(Foto di Ansa) 

A tu per tu

Non solo charme

Salvatore Merlo

E’ seduttivo, ma diffidente. Mentre cammina tra ingegneri e operai, addetti alla fonderia e alla tornitura, uomini della mensa e collaudatori, il suo orecchio non sente, ma è levato in alto per chiunque voglia versarvi le sue parole; la sua bocca non si muove, ma custodisce un sorriso per tutti coloro che hanno bisogno d’approvazione. Così, mentre attraversiamo gli ordinati vialetti della Ferrari a Maranello – “questa fabbrica è la mia vita”, dice – e mentre indica con orgoglio di padre la galleria del vento disegnata da Renzo Piano, e il padiglione “creativo” di Massimiliano Fuksas, Luca Cordero di Montezemolo appare così entusiasta che a un certo punto gli dico: è questo il mestiere che le piace fare. La politica l’avrebbe fatta soffrire, aggiungo. Lui risponde quasi distrattamente: “Quella storia della politica è stata colpa mia, per come è esplosa. Mi ero spinto un po’ troppo in avanti, più di quanto in realtà non volessi”.

E’ seduttivo, ma diffidente. Mentre cammina tra ingegneri e operai, addetti alla fonderia e alla tornitura, uomini della mensa e collaudatori, il suo orecchio non sente, ma è levato in alto per chiunque voglia versarvi le sue parole; la sua bocca non si muove, ma custodisce un sorriso per tutti coloro che hanno bisogno d’approvazione. Così, mentre attraversiamo gli ordinati vialetti della Ferrari a Maranello – “questa fabbrica è la mia vita”, dice – e mentre indica con orgoglio di padre la galleria del vento disegnata da Renzo Piano, e il padiglione “creativo” di Massimiliano Fuksas, Luca Cordero di Montezemolo appare così entusiasta che a un certo punto gli dico: è questo il mestiere che le piace fare. La politica l’avrebbe fatta soffrire, aggiungo. Lui risponde quasi distrattamente: “Quella storia della politica è stata colpa mia, per come è esplosa. Mi ero spinto un po’ troppo in avanti, più di quanto in realtà non volessi”. Poi qualcosa lo sfiora all’improvviso, un’inafferrabile ombra associativa, e i suoi occhi prendono una sfumatura brumosa. “E’ Giuliano Ferrara che le ha detto di farmi questa domanda”.

E un largo sorriso malizioso si stampa subito su quella faccia affilata, dall’occhio liquido, sormontata dalla famosa capigliatura da insidiatore di femmine. Eppure la domanda che gli faccio è ovvia: per anni Luca Cordero di Montezemolo ha fatto tutto ciò che è lecito immaginare debba fare un membro dell’establishment, per quanto incerto e soffice, che voglia preparare una sua entrée charmante in politica; ma alla fine, malgrado gli sforzi, a febbraio 2013, l’uomo dell’establishment ha invece scelto di non esserci. Ma perché?

