Il cuore oltre la piazza

Paola Peduzzi

Il presidente corrotto dell’Ucraina è in fuga, la strage è stata fermata, ma è troppo presto per celebrare o dichiarare che l’occidente ‘ha vinto’ o che la Russia ha ‘perso’. Una delle lezioni incontrovertibili che ci arrivano da Kiev, capitale dell’Ucraina, è che un paese così profondamente diviso dovrà confrontarsi con problemi pericolosi che possono risuonare ben oltre i suoi confini”. Così iniziava un editoriale del New York Times, due giorni fa, e pubblicato nelle stesse ore in cui Vitali Klitschko, quell’armadio dell’opposizione che avete visto parlare in piazza a Kiev più volte, stava per candidarsi alla presidenza dell’Ucraina.

    Il presidente corrotto dell’Ucraina è in fuga, la strage è stata fermata, ma è troppo presto per celebrare o dichiarare che l’occidente ‘ha vinto’ o che la Russia ha ‘perso’. Una delle lezioni incontrovertibili che ci arrivano da Kiev, capitale dell’Ucraina, è che un paese così profondamente diviso dovrà confrontarsi con problemi pericolosi che possono risuonare ben oltre i suoi confini”. Così iniziava un editoriale del New York Times, due giorni fa, e pubblicato nelle stesse ore in cui Vitali Klitschko, quell’armadio dell’opposizione che avete visto parlare in piazza a Kiev più volte, stava per candidarsi alla presidenza dell’Ucraina; nelle stesse ore in cui l’ex presidente ucraino Viktor Yanukovich iniziava il suo tour per l’Ucraina dell’ovest, a caccia di un posto sicuro dove rifugiarsi, ché tutt’a un tratto i suoi più fedeli consiglieri sono diventati i suoi più spietati nemici – vatti a fidare dei russi; nelle stesse ore in cui la Russia di Vladimir Putin, dopo lo choc iniziale per il fallimento di un piano di repressione studiato nei dettagli (forse è il nome dell’operazione ad aver portato sfortuna: “Boomerang”, non geniale), iniziava a corteggiare le ragioni della diplomazia, con quel mastino di Sergei Lavrov, ministro degli Esteri russo, che diceva: “Siamo interessati all’idea che l’Ucraina possa far parte della famiglia europea, in tutti i sensi di questa parola”. In quelle stesse ore, il New York Times diceva che è presto per dire chi ha vinto. Presto?

    Scusateci, voi esperti della cautela e del calcolo, voi addestrati alla scuola obamiana dell’analisi del rapporto costi-risultati, che infilate tutto il mondo, comunque sia fatto, in qualche matrice con le rette cartesiane che incrociano i dati sugli umori dell’opinione pubblica – scusateci, voi realisti: in Ucraina l’occidente ha vinto, eccome. Anzi, ha vinto la piazza che sogna l’occidente, che è ancora più emozionante per noi, che dell’occidente facciamo parte, e per chi da tre mesi sta fermo lì, in un gelo che da buoni europei del sud abituati alle brezze del Mediterraneo non sappiamo nemmeno immaginare. Ha vinto la piazza che vorrebbe assomigliarci, che è una conferma per noi, che di quelle barricate ce ne siamo a lungo fregati – cosa vuoi che sia un’altra rivoluzione colorata, le abbiamo viste e applaudite e non è mai cambiato niente – e che pure siamo ancora un punto di riferimento, un punto d’arrivo persino. Non è affatto presto per annunciare questa vittoria, per osservare le immagini delle persone che, quando hanno saputo che Yanukovich era scappato davvero, il dittatore era in fuga, la sua villa con i bidet con i piedini d’oro era aperta al pubblico scherno, si guardavano attorno con gli occhi spalancati. La sorpresa della vittoria, dopo che sei stato spianato dai cecchini, dopo che i tuoi amici sono morti, dopo che i leader di quell’occidente tanto sognato si sono aggirati per i tuoi luoghi facendo finta di non vedere i sacchi bianchi per terra, dopo che hai temuto che il momento buono fosse passato, restava soltanto da sperare di non bruciare vivi – ecco, la sorpresa di chi non si è arreso ma ha pensato di morire. Quegli occhi increduli e felici, tendenzialmente color ghiaccio, sono la risposta a chi dice che la situazione è incerta e le conseguenze pericolose, è la risposta a chi dice che è presto per dire chi ha vinto. La piazza di Kiev ha vinto: ci sarebbe da abbracciarli uno per uno quegli ucraini arrossati dal gelo, ché una vittoria di una piazza non la vedevamo da un po’, e ci stavamo abituando all’idea che la rivoluzione contro i regimi in nome della libertà fosse roba del passato – forse roba mai esistita.

