(Foto di Ansa) 

“A tu per tu”

Il leone della Rai

Salvatore Merlo

Nel ristorante dell’hotel De Russie, a via del Babuino, trenta metri da Piazza del Popolo, intorno all’una si raggruma una folla variopinta e dall’aria cospicua. E qui tutto è esattamente come te lo aspetti. Oleografia del banale. Una coppia ad angolo pare divertirsi enormemente, la signora porta alle grosse dita certi brillanti talmente enormi da farmeli supporre falsi. Un uomo dall’aria stolida legge in maniche di camicia un inserto sportivo.

Nel ristorante dell’hotel De Russie, a via del Babuino, trenta metri da Piazza del Popolo, intorno all’una si raggruma una folla variopinta e dall’aria cospicua. E qui tutto è esattamente come te lo aspetti. Oleografia del banale. Una coppia ad angolo pare divertirsi enormemente, la signora porta alle grosse dita certi brillanti talmente enormi da farmeli supporre falsi. Un uomo dall’aria stolida legge in maniche di camicia un inserto sportivo. Quelli che presumo essere due ufficiali di marina chiacchierano e fumano, rotondi e stracarichi di mostrine, con pesanti alamari dorati che collegano il petto concavo alle spalle convesse sulla candida uniforme. Appena entrato nella saletta interna colgo queste parole rivolte all’impeccabile maître, le pronuncia un sessantenne impacchettato nella sua pashmina lillà –  colletto della camicia sbottonato e così alto da sfiorare i lobi delle orecchie, la mobile ciocca sulla fronte, un po’ Diego Della Valle e un po’ Ivan Zazzaroni. “Aspettiamo le due bionde, Irina e Tatiana”. Forse scherza. Lo guardo meglio. Forse non scherza affatto. Il cameriere accenna un sorriso incerto, e si allontana frusciando. A questo punto chiedo a Giancarlo Leone: “Ma tu ci vieni spesso qui?”. E il direttore di Rai1, che mi sta seduto di fronte, mi lancia un’occhiata indagatoria. “No, ma i tavoli sono distanti. Si parla in pace. Qui venivo quando c’era la Rai, moltissimi anni fa. Trasmettevano le partite di pallone in bassa frequenza”, ricorda. Tifa per l’Inter. “#amala”, mi dice, come usa su Twitter, dove lui è @giankaleone.

Tuttavia al De Russie lo conoscono tutti, il direttore. Il maître gli consiglia con ossequio confidenziale le mozzarelle – “la mozzarella non la mangio mai”; “allora provi la rughetta selvatica”. Lo chef Fulvio Pierangelini, appena lo scorge, ritrova lo scatto giovanile del corpo appesantito, e atletico lo rincorre per le scale, malgrado la pancia ardua. A questo punto il direttore me lo presenta. Ma Pierangelini, che a San Vincenzo fondò il mitico ristorante Gambero Rosso, non sembra particolarmente interessato. “E’ un genio”, mi sussurra il direttore. Poi rivolto di nuovo allo chef, “sì, dobbiamo vederci a cena. Diamara ha bisogno delle tue ricette” (Diamara Parodi Delfino è la moglie del direttore, hanno due figli piccoli, “ormai vivo per loro”. Ti chiedono mai del nonno presidente della Repubblica, di tuo padre, Giovanni Leone, che fu costretto a lasciare il Quirinale? “Sì, e io non so bene perché ma descrivo mio padre come non era. Un uomo espansivo, che mi leggeva le favole prima di dormire. In realtà ci volevamo molto bene, ma parlavamo pochissimo”). E Giancarlo Leone è praticamente nato a Montecitorio, “ci ho vissuto dagli zero agli otto anni”. Il padre, prima di diventare presidente del Consiglio, e poi della Repubblica, era presidente della Camera. “E io, la domenica, quando non mi vedeva nessuno, andavo a pattinare in Transatlantico”, su e giù tra i divani e gli stucchi. Ma i commessi non si arrabbiavano? “Non c’era nessuno”. E tuo padre? “Nessuno glielo ha mai raccontato”.

