Il governo della via Pál

Stefano Di Michele

A parte la mancanza di rispetto, già lamentata da Oscar Wilde, per i capelli tinti (oltre che per i baffi imbiancati, come quelli di MdA – da antiche cifre su sartoriale camicia, ora che lo stile e la convenienza e l’attenzione all’asola spingono piuttosto verso il “quattro al prezzo di tre”), i “ragazzi della via Pál” che hanno espugnato Palazzo Chigi – come mai riusciranno a fare gli eroi letterari di Molnár col palazzone che mangerà il loro prato – di rispetto ne hanno poco pure per la forma. Godendo della fortunata combinazione tra simpatia mediatica e “bellezza dell’asino”, berlusconianamente ambita e renzianamente esibita, un po’ garbatamente innovano e un po’ sgarbatamente forzano.

    A parte la mancanza di rispetto, già lamentata da Oscar Wilde, per i capelli tinti (oltre che per i baffi imbiancati, come quelli di MdA – da antiche cifre su sartoriale camicia, ora che lo stile e la convenienza e l’attenzione all’asola spingono piuttosto verso il “quattro al prezzo di tre”), i “ragazzi della via Pál” che hanno espugnato Palazzo Chigi – come mai riusciranno a fare gli eroi letterari di Molnár col palazzone che mangerà il loro prato – di rispetto ne hanno poco pure per la forma. Godendo della fortunata combinazione tra simpatia mediatica e “bellezza dell’asino”, berlusconianamente ambita e renzianamente esibita, un po’ garbatamente innovano e un po’ sgarbatamente forzano. Bastava vedere il banco del governo nel giorno del dibattito parlamentare sulla fiducia – tra carte e smartphone e tablet e chincaglieria varia, che preciso preciso faceva venire in mente la cameretta del figlio “sdraiato” di Michele Serra o quella di Lorenzo, il liceale coatto di Corrado Guzzanti: “Maddecheao’? Come secernere agli esami” – quelli politici compresi. E perciò giustamente, davanti a sé, il giovanile premier non esibiva un rapporto di Olli Rehn o uno studio della Bce, piuttosto “L’arte di correre” di Murakami Haruki (pensava forse di dover prendere il treno Tiburtina / Santa Maria Novella?), che mirabilmente sintetizzava tanto la curiosità letteraria quanto la disposizione podistica – che età non troppo elevata richiede, a parte per l’ultracinquantenne ministro Maurizio Lupi, che però essendo ciellino anche di altri apporti, non solo muscolari, gode. Era uno spettacolo, quel banco incasinato dell’esecutivo del Bullo I: lui parlava, le mani in saccoccia, e intorno a lui ministre/i, di giovanile incarnato che manco il Cav.: chi tuittava (Matteo lo aveva fatto pure dallo studio di Napolitano), chi telefonava, chi messaggiava, chi leggeva (sull’iPad, of course, manco uno con un pezzo di carta in mano), chi condivideva, chi chattava, meno male che a nessuno è venuto in mente di tirare fuori la playstation – spettacolare, pareva il Governo del Muretto. Lavoro tosto! Batti il cinque! Bella, Matte’! (Non si sono rivelate invece presenze di vaganti avanzi di chewingum, sempre possibili: come quello che un giorno restò appiccicato su un prezioso abito di sartoria di un deputato agli inizi della Seconda Repubblica, e MdA – la cui rottamazione-simbolo ha unto e santificato il sorgere governativo e tuittante del Bullo I – esaminò il deprecabile evento e segnalò allo sfortunato: “Ecco, vedi, da quando la società civile ha preso il posto della politica professionista capitano cose come queste”).

