La lagna non dà lavoro a nessuno, chiedete a Osborne

Francesco Forte

Basta con questo piagnisteo ipocrita sulla questione del lavoro, non è lagnandosi che si contribuisce a ridurre un tasso di disoccupazione arrivato allo “sconvolgente” (parole del premier Matteo Renzi) livello del 13 per cento. Bisogna prendere la questione dal verso giusto con spirito proattivo come ben sanno fare in Gran Bretagna, un paese che ha scavalcato la recessione rimboccandosi le maniche – pur con i vantaggi collaterali derivanti dal non essere parte dell’euro – e dove il cancelliere dello Scacchiere ha appena indicato al paese, all’Europa e al mondo la strada da prendere.

    Basta con questo piagnisteo ipocrita sulla questione del lavoro, non è lagnandosi che si contribuisce a ridurre un tasso di disoccupazione arrivato allo “sconvolgente” (parole del premier Matteo Renzi) livello del 13 per cento. Bisogna prendere la questione dal verso giusto con spirito proattivo come ben sanno fare in Gran Bretagna, un paese che ha scavalcato la recessione rimboccandosi le maniche – pur con i vantaggi collaterali derivanti dal non essere parte dell’euro – e dove il cancelliere dello Scacchiere ha appena indicato al paese, all’Europa e al mondo la strada da prendere. La chiave del manifesto per la “piena occupazione” di George Osborne (tradotto nell’Inserto III di questo giornale) sta in questa formula: “Aiutare le imprese – inteso come business, aziende, società che danno lavoro e producono capitale da reinvestire – aiutare la gente ad avere un lavoro e sostenere la gente che il lavoro ce l’ha”. Abbassare le tasse per gli imprenditori e per i lavoratori e mettere in condizione di lavorare chi è senza impiego e si vuol dar da fare. “Abbiamo un nuovo e ambizioso obiettivo – ha detto Osborne – Vogliamo che la Gran Bretagna sia il miglior paese in cui trovare lavoro”. Serve altro? Lo imitino i piagnucolanti conservatori della sinistra più retrograda che adesso si stupiscono e sgranano gli occhi di fronte a una percentuale di disoccupati da brivido e giubilano soltanto quando arrivano i sussidi dello stato sotto forma di cassa integrazione (straordinaria o in deroga), uno strumento che ha tenuto in riserva molti lavoratori e che si va esaurendo. D’altra parte il nostro mercato del lavoro è ancora ingessato. La riforma Fornero – concepita come scambio fra maggiore rigidità in entrata per certi tipi di contratti, ma maggiore flessibilità in uscita – è stata stravolta mantenendo la rigidità in uscita e aggiungendovi quella in entrata. Se non altro gli allarmismi vari, i titoloni di giornale (come quello errato del Corriere secondo ci sono tanti disoccupati “come nel 1977”, tanto per evocare anni bui) rafforzano le velleità di riforma renziane. Nel decreto sui contratti a termine il requisito “causale”, che generava molte controversie e ipocrisie, è stato eliminato. Ma la sinistra del Pd – sotto la spinta della Cgil – preme per modifiche peggiorative, sostenendo che in questo modo il lavoro si rende precario. Il premier inglese David [**Video_box_2**]Cameron, invece, può ridurre le imposte sulle imprese e quelle sui costi contributivi dell’impiego perché fluidità e semplicità del mercato del lavoro britannico – ingiustamente bollato come precarizzatore – hanno generato la crescita che poi ha garantito un maggior gettito fiscale. Ma se il mercato è ingessato e i costi burocratici connessi a un posto di lavoro sono alti, la riduzione dell’imposta sulle imprese non genera nuovi posti né nuovi investimenti. Il lavoro, anche in Italia, sul lato dell’offerta esiste, allo stato potenziale o, a volte, allo stato non ufficiale. Oramai una quantità di lavoro che potrebbe essere svolto in modo formale nel lavoro autonomo e nella piccola impresa è sommerso perché non si possono adottare le partite Iva, se non in circostanze particolari, e perché i contratti a termine e quelli a tempo parziale sono costretti da regole che impediscono di adoperarli o li rendono onerosi. Peraltro nei contratti a termine permane la norma per cui in una impresa con nove addetti solo uno può essere “a termine”, il che ostacola le assunzioni nelle imprese minori. Le aziende che potrebbero assumere perché hanno prospettive favorevoli non lo fanno: temono di essere costrette a tenersi i lavoratori assunti anche quando le commesse finiscono. D’altra parte finché le incombenze per i contratti di lavoro sono costose e complicate non solo si scoraggiano le assunzioni a tempo parziale e quelle con minore retribuzione ma s’inducono anche molte piccole imprese a rifiutare incarichi di breve durata pur di non compilare scartoffie. Renzi è agli inizi nel cammino della riforma del mercato del lavoro. La battaglia parlamentare sui contratti a termine e sull’apprendistato è solo il primo passo. Quello decisivo sta nel sostituire i rigidi contratti collettivi nazionali settoriali che segmentano il mercato con criteri poco realistici (che cosa è la meccanica nell’epoca dell’elettronica?) e impediscono la contrattazione a livello aziendale, che è dove occorre de-regolamentare.