Indossa una cravatta di lana marrone, il nodo molle sul blazer scuro, al polso un orologio che presumo essere degli anni Quaranta, forse un Longines. Mentre ci studiamo a vicenda, gli chiedo chi prenderebbe alla Rai, dalla concorrenza, da Mediaset, da La7, da Sky. E scopro che, fosse per lui, Michele Santoro avrebbe già un programma e un contratto. “Santoro è il numero uno dell’informazione”, mi dice Leone. “Certo, palesemente di parte. Ma pur sempre il numero uno”.

Accidenti. Pure Travaglio ti prenderesti? E qui il direttore mi dice che a lui piace la tv garbata, che gli eccessi lo infastidiscono. Dunque, “Travaglio non lo condivido”. Pausa eloquente. “Ma ha un ruolo drammatico forte nella trasmissione di Santoro. Consente al conduttore di essere più moderato, di sollevare il sopracciglio”. E insomma Travaglio consente a Santoro persino di ironizzare su certi svolazzi, diciamo così, caricaturalmente giacobini. Allora è una macchietta Travaglio, gli chiedo. E lui, diplomatico: “Ha un ruolo nella sceneggiatura”. E dopo Santoro chi prenderesti? Leone prenderebbe subito anche i comici Luca e Paolo, mi dice. E pure Crozza – “quasi ce l’avevo fatta. Era mio”, mormora con l’aria del pescatore cui s’è spezzata la lenza. “Avrei voluto riportare anche Beppe Grillo in televisione. Ci ho provato. Gli chiesi di pensare a un film di denuncia, a una cosa sul genere di Micheal Moore. Lui mi spedì il suo agente, Aldo Marangoni. Ci incontrammo e gli feci questa proposta: ‘Guarda, voi fate tutto in assoluta libertà. Il film lo producete voi, così siete liberi di fare quello che vi pare senza implicazioni legali. La Rai ve lo compra e lo distribuisce alla grandissima”. E come andò a finire? “Non so bene perché, ma non se ne fece più niente”. Pausa. Tono malizioso. “Non prendo nemmeno in considerazione l’idea che Grillo abbia rifiutato un film ben distribuito e assolutamente libero solo perché non lo avremmo finanziato”. Ovvio che no. Grillo non è mica un quattrinaro qualsiasi.

E che ne pensi del Movimento 5 stelle? “Non lo capisco. Hanno preso moltissimi voti, e dopo un anno in Parlamento danno l’impressione di aver buttato tutto quel consenso. Non hanno costruito niente”. Daria Bignardi ti piace? “Guardo il suo programma. Ha una straordinaria capacità di relazione con i suoi ospiti. Mi colpì molto quando riuscì a far cantare Dario Fo, che – tra parentesi – adesso andrà in onda su Rai1 con il suo spettacolo teatrale dedicato a san Francesco”. E Lilli Gruber, la riprenderesti alla Rai? “E’ molto corretta, non fa sconti a nessuno. E’ nata qui. Ma a Rai1 non saprei dove metterla.

Noi abbiamo l’obbligo di fare ascolti. Il sessanta per cento degli introiti pubblicitari dell’intera azienda viene dal mio canale”. Poi Leone ci pensa. “Ma se dipendesse da me”, aggiunge, “troverei per la Gruber un posto a Rai2 o a Rai3”. Pausa. “Per fortuna però un direttore generale c’è già, Luigi Gubitosi, ed è molto bravo”. Sorriso. “Di fronte all’ondata della televisione tematica, o diventi più raffinato o ti butti sull’eccesso. A volte, in passato, con ‘La vita in diretta’, abbiamo sbagliato, abbiamo provato a inseguire Barbara D’Urso sulla spettacolarizzazione della cronaca nera. Adesso non lo facciamo più”. Il direttore di Rai1, par di capire, non scipperebbe nemmeno a saldo Barbara D’Urso alla concorrenza di Canale5. E s’intuisce che per quest’uomo così prudente – sei ancora democristiano? “Mai stato democristiano” – la signora D’Urso incarna tutto ciò che la Rai non dovrebbe essere: il teatro dei sentimenti, dei drammi umani. “In televisione la cronaca nera diventa morbosa”, dice assumendo un’aria distante, ma senza incresparsi nemmeno per un attimo.