    Ma in un twitter non ci sta tutto – centoquaranta caratteri bastano giusto per dire “arriviamo, arriviamo”, Arriba! Arriba!, come Speedy Gonzales, ma una volta giunti  all’opera bisogna mettersi. E adesso, ripristinato l’ordine sul banco governativo, “l’arte di correre” davvero necessita praticare – con solidità politica, non solo di coscia: non si tratta solo di fare Roma-Ostia in braghette, come da previsione. Perché magari, cantava il compagno Guccini, “a vent’anni si è stupidi davvero, quante balle si ha in testa a quell’età”, ma a trenta (Cinquetti o non Cinquetti, avere o non avere l’età), con quell’azzardo di rivoluzione che Renzi vuol provare ad avviare, è il momento di segnare qualche colpo (quando, se non adesso?), oltre che di tirare su le coperte del letto. I bamboccioni che il ministro Padoa Schioppa esortava a lasciare la casa genitoriale l’hanno fatto – perciò adesso gli toccano condominio, bollette e pulitura dell’androne. C’è solo da immaginarli, in questi giorni, i ministri di primo pelo come le ministre di fresca depilazione, nel loro ingresso ministeriale, al loro primo addottrinamento governativo: nel groviglio dell’altissima burocrazia che omaggia e instrada e gestisce, chiama pure l’ascensore se serve, quell’ammasso prezioso e inestricabile di direttori generali, segretari non meno generali, capi segreteria, capi dipartimento, prefetti, consiglieri di stato – altro che la Leopolda, altro che il binario morto da dove partire all’assalto del vacillante Bersani. Ha dichiarato, Matteo, guerra alla burocrazia – quella cosa lettiana (di Zio, di Nipote: di sangue e d’istinto, quasi), italiana, democristiana, cosa indefinita e necessaria, magma e sostanza, lievito e pietra, insieme ali e zavorra. Vamos a matar!, ha esortato con bullesco entusiamo, “basta burocrazia!”. Ma appunto i loro trent’anni (e oltre) “i ragazzi della via Pál” mettono in gioco: hanno sgomitato vittoriosamente, adesso far vedere che ne valeva la pena è la cosa più difficile.

    E’ l’educazione alla grande arte del governare. Andreotti giovanotto se lo tirava dietro De Gasperi, la rotta di una nave scuola tutti seguivano, ma onestamente non è che Fassino, quello con la “o”, oppure Nicola Latorre siano lo stesso per Renzi. Sono un po’ su Marte, sono un po’ in territorio inesplorato, foresta (a loro) vergine, e forse dove cercano gazzelle troveranno leoni. Già immaginarsi Marianna Madia alle prese con l’alta burocrazia è buon esercizio. Debitamente fornita di stradario, adeguatamente istruita sull’uso di “Street View” – dismessa l’iniziale inesperienza giovanile che contava di portare in Parlamento, potrà adesso inseguire con alleprata rapidità la nuova esperienza governativa. E’ l’azzardo, magari in qualche caso l’unica soluzione trovata, di Renzi: freschezza e stupore e chestertoniana “meraviglia”. Può essere il disastro, può essere la soluzione – non avendo, appunto, i precedenti con tale e tanta esperienza, avendo lasciato meno di un disastro alle spalle, perfettamente ritratti in quella canzone di Brel, “ci vuole del talento / per invecchiare senza diventare adulti”. Non ci sono molte cose da rimpiangere, questo il principale punto di forza di Matteo/Jànos Boka e degli altri ragazzi della sua via Pál. Non avendo lasciato a bocca aperta, per dire, il professor Monti – uno che in svariate lingue a Bruxelles poteva dare del tu ai cavoletti, al presidente della Commissione e alla Merkel se si trovava a passare – magari finiranno con lo stupirci la Marianna e tutti gli altri: lei che intanto sarà mamma e al ministero magari allatterà, alla faccia di quei lagnosi che dicono che non si può fare, che il pupo ministeriale (l’età si abbassa, ma non esageriamo) non sta bene. Sono tutti, chi più chi meno, artefici del loro colpo di genio e sostanzialmente di una fenomenale botta di culo – trainati da Matteo, che ha letteralmente spianato la strada, e chiaramente di Matteo uno ce n’è, e del resto l’Unico non è che faccia poco per ricordarlo. Così la “Società dello Stucco” della quale hanno il controllo è adesso il miglior bottino possibile, ma anche la responsabilità che li può schiantare. Premier, ministri, sottosegretario – capitani, tenenti, sottotenenti: così si organizzavano Boka e i suoi. “Su dritto!”. “Tacchi uniti!”. “Petto in fuori!”. “Pancia in dentro!”. “Testa alta”. E perciò: “Graziano, non mi andare dall’Annunziata! Stai coi pupi, la domenica a pranzo!”. “Marianna, mi raccomando, chiedi al vigile per il ministero!”.

