surplus corrente e spinta compensativa verso l’apprezzamento della valuta. Non è un caso che il Senato intende porre come condizione per l’approvazione di nuovi trattati commerciali, compreso quello che l’Amministrazione sta negoziando con la Ue, una clausola contro la manipolazione del tasso di cambio per sanzionare vantaggi competitivi impropri dei suoi partner commerciali.