Gli chiedo: si può fare la tv garbata, senza essere democristiani? “Certo che si può fare. Prendi per esempio ‘L’Eredità’ di Carlo Conti, che è la più grande risorsa della Rai, con la sua ghigliottina finale, che di ghigliottina ha solo il nome”. Freccero la chiama tivù pettinata. “Freccero ha sempre cercato la televisione forte, pulp: ‘Satyricon’, ‘Macao’…”. Preciso la domanda: si può fare la televisione garbata senza i difetti della televisione democristiana, educativa ma, come dire, ritoccata, pettinata? “Guarda io non mi sento affatto democristiano. Non sono nemmeno cresciuto dentro quel partito. Mio padre aveva soltanto ruoli istituzionali, non è mai stato niente dentro la Dc. Certo, poi uno può anche essere democristiano ‘dentro’. Senza saperlo”. E Leone spiega un po’ com’è fatta oggi la Rai. “Un tempo avevamo solo tre canali, collegati a precise categorie di pensiero politico”, dice. “Questo sistema è esploso. Si è perso. Oggi ha senso avere una rete che sia più politicamente corretta. E questa è la missione di Rai1”. Allora chiedo al direttore cos’è la lottizzazione. E lui: “E’ un sistema che non viene più applicato in maniera scientifica, come accadeva prima. Adesso ci possono essere raccomandazioni, segnalazioni singole, spicciole. Ma non c’è più quel meccanismo di spartizione sistematica”. Non c’è più la lottizzazione. Sei sicuro? “Negli anni Ottanta e Novanta accanto a ogni nome c’era una sigla di partito. Adesso è tutto più casuale. Io non conosco nemmeno i gusti politici dei miei due vicedirettori. E non ho mai ricevuto una sola indicazione politica da quando sono direttore di Rai1. Il direttore generale, sarà perché è stato nominato nell’era tecnocratica di Monti, lo conoscevo poco. Ma è arrivato in Rai, mi ha convocato, e mi ha chiesto: ‘Ti va di dirigere il primo canale?’. E’ andata così. Più semplice di come si possa immaginare dall’esterno”. La Rai dovrebbe essere privata? “L’azienda deve comportarsi come un soggetto che sta sul mercato. Più privato e meno pubblico. La Rai sta già sul mercato, ma non ha una governance adeguata e coerente alla sua moderna fisionomia. Adesso il governo Renzi ha un’occasione storica. Tra un anno scadrà il consiglio d’amministrazione, e fra due anni scadrà anche la concessione ventennale tra lo stato e la Rai. Ebbene, l’occasione è sul serio irripetibile. Il governo è nelle condizioni ideali per superare la legge Gasparri sul sistema radio-televisivo, e modificare la governance dell’azienda. Renzi non farà nomine. Aspetterà. Immagino che si presenterà con un modello tutto nuovo. Chissà. Un consiglio d’amministrazione la cui nomina non dipenda dai partiti, dal Parlamento, dalla commissione di Vigilanza”.

Al De Russie il pranzo è a buffet. Dunque abbandoniamo il nostro angolo riservato, appena sotto la piccola finestra che guarda verso il giardino, e raggiungiamo il centro della saletta. Leone sceglie alici sott’olio, insalata, polpo e spigola crudi dalla consistenza delicata e glutinosa. Una birra come contrappunto. E mentre osservo quest’uomo piccolo e composto, dai modi così garbati, capisco che fargli esprimere un giudizio negativo, reciso, sarà dura. Durissima. Così, quando gli chiedo il nome di un programma o di un personaggio della tivù che proprio non gli piace, che lo disturba, lui guarda per un attimo fuori dalla finestra come per rimettere ordine nei pensieri. All’improvviso estrae dalla tasca un paio d’occhiali di forma ovale, dalla montatura di metallo leggera. Li inforca, mi mette a fuoco, li toglie quasi subito e li poggia sulla tovaglia candida. La pausa di silenzio è lunga. E per un attimo il direttore di Rai1 mi ricorda quel personaggio di Pirandello, Serafino Gubbio operatore: “Io mi salvo, nel mio silenzio, col mio silenzio, che m’ha reso così – come il tempo vuole – perfetto”. Ora sembra che Leone guardi dentro di sé, per spremere la sua memoria fino in fondo.