    L’avventura sua e dei suoi ragazzi della via Pál inizia praticamente dove il romanzo di Ferenc Molnár finiva: lì con la scomparsa del mite e sempre incimurrito Nemecsek, ingiustamente accusato, redentore altrui; qui con l’uscita di scena di Letta, a Nemecsek quasi perfettamente sovrapponibile, a parte il pentimento che scuote quasi tutto il resto della banda, non intuibile nel resto del Pd. Letta ora in momentaneo esilio a Londra, come Carlo Pisacane – e lui giovane era, ma di quella strana giovinezza che quasi identifica pure Alfano, che sembrano sempre sui cinquantacinque anni pure a trentacinque, e un corridoio ministeriale sembrano apprezzare più del piccolo prato in via Pál, persino in via Gluck. Perché è pieno d’insidie, il continente dove sono temerariamente sbarcati – e per dire, Angelino stesso si ritrovò con svariati kazaki che gli giravano inopinatamente attorno. C’è sempre un metaforico kazako in agguato, dentro ogni ministero, che appunto a solenni cazzate (con sciocco gioco di parole) conduce; come l’umana vanità fa accorrere da “Ballarò” o dall’Annunziata, e sempre una parola di troppo si finisce col dire. La parsimonia di parole, ha raccomandato Matteo, di suo piuttosto vociante, ma parsimonia difficilmente avrà. Ma hanno comunque l’aria studiosa, i pischelli – Twitter a parte, ma pure il Santo Padre ormai digita. Si scopre così che Marianna Madia non sarà proprio Marco Polo nell’andare, ma ha al suo attivo cose molto impressionanti e persino un poco (neanche poco) noiose, tipo “a settembre 2007 ho presentato alla conferenza Earie (European Association for Research in Industrial Economics), a Valencia, l’articolo ‘Is there any relationship between the degree of labour market regulation and the degree of firm innovativeness?’. Per Rai Educational, ho ideato e scritto la prima serie del programma E-cubo (Energia Ecologia economia)” – non pare votata ai colpi di testa. Ora l’aspettano semplificazione (sarebbe il caso, a cominciare dai titoli degli articoli) e pubblica amministrazione, e sindacati e burocrazia raccolta a mazzi come gli asparagi, e cislini orfani e rivendicazioni quotidiane.

    E’ la media bellezza dello sbaraglio, quella che fanno intravedere i ragazzi del Bullo. Che avranno la banda delle “Camicie rosse” (è nel romanzo di Molnár, non un  riferimento diretto a Cuperlo e Fassina, quello con la “a”) in agguato, le insidie dell’Orto Botanico, il Libro Nero che custodisce i segreti di tutti. E c’è pure Civati che ruggisce: il necessario e il superfluo. E’, ha spiegato Matteo al resto della banda, questa del governo la prova prima e ultima per tutti – quasi come la vita per Boka, “nelle ore tristi come in quelle serene, è sempre lotta, fino all’ultimo”. Avrà da lottare Federica Mogherini, la cui nomina un po’ di magone alla Bonino ha causato, che come dice il quotidiano Europa all’estero spesso stava, “dando conto fedelmente della propria attività sul suo blog”. Certo, un posto che altro che la semplificazione e le qualifiche degli impiegati del pubblico registro. Ne sa qualcosa, di esteri, ma l’instradamento, per un ministero di tale nobiltà – seppure ha diversamente vagato, da Andreotti a D’Alema a Frattini – ha da richiedere la consolazione del segretario generale e il concorso di una pletora di ambasciatori dai riti complessi. Ma tra i suoi, forse il compito più complesso – Matteo l’avrà immaginata come Csònakos, di fischio potente e di rapida arrampicatura su per i tronchi – tocca a Maria Elena Boschi, di fresca elezione e spedita ai Rapporti con il Parlamento, che è più o meno come stare per dodici mesi l’anno con l’acqua alta e con i mocassini (si dovrebbe occupare pure di Riforme istituzionali, ma quello è un posto dove si è pure attardato Quagliariello: come tirarsi dietro l’ombrello a giugno, può servire, ma quasi sempre è inutile). Il Parlamento, seppure con il conforto sottosegretariale di Ivan Scalfarotto, è invece un bel rischio – e più che i funzionari, qualche vecchio marpione, da prendere sottobanco, a motivo di possibile scomunicazione, potrebbe rivelarsi vincente. Peraltro, essendo l’on. min. Boschi a detta del Cav. troppo bella per essere comunista, e a detta di altri “Miss Parlamento”, sue foto dallo sguardo assassino fanno opportunamente il giro del web. Ma niente come la giovanile (vabbè, adolescenziale) immagine di lei Madonna in un presepe vivente, accanto a un san Giuseppe con i calzini turchesi e un bambinello dall’aria già piuttosto svezzata, e pratica da catechista in corso: la celestiale immagine, e la benemerita vocazione, in mancanza di un Mario Pochetti o di un Paolo Cirino Pomicino a supporto,  potrebbe al meglio disporre – di fronte a nuovi attacchi pentastellati.
    Essendo giovane, è un governo per forza ginnico, quello della via Pál di Renzi. Sono ministri studiosi che studiano e ministri tendenzialmente filiformi che si esercitano. Avrà generali e colonnelli a frotte, Roberta Pinotti, ministro della Difesa (che però già lì stava, da sottosegretaria, difficile si faccia impressionare da una diversa gradazione delle stellette), e si suppone, visto che ha già ripreso le corse mattutine, qualche maresciallo adeguatamente strutturato sul chilometraggio di scorta. La giustificata sua contentezza il ministro dell’Agricoltura Maurizio Martina non ha nascosto (“non posso negare”) sul suo blog. Ma studente agrario era, e lì come sottosegretario stava. Perciò, pronto. Ma intanto, a maggior sicurezza, c’è chi gli invia pensieri/invocazioni di De Gasperi da far avere anche a Renzi – non si sa mai: “Perdonami Signore, ma porto con me nelle mie occupazioni la Tua preghiera. Penetra tutta la mia attività, prega Tu nel mio lavoro e in tutta la donazione di me stesso”. Fatto sta che, sostanzialmente, i ragazzi di Matteo un po’ allo sbaraglio si trovano – a naso, a funzionario accreditato, a tifo mediatico (e a mediatica possibilità di finire spernacchiati) bisogna attaccarsi. Sono le incognite di una (mezza) rivoluzione, una sfrontatezza che un po’ evoca certi striscioni che accompagnavano il Veltroni dei giorni gloriosi del Lingotto, “il senso lieve della speranza” (così lieve che al primo colpo di vento ha preso il volo), e un po’ rammenta quella del Cav. della discesa in campo e, soprattutto, del “ghe pensi mi”, vero renziano antemarcia. Fa impressione, quella sfrontatezza, ma in fondo non è molto differente da quella che, ciclicamente, si ripropone – quando si cambia generazione, quando il vecchio inevitabilmente s’apparta (più spesso viene fatto appartare), quando facce nuove hanno ancora bisogno di un po’ di rodaggio per rendersi riconoscibili tra il “panino” dei tiggì e un “li mortacci tua” in un vicolo bordeggiante Montecitorio. La mezza bellezza della rivoluzione, come la bellezza completa dell’asino, ha sempre breve durata.