    Semmai è tardi per dire chi ha vinto, non presto, l’Armata rossa è entrata in stato d’allerta sul confine: Putin non vuole passare per il perdente, questo è chiaro. Ci siamo attardati noi, sempre indecisi sul da farsi, sempre attenti ad accontentare chiunque, compreso Putin che pure non perde occasione per ricordarci che, potendo, ci stritolerebbe tutti, e poi distratti quando una piazza ci implorava di guardarla. Morire per l’Europa nel 2014 – c’è dimostrazione di forza più potente e decisiva? Per l’Ucraina lo è, certo, ma anche per noi europei che da anni attentiamo all’Unione europea, giocando con l’euro e con la sovranità come bambini dispettosi, per noi che ci accingiamo a celebrare l’ascesa dei Tea Party del nostro fragile continente, gli antieuropei, in vista delle elezioni di maggio. Ci sarebbe da riempirsi il petto d’orgoglio, altroché.

    Invece no. “Bisogna evitare lo scontro con i russi”, ripetono i commentatori. Certo che bisogna evitarlo, ovvio. Lo spettro di una Guerra fredda sotterranea in corso da tempo s’aggira per le cancellerie di tutto il mondo, assieme al timore che possa, infine, deflagrare e ributtarci indietro di decenni. Non c’è nessuno che la vuole, con tutta probabilità nemmeno i russi (speriamo di non peccare di troppo ottimismo), che sanno alzare i toni e ottenere quello che vogliono, che per le loro aree d’influenza arrivano a spingersi al confine tra diplomazia e minaccia, che non si preoccupano se Barack Obama è un po’ freddino o se Susan Rice, consigliera per la Sicurezza nazionale americana, dice di non impicciarsi. Con questa tattica, Mosca ha già messo un’ipoteca sulla Siria, regolando i rapporti di forza sul campo, facendo fallire tutte le conferenze di pace organizzate finora, costringendo la Casa Bianca a rivedere la sua strategia in medio oriente molte (troppe) volte. Mosca vuole contare nel mondo, ancor più ora che l’occidente sembra occupato in altre faccende, ancor più ora, insomma, che sembra più facile imporsi. Ma la via delle armi è impervia per la Russia, anche al netto di quell’imprevedibilità, di quella follia quasi, che da sempre circonda la questione ucraina, perché, come diceva Lenin, “se perdiamo l’Ucraina, perdiamo la testa”.

    Bisogna evitare lo scontro, ovvio. Ma questo non significa non schierarsi. Invece che affidarsi alla cautela, muovendosi a piccoli passi per non urtare le sensibilità di alcuno, è necessario difendere la propria parte – la propria piazza. Già ieri gli europei, che galvanizzati da una vittoria ottenuta a loro insaputa si sono mossi uniti e decisi per la bellezza di quarantott’ore, si erano già ripiegati sull’attendismo. La capa della diplomazia europea, quella gran delusione che porta il nome di Catherine Ashton, ha ricominciato a dosare le parole: “Sostenere ma non interferire”, questo è il diktat, perché gli ucraini devono mantenere buoni rapporti con la Russia. Le parole sono importanti: “Non interferire” è l’espressione che anche l’America ha usato rivolta ai russi. L’interferenza ha a che fare con la sovranità: gli ucraini devono decidere da soli, non saremo certo noi a dire che cosa debbano fare – anche qui siamo nel campo dell’ovvio. Ma che cosa succede se, come è stato finora, i buoni rapporti con i russi e i buoni rapporti con l’Europa, gestiti in modo vario e anche ambiguo da diversi leader di diversi partiti a Kiev e da diversi leader occidentali (nel 1991, quando Solidarnosc già governava la Polonia, Bush padre disse agli ucraini che sarebbe stato folle affidarsi a un “nazionalismo suicida” e sganciarsi dall’orbita dell’Unione sovietica), hanno portato a una guerra civile? Da quando difendere i propri valori è considerata dannosa interferenza?

    Il Wall Street Journal ha tirato fuori il cuore, di fronte a un mondo votato al calcolo razionale, e ha pubblicato un editoriale dal titolo chiaro: “Aiding Ukraine’s Democrats”. Il quotidiano analizza i problemi esistenti, la frattura geografica e culturale del paese, la corruzione della leadership, l’interesse russo e la sua paura, ma conclude ribadendo un principio democratico: se sono in gioco i tuoi valori, schierarsi non deve essere un problema. “L’Ucraina ha bisogno di un ‘restart politico’, come l’ha definito l’ex campione di box e leader dell’opposizione Vitali Klitschko. Nuovi volti sono benvenuti, e Klitschko, che parla russo, ha un seguito a est ed è avanti nei sondaggi. E’ privo di esperienza, ma non ha ombre legate alla corruzione. Chiunque sarà il nuovo leader dovrà fare una rivoluzione economica che include lacrime e sangue nel breve periodo. E’ il momento per l’Europa e per gli Stati Uniti di aiutare l’Ucraina a superare questa transizione brutale. L’Europa non ha mai offerto una membership tale da fornire ai leader ucraini un incentivo e una roadmap per le riforme. Gli Stati Uniti sono stati sostenitori leali dell’indipendenza ucraina negli anni Novanta e Bill Clinton può fare un seminario in proposito a Barack Obama. Se il Fondo monetario internazionale ha un qualche obiettivo utile, dovrebbe essere quello di aiutare l’Ucraina nella sua emergenza finanziaria in modo da contrastare il bailout da 15 miliardi di dollari che Putin aveva creato su misura per Yanukovich. L’interesse in gioco va ben oltre l’Ucraina. Putin sa che un’Ucraina democratica ispirerà i riformatori russi, ed è il motivo per cui la sua ingerenza non è finita. L’occidente deve respingerlo con attenzione diplomatica, soldi e la prospettiva di legami economici sempre più stretti”.