“Guardi Merlo”, dice lui prendendomi seccamente per il nome, “la verità è molto semplice. A un certo punto è arrivato Mario Monti e io, che non ero nemmeno troppo convinto, mi sono fatto da parte”. Dunque Montezemolo depone il sorriso, e la prende alla lontana. “Finito il mio impegno da presidente di Confindustria ero sempre tra le prime cinque personalità più apprezzate del paese. E ancora dopo anni, nel 2010 e nel 2011, i sondaggi mi premiavano moltissimo. Tutto ciò malgrado io non abbia mai partecipato a nessun talk-show in tivù. Andai solo una volta da Bruno Vespa nel 2001, credo, dopo la vittoria della Ferrari. In quell’occasione c’era Schumacher, c’era persino la Cucinotta. Era una celebrazione, una festa. Era come andare a ‘Domenica In’. Non sono mai stato una presenza fissa in televisione, eppure nei sondaggi andavo forte. E non solo. In quegli anni a capo di Confindustria mi ero anche divertito. Avevo trovato una dimensione pubblica nella quale mi riconoscevo. E non avevo mai fatto niente di simile prima, tenga conto. Emma Marcegaglia, per dire, aveva fatto tutto il cursus honorum dentro la confederazione degli industriali: dai giovani, fino alla presidenza. Io invece niente, al massimo avevo fatto il rappresentante degli industriali di Modena. Allora in quel momento, lasciata Confindustria, mi venne un’idea…”. ItaliaFutura, suggerisco. “Esatto, ItaliaFutura. Studiai molto i think tank americani, che non hanno niente a che vedere con le fondazioni che esistono in Italia, quella di D’Alema o quella di Fini… Io volevo fare una cosa vera, grande, che avvicinasse anche un po’ di gente capace alla politica. Stefania Giannini, che adesso è ministro dell’Istruzione, andai io a convincerla a impegnarsi. Carlo Calenda, oggi viceministro allo Sviluppo, è un ragazzo che presi io giovanissimo, tra l’altro è il figlio di Cristina Comencini, e sarebbe uno straordinario ministro del Commercio estero. E le dico la verità: l’impegno pubblico mi piaceva molto, mi affascinava. E insomma più la cosa di ItaliaFutura cresceva, più mi si chiedeva un impegno politico diretto. Ma non c’erano mai veri appuntamenti elettorali. E poi, quando finalmente arrivarono le elezioni, c’era Mario Monti”. Che le ha tagliato la strada. “E devo dire che l’ho vissuta come una liberazione. Mi ero spinto un po’ oltre le mie intenzioni. Tutta la faccenda mi era un po’ sfuggita di mano. Non ero mica sicuro. Se non ci fosse stato Monti mi sarei sentito costretto a entrare in politica. Avevo alimentato speranze nelle persone che mi si erano fatte intorno”. Si sente tradito da qualcuno degli uomini di ItaliaFutura che hanno fatto carriera grazie a lei? “Semmai sono io che ho tradito loro”.

Intorno all’una vengo introdotto nel suo studio a Maranello, arredato con deliberato, protervo eclettismo. La scrivania rotonda, ovviamente rossa, alle spalle una foto che lo ritrae con Gianni Agnelli – “stavamo per prendere l’elicottero, mi aveva appena detto di essere ammalato di cancro” – in un angolo una rutilante sedia decorata con automobili, ovviamente Ferrari, “l’ha fatta per me Sydney Pollack, il regista. Ora è morto poverino”. Montezemolo è avvolto in un leggero profumo maschio al limone, ma non sembra Acqua di Parma, marchio che lui ha rilanciato assieme a Diego Della Valle con il fondo d’investimento “Charme” (Acqua di Parma è tuttavia disponibile su ogni lavabo nei bagni per i dirigenti della Ferrari). Le dita delle mani intrecciate sul ginocchio appoggiato al bordo del tavolo: “Le piace la Ferrari?”, mi chiede…

[Alla stazione di Bologna, appena sceso dal treno, trovo ad aspettarmi una Ferrari FF. Una supermacchina rossa scintillante da quattrocentomila euro, come mi spiega il pilota collaudatore che la guida e che mi accompagna verso Maranello. “Da zero a duecento chilometri all’ora in tre secondi”, aggiunge soddisfatto, mentre vengo schiacciato sul sedile dall’impressionante accelerazione. E quanto consuma? “Tre chilometri con un litro li fa”. Pausa. “Se vai molto piano”, aggiunge. Io sorriderei, se il mal d’auto non me lo vietasse]

… Non ho la patente, rispondo con precauzione. Allora Montezemolo si rivolge al direttore della comunicazione Ferrari, Stefano Lai, presente tutto il tempo: “Delle automobili non gliene frega un cazzo”, dice, ironico, accentuando il suo tono di vaporosità mondana, la sua inflessione effervescente. Poi rivolto a me: “Come avrà visto qui alla Ferrari ci sono dei giardini, delle piante all’interno dei capannoni di montaggio, persino nella fonderia. Nelle industrie normali la fonderia è una cayenna, qui invece è un posto a misura d’uomo. Il Financial Times ha premiato la Ferrari come ‘The best workplace in Europe’”. E insomma alla Ferrari non si mastica la desolazione e l’angoscia della vita di fabbrica.