    Così, la stessa questione si ripropone – adesso, casomai, il fenomeno è solo più di massa: un partito sconsolato conquistato in pochi mesi, un governo sconsolante scalzato in poche settimane, un esecutivo consolatorio messo in piedi in pochi giorni. “Tacchi uniti!”. “Petto in fuori!”. Ma pur superata la “sindrome di Tanguy” (il sapientone che i genitori non riescono a mettere fuori casa), sempre persiste la necessità di un certo indottrinamento. Successe, per esempio, quando fu eletta alla presidenza di Montecitorio la giovanissima Irene Pivetti – e agli sfottò iniziali seguirono mazzi di rose di impegnati intellettuali. Il buon Alfredo Biondi, liberale da una vita e vicepresidente della Camera quasi non da meno, s’impuntò per non tornare a fare il vice della nuova  eletta. “Non vado a fare l’impiegato, il funzionario per dare lezioni ai pupi o alle pupe!”. Persino Andreotti, con classe clericale, dava segni d’insoddisfazione quando col ciclico e mai risolutivo rinnovamento, qualcuno voleva mettere disordine dentro il suo Scudocrociato: “Certi nuovi iscritti alla Dc vogliono insegnare il Credo agli Apostoli”. Che poi, visto come tutto è finito, buttare un orecchio a qualche nuova orazione non è neanche pratica disdicevole.

    A Renzi e ai suoi della via Pál tocca sperare che alla fine non vada come ai piccoli eroi di Budapest – che strenuamente difesero il loro spazio per giocare, sfidando misteri e fatica di crescere. “Lo slovacco sbuffò una boccata di fumo dalla pipa. ‘Ha detto che deve costruire’. ‘Qui?’. ‘Sì. Lunedì prossimo verrano a fare le misure e poi cominceranno gli scavi per le fondamenta’. ‘Qui?! – gridò Boka – Vengono a costruire una casa qui?!’. ‘Proprio qui – rispose impassibile Jano – Una grande casa popolare di cinque piani. E’ il proprietario del terreno che la fa costruire. Avete combattuto per niente!’. E senza aggiunger altro rientrò nella sua baracca. Boka rimase senza fiato. Le lacrime gli vennero copiose agli occhi. Si precipitò verso la porta e fuggì da quell’ingrato pezzo di terra che lui e i suoi compagni avevano difeso con tanti sacrifici e ora li tradiva per accogliere una orribile casa popolare…”. Un Rottamatore di solito le case le butta giù, ma chissà come fare se si fa vivo il proprietario del terreno. Intanto apprende l’arte sempre saggia di correre – per arrivare, e se va male per andare via. Soltanto che poi si muta nell’arte di scappare.