“La cronaca nera”, mi dice finalmente. “In televisione non mi piace la cronaca nera. Ha un peso troppo rilevante, mi impressiona. E se ne fa un uso spregiudicato. Soltanto per fare ascolti, con cinismo”. Io gli dico che il pomeriggio di Rai1 non mi piace. Lo provoco: non mi piace Mara Venier. E lui mi guarda con la stessa perplessità che proverebbe se a tavola gli avessero messo davanti uno zulù. “La Venier adesso fa la domenica”, mi dice. “E la cronaca nera l’abbiamo ridotta”. Insisto: Aldo Grasso ha inventato il termine “mollichismo” – da Vincenzo Mollica, critico del Tg1 – quel fenomeno per cui tutto nei programmi televisivi viene raccontato e descritto al superlativo. Ogni cosa è “straordinaria”, “strepitosa”, “bellissima”. Ricordo che nel 2011 Ornella Vanoni, in un programma di Lorena Bianchetti, si è rivolta così alla giovane conduttrice: “Ero dietro le quinte e ti sentivo dire ‘il grandissimo’, ‘la grandissima’, ‘il più grande artista’… Oh, ci fosse uno che non è grande! Che differenza c’è allora tra quelli grandi per davvero e quelli che grandi non lo sono?”. Ecco, il pomeriggio della Rai sta a metà tra questo, cioè il “mollichismo”, e la volgarità più sciocca: Massimo Giletti, Paola Perego… Ma il direttore di Rai1 risponde così, palindromo e impeccabile: “Aldo Grasso predilige la critica al racconto. Mollica predilige il racconto alla critica. Noi gli spazi di critica, alla Rai, li abbiamo, ma altrove. Cerchiamo di fare una televisione che non sia aggressiva, che non vada sopra le righe. Abbiamo fatto Sanremo, senza scandali e senza volgarità. Senza farfalline, per intendersi”. E si riferisce all’audace tatuaggio inguinale mostrato qualche anno fa da Belen, scosciatissima sulle scale del Teatro Ariston. “Quest’anno, a Sanremo, abbiamo cercato di fare il racconto della canzone nazionale. Essere sofisticati, ovviamente implica anche dei rischi, perché la tivù ha abituato agli eccessi. E se non esageri può darsi che qualcuno cambia canale”. Anche Bruno Vespa fa cronaca nera. “Sì, ma quanto gli può capitare? Due volte in un mese? L’accanimento è nei programmi dedicati, e nei pomeriggi televisivi della tv commerciale”, dice il direttore, con tono eloquente.

Intanto il cameriere si avvicina, ci interrompe con delicatezza. Chiede al direttore se vuole una seconda birra. Lui scuote la testa come un cavallo punto dai tafani, ma decide di tornare al buffet. Poca parmigiana di melanzane, un’insalata di pasta. “Mangiare mi piace”, ammette con ironico pudore. Eppure Giancarlo Leone è un uomo magro, quasi ulivigno. Fai sport? “Gioco a golf. Sempre meno purtroppo”. E mentre parliamo mi accorgo quanto poco la sua immagine aderisca a quella del “monello” raccontato da Camilla Cederna negli anni Settanta. “La Cederna individuò in me e nei miei fratelli un punto debole di papà. Eravamo giovani. E vivevamo al Quirinale facendo la vita che fanno tutti gli adolescenti. Puoi immaginare. Niente di speciale. Musica, qualche festa, le fidanzate, e certo avevamo qualche soldo in tasca… Quando avevo diciott’anni stavo con Monica Guerritore, che ne aveva sedici. Quella dell’Espresso, di Giovanni Melega e Camilla Cederna, fu una campagna terribile, un’infamia”. E mentre parla, Leone esprime un dolore morale, sordo, indeterminato, vivo. “Se mi sono sposato tardi, a cinquant’anni, è anche perché ho subìto tutta questa storia. Da allora mi sono molto dedicato alla famiglia e a mio padre. Lui aveva un bisogno fisico della mia presenza. Alle Rughe, la villa di famiglia, io c’ho dormito per anni, quasi ogni sera. Poi quando papà è morto, nel 2001, ho rialzato la testa. E nel 2005, dopo qualche anno di fidanzamento, mi sono sposato”.

