Dopo il governo Allegri

Lodovico Festa

A un ammaccato tifoso del Milan l’esecutivo in carica pare una sorta di governo Allegri: avrà anche qualche difetto tecnico, ma è soprattutto sfortunato (la colpa peggiore, come spiegava Napoleone). In più, è sfiduciato dalla proprietà (gli elettori) e dai suoi giocatori. A partire dal partito di riferimento, il cui segretario Matteo Renzi ha detto: in dieci mesi non avete combinato nulla.

    A un ammaccato tifoso del Milan l’esecutivo in carica pare una sorta di governo Allegri: avrà anche qualche difetto tecnico, ma è soprattutto sfortunato (la colpa peggiore, come spiegava Napoleone). In più, è sfiduciato dalla proprietà (gli elettori) e dai suoi giocatori. A partire dal partito di riferimento, il cui segretario Matteo Renzi ha detto: in dieci mesi non avete combinato nulla.
    Se l’Italia non è ancora in serie B (anche se non è più tra gli stati europei che contano come Madrid e Varsavia) è perché un meraviglioso arbitro, Mario Draghi, le para tutti i rigori: ma lui stesso, quando si arriverà alle decisioni finali sui sistemi bancari e, nel 2015, sui debiti degli stati, non potrà fare miracoli.

    Lettino sogna ora un “bis”. Dovrebbe studiare com’è andata a chi li ha già provati: da Massimo D’Alema a Romano Prodi. Il fatto è questo: che per governare bisogna avere una “base”, magari autoritaria, ma una base. E questa non c’è. E con Renzi segretario, non potrà più essere messa insieme. Ad abbattere definitivamente Prodi bastò persino sua evanescenza Walter Veltroni. Figurarsi un giovane teppista fiorentino.

    L’agonia di Lettino rappresenta comunque un problema complesso. Non c’è alcuna possibilità di varare un governo Seedorf senza votare (peraltro proprio mentre scriviamo l’Udinese si incarica di spegnere almeno una parte dei nostri sogni di riscatto rossonero). Con l’accordo del Nazareno, la prospettiva di elezioni a maggio è sostanzialmente svanita. In un ambiente largamente segnato dall’ottimismo dell’intelligenza e dal pessimismo della volontà, pare quasi di far la figura dei corvacci, a segnalare i gravi rischi conseguenti a questa situazione. Ma si rifletta anche soltanto su come l’infernale circuito mediatico-giudiziario, che ha sconvolto l’Italia dal 1992, si sia in parte rallentato solo perché vi era la paura di portare voti a Silvio Berlusconi in caso di prossime elezioni politiche.

    Quel che si registra nel centrodestra, d’altra parte, non è un vizio spuntato oggi. Limitandosi agli ultimi anni, va osservato come non si sia colta la linea di parziale a-berlusconizzazione di Mario Monti (per una fase polemica coi tagliagole di Largo Fochetti) al fine di costruire esiti di relativa serenità nazionale. E il dilettantismo politico di Monti non funziona da alibi. Non si sono utilizzati i mesi “utili” del governino Letta (quelli pre-Esposito, per capirsi) per impostare le basi di una futura pacificazione. E, nemmeno qui, funge da alibi la specifica inettitudine dei ministri “berlusconiani” addetti alle riforme istituzionali. Se è vero che chi ben comincia è a metà dell’opera, c’è poi sempre l’altra metà di cui ci si scorda. Non è per puro caso: ciò deriva dal solido blocco esistente di nomenclature, influenze internazionali, foschi “interna corporis” ed estenuati interessi del poco, essenzialmente bancario, che resta dell’establishment. Un blocco centrato sulla propria conservazione e non facilmente scalfibile da una tendenza cultural-sociale più movimentistica che politica, come quella berlusconiana. Ed eccoci un’altra volta con “metà dell’opera” risolta dall’accordo del Nazareno, ma con l’altra che non si sa come completare.

    La situazione è tutt’altro che semplice. Eppure qualche speranza nasce dal carattere della svolta renziana, che pare andare oltre al solito orizzonte conservatore della sinistra e sembra davvero voler mettere in movimento gli assetti del potere italiano: volendo lanciarsi in un’analisi alla Giulietto Chiesa, si potrebbe azzardare che gli ambienti americani che premono per un’Italia non subordinata a Berlino stavolta hanno puntato a sinistra invece che al centro. Come fecero a suo tempo con Mario Segni e mantenendo, peraltro, un buon rapporto anche con la “protesta” grillina. Nel ’94 lasciarono la Lega ai tedeschi, facendo così vincere Berlusconi. Senza chiudere gli occhi su tutti i pasticci che il “Washington consensus” ha combinato negli ultimi anni, sembrerebbe che, nel nostro caso, la spinta possa rivelarsi utile per superare il potere ancora prevalente degli Zombi.

    Non considero l’assemblamento renziano di scoutismo, lapirismo, innovazioni improvvisate e, al fondo, di centralità delle città rispetto alla nazione, la via migliore per governare l’Italia. D’altra parte, non pare che funzioni la sua fonte stessa d’ispirazione, cioè il sindaco d’America Barack Obama. E comunque, anche senza apprezzarne per forza gli obiettivi politici, l’ansia per uno stato aperto e non guidato solo dall’alto pare una novità, rispetto ai tentativi riformatori D’Alema e Prodi. E perfino Napolitano. Il punto sarà come utilizzare “la novità”, di fronte alle macerie che su stato e società spargerà l’agonia del governino. In una situazione interessante per certi versi, e per certi altri drammatica, Berlusconi dovrebbe tentare un’innovazione: dire a se stesso la verità sugli aspetti complessi della cosa, ancor prima di dirla agli altri e, su questa base, preparare una strategia. Articolata, addirittura.