    Il danno peggiore che oggi l’occidente può fare in Ucraina è mantenere le distanze, o peggio ancora, pensare che la vittoria sia effimera e temporanea. Simon Jenkins, stimato e cinico commentatore britannico in forza al Guardian, ha fornito ieri una rappresentazione plastica di questa tentazione. Nel suo articolo, parte da “The Square”, un documentario su piazza Tahrir, in Egitto, e cita l’urlo di uno dei personaggi principali: “Abbiamo vinto la rivoluzione”. Nello stesso momento, la radio che ascolta Jenkins trasmette un urlo simile proveniente dal Maidan, il centro rivoluzionario di Kiev. Così il giornalista inizia a riflettere sulla forza delle piazze, sulla loro teatralità ed effervescenza, scomoda Freud e Durkheim per sottolineare quanto sia potente un gruppo di persone che si mette lì a protestare fino a che ottiene quello che vuole, ma dopo questa descrizione affascinante e a tratti problematica che attraversa tutte le piazze che abbiamo visto riempirsi negli ultimi anni, conclude: “Una folla in una piazza non è un rito di purificazione democratica. E’ una risposta umana primitiva a una minaccia. Esprime il collasso delle istituzioni politiche, il fallimento dello stato di diritto, l’usurpazione di un partito, di un’associazione, di una leadership. Una folla può bruciare la miccia di un regime indebolito e buttare uno stato nelle tenebre. Raramente una folla può accendere la luce della democrazia. Ogni sollevazione offre speranza di tempi migliori. Ma la storia è spesso scettica. Soltanto un mese fa un’altra grande folla s’è radunata a piazza Tahrir in una manifestazione di ironia. Celebrava il ritorno al potere dell’esercito dopo tre anni di caos. A volte anche le folle desiderano l’ordine”.

    L’involuzione di buona parte delle recenti rivolte di popolo, in diverse parti del mondo, è innegabile. Ma il fallimento è davvero responsabilità della piazza? Non sarà forse che queste folle, spesso anarchiche, certo non organizzate, sono state abbandonate e quindi non sono riuscite a trovare una via per uscire dal movimento e diventare gruppo politico? In Ucraina le istituzioni dello stato non sono collassate: il Parlamento, la Rada, s’è ricompattato veloce contro il presidente Yanukovich, ha nominato i leader per la transizione, ha spiccato un mandato di cattura contro l’ex dittatore, ha fissato la data delle elezioni, ha ordinato la liberazione di Yulia Tymoshenko e ha iniziato a negoziare con la piazza. Non è detto che questa trattativa proceda senza scossoni, anzi: la formazione del governo ieri è già stata piuttosto complicata, e sappiamo che nella piazza di Kiev, dopo tre mesi di resistenza, non si sono affollati soltanto sinceri e pacifici pro europei. Ma è proprio adesso che l’ingerenza occidentale ha senso, non per costringere gli ucraini a fare come noi vorremmo, ma per dar loro l’indipendenza e l’autonomia per scegliere senza il peso della corruzione e del ricatto. Gli Stati Uniti hanno ancora la tentazione di affidarsi al famigerato “leading from behind”, come ha detto l’ex capo degli economisti della Casa Bianca obamiana Lawrence Summers, con la sua immancabile perfidia: “La capacità dell’Europa di gestire con determinazione questa crisi sarà un test importante sulla sua abilità di operare ancora all’esterno dei suoi confini con tutti i problemi che ci sono nell’Eurozona”. Forse non è il caso di testare, proprio adesso, le abilità dell’Europa, meglio preparare un piano di aiuti concreto e aiutare la Rada a non rompere il dialogo con la piazza né a farsi travolgere dalla frenesia di chiudere i conti con il regime caduto, così come evitare secessionismi nella parte ovest dell’Ucraina. I test e i calcoli pesano sui popoli che si ribellano: basta vedere che prezzo pagano i siriani per la non ingerenza dell’occidente.

    • Paola Peduzzi
    • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi