La vera casta corrierista che ci soffoca e ora ha paura del voto (e di Renzi)

Lodovico Festa

Beppe Severgnini sul Corriere della Sera ha invitato a occuparsi di lavoro invece che di riforma elettorale e voto a maggio, e insieme ha incitato a fare come gli inglesi, gli irlandesi, gli spagnoli che si sono tirate su le maniche e hanno rilanciato le loro economie. Ha rappresentato così perfettamente, in un editoriale solo, lo spirito del tempo che domina la nostra società. Da tante parti s’impreca – non senza argomenti – contro i Bossi, i Berlusconi, i Grillo che hanno radicato sui nostri lidi l’antipolitica.

    Beppe Severgnini sul Corriere della Sera ha invitato a occuparsi di lavoro invece che di riforma elettorale e voto a maggio, e insieme ha incitato a fare come gli inglesi, gli irlandesi, gli spagnoli che si sono tirate su le maniche e hanno rilanciato le loro economie. Ha rappresentato così perfettamente, in un editoriale solo, lo spirito del tempo che domina la nostra società.
    Da tante parti s’impreca – non senza argomenti – contro i Bossi, i Berlusconi, i Grillo che hanno radicato sui nostri lidi l’antipolitica. Ma quest’ultima nasce principalmente da due filoni: i giustizialisti che dal 1992 rivendicano come la questione nazionale sia solo problema di manette  (incapaci di comprendere come il feudalesimo delle procure non consenta neppure il colpo di stato al fondo agognato) e il paradossale movimento anti casta promosso nel 2006 dalla casta più radicata della nazione, cioè l’accrocchio industrial-finanziario degli ultimi mohicani del nostro piccolo establishment. E Severgnini, con le sue sentenze di diseducazione di massa, di queste tendenze esprime un concentrato distillato: e non tra leghisti, grillini o berlusconiani, ma in Via Solferino (pur con tanti nobilissimi controcanti) e sulla Repubblica (la vera testa di serpente della disgregazione italiana).

    Spagna, Irlanda e Inghilterra possono assumere le preziose decisioni che hanno preso perché hanno capi di stato (presidenti eletti dal popolo o monarchi) che per unire la nazione non hanno bisogno delle estenuanti manovre di una persona pur di ottima cultura e di buona (seppur fragile) volontà come Giorgio Napolitano. Così spagnoli, inglesi e irlandesi non hanno mai paura ad affidare a un sistema politico sostanzialmente bipolare le scelte sugli indirizzi di fondo delle loro economie. Hanno non solo il coraggio (che non c’è in maggiordomi come Mario Monti ed Enrico Letta) ma anche le istituzioni adeguate per difendere la propria sovranità nazionale perfino rispetto alla terribile potenza tedesca (e David Cameron è riuscito anche a farsi sostanzialmente automettere in minoranza per contenere uno dei tanti sbandamenti dell’Amministrazione americana). Persino i greci tornando alle urne nel 2012 nel giro di un paio di mesi quando il voto non aveva dato un risultato utile, hanno dimostrato (con risultati poi che dovrebbero far vergognare l’attuale governino) ben più attenzione alla sovranità popolare/nazionale di quella che sappiamo esprimere noi.

    Certo, per non finire nella palude degli insensati sensi comuni oggi in grande voga, abbiamo bisogno di considerare in profondità la vicenda che stiamo vivendo: il tragico incrociarsi di subalternità senza decoro verso le influenze internazionali e la superba volontà di mantenere un controllo dall’alto (naturalmente per “il nostro bene”) su quel che resta dello stato. Per capire il terribile guaio in cui ci troviamo dobbiamo considerare come questa situazione nasca sia dalla tendenza di fondo partita nel 1992 alla degradazione dello stato (ormai abbiamo superato la Germania di Weimar – 1919-1933 – e la Yugoslavia post titina – 1980-1999 – nella durata di crisi che vedono contrapporsi inadeguatezze costituzionali a nuovi scenari geopolitici) sia dalla specifica  delegittimazione politica del Parlamento (dal giudice Antonio Esposito al ribaltone nel centrodestra senza verifica elettorale, dalla radicale decisione dell’Alta corte al fallimento di un presidente della Repubblica che per essere rieletto chiese un’ampia maggioranza riformatrice e ora si appoggia essenzialmente sul consenso di un pugno di ministerialisti) oggi in corso.

    Peraltro la tendenza di lungo periodo alla degradazione del nostro stato segna strutturalmente la Seconda Repubblica: la politica per esprimersi ha bisogno di uno stato che – anche solo relativamente  come quello dei partiti definito dai compromessi costituzionali del 1947 – funzioni, altrimenti a una dialettica tra rappresentanti e rappresentati, si sostituisce un regime dell’opinione pubblica non mediato e sottoposto a qualsiasi influenza (nel nostro caso soprattutto quella delle toghe combattenti), con le ventate di antipolitica che ne derivano da tutti i lati: di destra, di sinistra, dell’establishment e ministerialiste.

    Si tratta di trovare il modo per riprendere la stretta via tra emergenza e riforma dello stato invocata  da un Napolitano poi non capace di percorrerla. Ci vuole buona volontà e cultura. Ci vuole speranza nelle astuzie della ragione per cui anche un quarantenne fiorentino che dice molte cose ben poco convincenti (l’appello al giovanilismo mi fa venire in mente solo soluzioni catastrofiche come il fascismo e il sessantottismo) può essere quello che apre – anche perché i suoi legami con lo sviluppismo americano sono meglio di quelli con l’austerità tedesca – una via a nuovi solidi vincoli tra solidarietà popolare e nazionale. Tra dubbi e pessimismi, va comunque sottolineata l’attenzione renziana, alla faccia dei Severgnini, a far pesare il popolo. Non è tutto ma non è neanche poco.