“Quando è venuto a trovarmi Jeff Bezos, il padrone di Amazon, ha visto le piante in catena di montaggio e ha voluto i nomi di tutti i progettisti dei nostri impianti”. Montezemolo è chiuso in una curata eleganza. Le sue mani sottili, delicate e nervose fanno pensare al poker e alla roulette, ma anche a sapienti contatti con porcellane, pergamene, morbide automobili; e con calze femminili, con sete e pizzi e ardui fermagli di collane. A un certo punto gli chiedo cosa pensa quando dicono che lui è il figlio segreto di Gianni Agnelli. Mi guarda con spalancato stupore. Le prime parole si aggregano, giungono a una coerente e ironica emissione: “Povero papà”, ride. Non potendo parlargli di automobili con cognizione di causa, rompo il ghiaccio parlando di Matteo Renzi. A Montezemolo piace Renzi, anche se con qualche sfumata riserva. “Dice agli italiani quello che vogliono sentirsi dire. E finalmente, grazie a lui, c’è la sensazione che le cose possano cambiare. Lui fa bene a parlare di riduzione dei costi. Certo, i costi della politica non li abbatti vendendo quattro auto blu su eBay. Ma va bene. Va bene anche un po’ di demagogia, di marketing. Però i veri guasti sono nelle autonomie locali, nella sanità, nelle municipalizzate inefficienti. Per questo sono molto d’accordo sull’abolizione delle province. Il merito di questo ragazzo, così giovane, è aver ridato speranza”. E mentre lo dice, Montezemolo fa capire che Renzi corre il pericolo di venire inghiottito per sempre da una delle tante difficoltà che si aprono come botole per tutta la lunghezza del suo cammino; la storia è sempre su di lui con un pezzo di carbone in mano, pronta a cancellarlo con un frego.
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“Ma andiamo. Andiamo a mangiare”. E mentre si alza e mi precede, continuo a chiedergli di Renzi. Lo conosce? “Sì, un po’. Una volta è venuto a casa mia per discutere di Alitalia con i miei amici di Dubai. Appena è entrato a casa, mio figlio piccolo gli ha chiesto: ‘Ma hai per caso la varicella?’”. Per via dei nei. “Ma Renzi è stato molto simpatico, perché lo ha preso in braccio e si è fatto toccare la faccia”.

Allora gli chiedo di Alitalia: i maliziosi dicono che Montezemolo ne diventerà il presidente, dopo l’ingresso della compagnia Etihad, del fondo sovrano di Dubai. “Tutti rompono i coglioni. Ma è un discorso molto semplice: le grandezze del paese sono il turismo e la manifattura. Un vettore che porta in Italia e che porti l’Italia nel mondo, un vettore privato, può essere utile. Allora, quando ho visto che la questione di Alitalia non si risolveva, ho chiamato il mio amico Sheikh Mohammed a Abu Dhabi e l’ho informato. L’ho messo in contatto con il governo, con Renzi, e con i soci di Alitalia. Tutto qua. Magari non se ne fa niente. Magari si fa qualcosa di buono”. Fu Berlusconi a creare la nuova Alitalia, bloccò la vendita ad Air France. “E fece un errore. Alitalia aveva aerei vecchi, una situazione finanziaria difficile, piuttosto che mantenerla in vita con un respiratore artificiale, sarebbe stato meglio venderla. E invece quella vicenda, come spesso capita, è stata utilizzata. Per ragioni politiche”.