Il maître intanto scherza su Sanremo, consiglia alcune pietanze e si complimenta con sussiego. Ed è forse il momento giusto per chiedere al direttore chi lo condurrà Sanremo, l’anno prossimo. Risposta pronta: “Fabio Fazio deve presentare un progetto nuovo. La riproposizione del suo solito schema non ha pagato in termini di ascolti. Se non lo farà guarderò altrove, a cominciare da casa. A partire da Carlo Conti”. Carlo Conti è quello con la faccia di terracotta e i capelli al gel? Giancarlo Leone strizza gli occhi, senza umorismo. Non sembra conoscere sprezzatura, ma sorride con parsimonia. La sua è una malinconia indefinita, occultata da un velo di calcolata e indulgente bonomia, come volesse far dimenticare d’essere un uomo di potere. “Carlo Conti è l’erede di Pippo Baudo”, mi risponde. E la sua voce schiocca come una frusta. “Carlo Conti è il presente e il futuro della Rai”, insiste con un lampo di soddisfazione. “E’ una tipologia d’uomo televisivo capace di spaziare, di sfiorare tutti i generi, proprio come Baudo. E sempre mantenendo uno straordinario equilibrio professionale”, aggiunge. “E poi non è nemmeno capriccioso”, specifica. E chi è capriccioso tra quelli con i quali hai lavorato? Silenzio. Il silenzio di Serafino Gubbio operatore. Ma l’espressione del volto di Giancarlo Leone stavolta non sembra comunicare uno sforzo di ricerca. E’ piuttosto come se il direttore di Rai1 stesse seguendo di soppiatto qualche orbita segreta, ticchettando calcoli occulti come un furtivo meccanismo. “Ne ho incontrati più nel cinema che in televisione, di capricciosi”, risponde. E Leone, prima di Ra1, è stato direttore a Rai cinema. E’ così che ha conosciuto i registi, gli sceneggiatori, gli attori.

“Le prime star sono i registi”, racconta. E chi ti rompeva le scatole con atteggiamenti da prima donna? “Né Gianni Amelio né Piccioni, né Bellocchio gradivano gli interventi nel loro lavoro. In Italia i registi scrivono i loro film. In America è il produttore che comanda”. Dico a Leone che Baudo è la storia della Rai, il meglio della Rai. “E’ un simbolo, l’uomo che ha condotto più Sanremo di tutti, più ‘Domeniche In’ di tutti, più trasmissioni televisive di chiunque altro. Il problema di Baudo è che ambisce a essere ancora quello che era. Ma i tempi cambiano. Il pubblico cerca anche altro. Sono stato io a proporgli di fare ‘Il viaggio’, che è andato in onda su Rai3. E mi dispiace che quel programma si sia interrotto. Dispiace anche a Baudo. Gli ho offerto uno spazio a mezzanotte, ha rifiutato… Spero di riaverlo”. E Leone mi spiega che in Rai adesso ci sono molti talenti per così dire “casalinghi”. Uno è Flavio Insinna, dice. Quello dei pacchi. “E’ tornato da noi dopo un’esperienza non felice a Mediaset. Solo Paolo Bonolis riesce ad andare e tornare, con una fortunata pendolarità. Ma Insinna è bravissimo, un fuoriclasse, e negli ascolti supera il suo concorrente diretto ‘Striscia la Notizia’”. Ti piace ‘Striscia’? “Mi piaceva, fino a qualche anno fa. Ma il programma che mi piace di più a Mediaset, adesso, è ‘Le Iene’. Riesce a trasferire allegria anche quando si occupa di cose serie”. E ‘Striscia’ perché non ti piace più? “Comunica stanchezza, è una formula troppo vecchia, si è trascinata troppo a lungo”. Obietto: anche ‘Le Iene’ non vanno bene come un tempo. “Continuano a fare il doppio d’ascolti della media di Rete. Fanno il 14 per cento di share, mentre la media di Italia1 è il 7 per cento”. Si sono fatte le tre del pomeriggio, e Leone guarda l’orologio. Deve andare alle prove di un nuovo spettacolo. Il tempo di un babà alla crema, poi ci salutiamo, lo accompagno al taxi. Il De Russie si sta svuotando. Prima di lasciare la saletta interna del ristorante faccio in tempo a salutare con lo sguardo il sessantenne impacchettato nella pashmina. Mi rivolge un’occhiata neutra, un po’ annoiata. Tatiana e Irina non sono venute.

* La collana “A tu per tu” di Salvatore Merlo ha ospitato finora Ferruccio de Bortoli (19 febbraio) ed Ezio Mauro (22 febbraio).

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  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi erasmiana a Nottingham. Un tirocinio in epoca universitaria al Corriere del Mezzogiorno (redazione di Bari), ho collaborato con Radiotre, Panorama e Raiuno. Lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.