Un miliziano assadista e un ribelle si stringono la mano dopo una tregua ieri a Babbila, periferia di Damasco

Fallita Ginevra 2, per la Siria si torna al piano A proposto dai sauditi 18 mesi fa

Daniele Raineri

Sabato scorso, come ampiamente anticipato un po’ da chiunque, la conferenza di pace di Ginevra sulla Siria è fallita. Il mediatore delle Nazioni Unite, Lakhdar Brahimi, ha chiesto scusa ai siriani per la futilità del tutto e non ha annunciato alcuna data per un terzo incontro. E ora che succede? Per capire vale la pena tornare di poco indietro nella guerra. Il 2 settembre del 2012 l’allora direttore della Cia, l’ex generale David Petraeus, atterrò all’aeroporto Atatürk di Istanbul per un incontro con il direttore dei servizi segreti turchi (Mit), Hakan Fidan, sostenitore della necessità di aiutare i gruppi ribelli contro Assad – una strategia per la quale ora è molto criticato. Otto giorni più tardi ci fu un altro incontro tra servizi segreti, questa volta nella capitale Ankara. C’erano Arabia Saudita, Qatar, Turchia, Francia e Stati Uniti – i più attivi nell’appoggio esterno contro il presidente siriano Bashar el Assad (Petraeus era già volato via, gli americani erano rappresentati da delegati di grado inferiore). I sauditi e il Qatar proposero un piano per consegnare ai ribelli moderati dell’Fsa (l’esercito della Libertà) armi controcarro e missili portatili in grado di abbattere gli aerei di Assad e di colmare così il più grande gap tra i due fronti, la supremazia aerea totale del governo siriano. Gli Stati Uniti però si opposero: temevano che le armi sarebbero finite ai gruppi più estremisti (all’epoca non c’era ancora lo Stato islamico, erede diretto di al Qaida in Iraq poi dilagato anche in Siria, c’era soltanto la Jabhat al Nusra, che ora vista con il senno di poi appare a molti più moderata e locale). Niente armi ai ribelli, anche se Petraeus, il segretario di stato Hillary Clinton e il Pentagono erano a favore. Il presidente Obama, due mesi prima della rielezione, prese con discrezione distanza dai ribelli siriani.

  

Sono passati 18 mesi. I bombardamenti aerei indiscriminati con gli aerei e gli elicotteri che nell’estate del 2012 erano una novità ora sono diventati una routine quotidiana e ci sono stati pure attacchi con le armi chimiche, il più grave ad agosto 2012 a Damasco. Il doppio binario della politica estera di Obama in Siria è a un punto morto: il disarmo chimico è già in irrimediabile ritardo sulle scadenze fissate a settembre 2013, quando lo strike americano sembrava imminente, e Ginevra 2 si è spenta. Il piano saudita scartato nel 2012 ora torna e non sembra più così brutto. Sabato il Wall Street Journal ha rivelato che il 30 gennaio in un incontro ad Amman, in Giordania (la Giordania confina con il sud della Siria, per la sua posizione fa da tramite tra i ribelli e gli stati esteri che li appoggiano), i sauditi hanno promesso ai ribelli la consegna di Manpad cinesi. I Manpad sono i missili portatili antiaerei che si possono lanciare da una spalla e sono le stesse armi su cui l’Amministrazione Obama aveva posto il veto. La posizione non è cambiata, avverte una fonte nel pezzo del Wall Street Journal, ma Washington chiuderà un occhio, perché sta partecipando attivamente al piano saudita. Ha pagato tre milioni di dollari ai ribelli in due tranche, il 30 gennaio – nello stesso incontro dei missili – e qualche giorno più tardi. Meno di 48 ore dopo l’arrivo del denaro cash, i ribelli del cosiddetto Fronte sud hanno attaccato le posizioni di Assad – sono loro stessi a dirlo – con una nuova campagna militare battezzata con sarcasmo “La Ginevra dell’Hauran”. L’Hauran è la zona dei combattimenti nel sud della Siria, è come se i ribelli volessero dire: eccolo qui il negoziato decisivo, la svolta della guerra, la facciamo noi qui nell’Hauran dando l’assalto alle posizioni degli assadisti, considerato che il tavolo negoziale di Ginevra non serve a nulla.

  

Il Fronte sud è destinato a far parlare di sé. E’ assai meno infiltrato da jihadisti del nord, dove i ribelli e i mujaheddin dello Stato islamico (spesso “muhajirin”, quindi combattenti che arrivano dall’estero) si fanno la guerra e sono ormai impantanati in una sfida logorante che ha aperto la strada alle truppe del governo – che infatti ieri sono avanzate attraverso Sheikh Najjar, nella periferia orientale di Aleppo e si sono avvicinate al distretto orientale (da almeno un anno i soldati non arrivavano così vicini, è il risultato della guerra interna tra i gruppi che non sono assadisti). Il Fronte sud si è appena formato con la fusione di 68 gruppuscoli e ora conta circa diecimila uomini sotto il comando di Bashar al Zoubi.

 

Davanti il Fronte ha la strada che parte dalla ancora contesa Daraa – dove la rivolta scoppiò nel marzo 2011 quando la polizia segreta sequestrò alcuni ragazzini colpevoli di aver tracciato scritte antiregime sui muri di una scuola – e arriva alla più dura linea di difesa del governo nel sud della capitale, quella formata dalle truppe d’élite della quarta divisione comandata da Maher al Assad, fratello di Bashar, e dai combattenti hezbollah libanesi, che ora presiedono molti posti di blocco perché considerati più affidabili dei soldati siriani.

 

Su a nord, il generale Selim Idriss, un uomo di cui l’Amministrazione Obama si fidava ma che aveva scarsa presa sui ribelli, è stato esautorato dal governo in esilio dell’opposizione, presieduto da Ahmad Jarba, che nel finesettimana s’è fatto vedere per la prima volta dentro la Siria, assieme a un “vero” comandante dei guerriglieri, Jamal Maarouf. Jarba ha fatto un giro nella provincia di Idlib, dove il pericolo per lui è rappresentato non tanto dagli assadisti, lontani a est, ma dagli uomini dello Stato islamico, che lo considerano un infedele venduto ai sauditi e all’occidente.

 

In tutto questo aprirsi di nuove fasi, pure il presidente Obama usa toni diversi, come nota un editoriale del Washington Post. La Siria non è più “una guerra civile altrui”, ma una “priorità della sicurezza nazionale”. A marzo andrà in visita in Arabia Saudita, considerando come sta tornando sui suoi passi potrebbe essere una Canossa araba per fare ammenda della sua politica fallimentare in Siria.

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  • Daniele Raineri
  • Di Genova. Nella redazione del Foglio mi occupo soprattutto delle notizie dall'estero. Sono stato corrispondente dal Cairo e da New York. Ho lavorato in Iraq, Siria e altri paesi. Ho studiato arabo in Yemen. Sono stato giornalista embedded con i soldati americani, con l'esercito iracheno, con i paracadutisti italiani e con i ribelli siriani durante la rivoluzione. Segui la pagina Facebook (https://www.facebook.com/news.danieleraineri/)