La Ferrari, a Maranello, è un piccolo paese nel paese. Per spostarci, dalla palazzina degli uffici verso la mensa, prendiamo una macchina. E’ un grosso monovolume della Lancia, nero, con il cavallino della Ferrari, bianco, disegnato sulla fiancata. Alla Ferrari non entrano macchine straniere. Se un cliente arriva a bordo d’una Porsche rombante, o d’una compassata Jaguar, viene invitato a posteggiarla fuori.
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Qui si vedono solo Fiat, Alfa, Lancia e ovviamente adesso anche Chrysler (Montezemolo è arrivato a bordo d’una grossa Jeep bianca). Guida lui, “l’Avvocato”. Saluta tutti, si ferma, fa domande a questo e a quello. Quando incrociamo un operaio con i capelli lunghi, quasi femminei, lui mormora: “Questo ogni volta che lo incontro gli faccio uno scherzo, gli faccio segno di tagliarsi i capelli”. Intanto mi spiega che “il concept della fabbrica Ferrari è quello d’un campus universitario. Ci sono le panchine, la zona relax, e la mensa è un vero ristorante” (si chiama “il Podio”). A un certo punto incrociamo un giovane ingegnere appena tornato da Dubai, o forse dall’Arabia Saudita. Montezemolo gli fa mille domande, con una cert’aria di sfuggevole interesse misto a importanza: “Chi hai visto? Chi c’era? Sheikh Mohammed l’hai incontrato?”. Ma quello non sa chi sia Sheikh Mohammed. E allora Montezemolo – giacca di spinato blu su pantaloni di flanella antracite e mani in tasca – gli fa l’occhiolino e lo congeda. Attraversiamo la mensa per raggiungere la zona più elegante, riservata al presidente della Ferrari. C’è un cameriere in livrea bianca, il cibo ha una sua raffinata semplicità: petto di pollo con scorzette di limone, uno spezzatino con julienne di verdure. Niente vino. In un corridoio Montezemolo chiude persino le porte dei bagni riservati ai dipendenti. E mentre lo osservo, ho come l’impressione che una forma di snobismo generoso lo porti ad attribuire un valore supremo a quasi tutto ciò che entra nel cerchio della sua vita, e in sua presenza ci si sente come sulla soglia di un pantheon definitivo nel quale basta in fondo poco per venire ammessi. La sua è un’eterna deriva tra l’indiretto e il superficiale.

“Com’è venuto qui?”, mi chiede. Con Italo, gli rispondo, il “suo” treno. Quello che a Montezemolo non dico è che in realtà avevo comprato un biglietto Trenitalia, ma i suoi assistenti me l’hanno fatto cambiare con un biglietto Ntv (“guarda che si offende”). “E come le è sembrato, Italo?”. Bellissimo, gli rispondo. Ed è la verità. Ma non parte da Termini, gli dico. E qui Montezemolo batte il palmo della mano sul ginocchio: “Ma è questo lo scandalo!”, dice. “Non ci fanno partire da Termini. Ci hanno messo solo a Tiburtina. E quando abbiamo cominciato il servizio da Tiburtina, la stazione non era com’è adesso. Ma una cattedrale nel deserto”. Tanto bella non è nemmeno ora, obietto. E’ meglio di altre stazioni romane, ma è peggio di Termini, anche perché nuovissima – inaugurata nel 2011 – e già degradatissima. Riprende Montezemolo: “Il nostro competitor, le Ferrovie, è giocatore e arbitro insieme. Possiede la rete e possiede i treni. Ci fa una guerra bestiale”, si lamenta. “Le faccio un altro esempio. Non solo le stazioni. Ma anche le macchinette che vendono i biglietti: ne abbiamo comprate moltissime, ma ne abbiamo potute mettere pochissime. E ce le nascondono. Guardi la storia di Ntv, di Italo, è esemplificativa di quanto sia complicato fare impresa in Italia. Abbiamo assunto 1.100 ragazzi a tempo indeterminato, età media ventotto anni. Abbiamo investito in formazione, abbiamo speso un miliardo di euro per comprare i treni, ma subiamo una concorrenza sleale da parte delle Ferrovie. Eppure le dico una cosa, che potranno constatare tutti quelli che viaggiano sull’alta velocità: da quando ci siamo noi il servizio è migliorato. Abbiamo costretto Trenitalia a migliorare e ad abbassare i prezzi. E ci sono anche vantaggi per le casse dello stato. Paghiamo 100 milioni di euro l’anno per l’affitto della rete. Ma per garantire una vera concorrenza, per scardinare il monopolio, bisogna separare la rete dal servizio. Credevo che Monti, e Corrado Passera che era ministro dello Sviluppo, l’avrebbero fatto.

Bisogna costruire un’authority che gestisca la rete in modo tale da mettere gli operatori dei servizi in condizione di competere alla pari. O per lo meno si dovrebbe separare il management. Oggi l’amministratore delegato delle Ferrovie fa tutto lui: gestisce le tratte e gestisce la rete. Spesso è la politica a complicare le cose in Italia, a rendere più difficile fare impresa. Il paese ha perso moltissimo in competitività, anche per via della politica: uno stato lento e costoso. Per questo mi piace quello che dice Renzi. Vuole rendere l’Italia, e mi perdoni la metafora ma qui siamo alla Ferrari, un’automobile più maneggevole”.

E qui Montezemolo descrive una civiltà impregnata d’una morale politico-mercantile, portatrice d’inerzia, di rassegnazione, di disponibilità agli adattamenti corrotti, e di furberia cinica. A tutto questo lui sembra contrapporre la Ferrari, il rosso di cui ha verniciato i treni Ntv e la fondazione ItaliaFutura.
“Monti mi ha deluso”, dice. “Questa è la fase che descrive la fine del periodo berlusconiano”, spiega. “E c’è un mondo di moderati e di liberali, io dico ‘anti sinistra’, che oggi rischia di non avere rappresentanza né riferimento politico. Si tratta di voti che possono finire nella protesta o nel non voto. E malgrado tutta la capacità che ha Matteo Renzi, persino lui potrebbe non avere la forza di recuperarli. C’è molta gente che soffre alla sola idea di mettere una croce sul simbolo del Partito democratico”. E secondo i soliti maliziosi, ItaliaFutura (di cui Montezemolo non è più il presidente) si è avvicinata a Corrado Passera, l’ex ministro, ex banchiere, pronto a entrare politica. Ma chissà. La politica è un vecchio pallino di Montezemolo, sin dai tempi in cui aiutò Umberto Agnelli nella sua candidatura con la Dc. Erano gli anni in cui Fortebraccio scriveva: “Arriva Umberto Agnelli scortato da Luca Cordero di Montezemolo, che non è un incrociatore”. Allora gli chiedo della sua amicizia con Clemente Mastella, che risale a quei tempi. E la protesta di Montezemolo s’alza in un fiotto di sillabe ugualmente inestricabili tra le quali l’affermazione “gli amici sono pochissimi” spicca in tono di aperta rivendicazione. Il suo reciso “non capisco la domanda” crea un sospensivo imbarazzo. “Ho simpatia per Mastella”, recupera. “Ma dove risulta che siamo amici? Non lo frequento”. Nella biografia che le ha dedicato Stefano Feltri (“Il candidato”, Aliberti), rispondo io.

Ma a questo punto gli chiedo di Berlusconi. “Lo conobbi nel 1976, quando voleva comprare, credo, Tele
Torino”, racconta. “Berlusconi ha energia, carattere, coraggio. E poi – ride – ha anche altro… come dice le bugie lui, nessuno”. E ricorda la sera in cui il Cavaliere annunciò che il presidente della Ferrari era pronto a entrare nel governo con lui. “Fu una cosa pazzesca. Disse che ero pronto a entrare con Letizia Moratti. In realtà era tutto molto in aria. Ma Berlusconi l’annunciò comunque a ‘Porta a Porta’. Dopo pochi secondi mi chiamò Maurizio Beretta, che era al Tg1, e mi disse: ‘Sarai ministro con Berlusconi?’. E io: ‘Ma che cazzo dici?’. Me lo ricordo come fosse ieri. Ero al casello di Sasso Marconi.

In macchina. Dopo tre secondi sul telefonino avevo Paolo Mieli, Ezio Mauro, tutti i giornalisti e tutti i direttori. Allora accostai e telefonai subito all’Avvocato Agnelli che mi disse di accettare la proposta di Berlusconi (l’Avvocato parlava con Berlusconi. Ci fu un serio tentativo di cambiare la classe dirigente del paese. Gli consigliò anche Ruggiero al ministero degli Esteri. Ma poiché il ministro degli Esteri lo voleva fare Berlusconi…). Poi chiamai Gianni Letta. E lui mi disse: ‘Sai com’è fatto Silvio… è un entusiasta”. E mentre racconta, Montezemolo ha un tono di vasta, divertita indulgenza. “La verità per Berlusconi è una categoria relativa. Ma ha anche tanti pregi, non ultima la capacità di appassionarsi a certe cose della vita. E non sto parlando delle cene galanti. Ma del Milan, del lavoro, dell’impresa”.

Domando a Montezemolo della lite tra John Elkann e Diego Della Valle. “Un brutto spettacolo, offerto da due esponenti della classe dirigente di questo paese”. Parla col tono dolce di chi chiarisce gli equivoci e concilia i dissidi: “Si discute negli spogliatoi, non in campo”, mormora. “La Rizzoli è una grande azienda e il Corriere della Sera un grande giornale. Spero prevalga il senso di responsabilità, e che si preservi anche all’esterno l’immagine dell’azienda e del prodotto che va sul mercato”.

Montezemolo dice di essere “amico fraterno” di Della Valle. E con John Elkann invece? “A John voglio molto bene. Ha avuto l’umiltà e la capacità di crescere con i piedi per terra. E ha una grande passione. Va molto in estremo oriente, che è per lui come gli Stati Uniti erano per il nonno”. Perché gli Agnelli sono saliti al 21 per cento della proprietà di Rcs? Che se ne fa la Fiat-Chrysler, l’impresa internazionale di Sergio Marchionne, del Corriere italiano? “E’ una faccenda che ho seguìto solo dall’esterno. Non ne so nulla. E ne parlo con un certo pudore”, premette lui, con cautela. “Credo tuttavia che la famiglia Agnelli sia salita nelle quote perché l’azienda era in difficoltà, perché quei soldi servivano, e perché nessun altro era disposto a farlo. Non bisogna dimenticare che Rcs è una partecipazione storica della famiglia. Per moltissimi anni il Corriere e gli Agnelli sono stati identificati come una cosa sola”. Che ne sarà di Rcs? “Ci sono le potenzialità per creare un gruppo compatto di azionisti”. Al Corriere manca un editore, ha detto Ferruccio de Bortoli, proprio in questa collana d’interviste. “Ed è vero”. A questo punto dico a Montezemolo che il Corriere ha abdicato da tempo alla sua funzione culturale in questo paese. Lui ascolta con distacco, con interesse persino divertito. Poi gli dico che è successo perché, dalla morte di Agnelli, il giornale non ha un editore, ma troppi e litigiosi azionisti. E qui Montezemolo fa un impercettibile cenno d’assenso. Sussurra, con una limatura di sorriso: “Su questo però mi consenta di essere reticente”. Chissà forse teme di svegliare memorie pettegole in persone pettegole. “E poi troppa sincerità uccide il piacere di vivere”.

La collana “A tu per tu” di Salvatore Merlo ha ospitato finora Ferruccio de Bortoli (19 febbraio), Ezio Mauro (22 febbraio), Giancarlo Leone (1° marzo), Flavio Briatore (7 marzo), Fedele Confalonieri (15 marzo), Giovanni Minoli (29 marzo)

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  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi universitaria in Inghilterra. Ho vinto alcuni dei principali premi giornalistici italiani, tra cui il Premiolino (2023) e il premio Biagio Agnes (2024) per la carta stampata. Giornalista parlamentare, responsabile del servizio politico e del sito web, lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.