La voluttà di scendere

Alessandro Giuli

A quest’ora Michael Schumacher potrebbe essere già adagiato nel suo Walhalla di asfalto e gomma e acciaio, o forse giace ancora nella caligine della Terra di mezzo, lì dove il destino lo ha colto, in attesa del risveglio alla vita o rassegnato a che una bionda dea sotterranea gli schiuda la dimora dei lemuri nordici, Helheim, l’ostello delle morti acerbe.

    A quest’ora Michael Schumacher potrebbe essere già adagiato nel suo Walhalla di asfalto e gomma e acciaio, o forse giace ancora nella caligine della Terra di mezzo, lì dove il destino lo ha colto, in attesa del risveglio alla vita o rassegnato a che una bionda dea sotterranea gli schiuda la dimora dei lemuri nordici, Helheim, l’ostello delle morti acerbe.

    Non deve stupire la meccanica del suo incidente, la caduta con gli sci indosso, la velocità estrema come costante nella vita di un pilota di Formula 1. E infatti i più adesso almanaccano proprio su questo, sul brivido dell’azzardo e sulla banalità dell’accidente. La mitologia moderna è stipata di figure devote al rischio, sopravvissute come per prodigio a circostanze statisticamente letali, poi trapassate per un nonnulla. La recente scomparsa di Peter O’Toole, per esempio, ci ha ricordato l’epilogo del leggendario Lawrence d’Arabia, uscito di strada con la sua motocicletta per schivare non i proiettili dei soldati turchi ma due bambini in bici.

    Certo è che la grammatica dello sci ha un fascino suo speciale. Dalla fine degli anni Trenta del secolo scorso, Julius Evola si provò a decrittarla sul piano dei simboli e dei rimandi occulti. Ne uscì fuori una “psicoanalisi dello sci” ancora rispettabilissima. “La voga di questo sport è abbastanza recente”, scriveva lui che le montagne usava scalarle e aveva fama di buon alpinista (era amico del celebre Domenico Rudatis) senza per questo sdegnare l’esperimento in discesa libera. Ma perché l’uomo moderno un giorno ha preso a sciare? “Che cosa costituisce psicologicamente l’essenziale nello sport dello sci? … La risposta ci sembra ovvia: è la discesa”. Una voluttà di scendere nel modo più rapido e stordente che è l’esatto calco negativo d’ogni salita con passi sicuri, passi pesanti e lenti. Se “l’alpinismo è caratterizzato dalla ebbrezza dell’ascesa in funzione di lotta e di conquista, lo sport dello sci è caratterizzato dall’ebbrezza della discesa nella sua velocità e quasi diremmo nel suo tempo di caduta”, scrisse Evola che era anche ingegnere e conosceva bene le necessità della fisica. E aggiungeva, con una maggiore chiarezza, con un nitore lontano: “L’alpinismo comporta assai più un sentimento diretto del proprio corpo, equilibri, sforzi, slanci e mosse che presuppongono un controllo completo di esso, la manovra lucida e calcolata in tutte le sue forze di massa in rapporto ai varii problemi dell’arrampicamento e dell’ascesa, della scelta e della presa di un appiglio, della resistenza e di un gradino tagliato nel ghiaccio vivo. Nello sci si tratta di cosa già diversa; il rapporto fra sé e il proprio corpo, legato agli sci, è lasciato senz’altro in balia della forza di gravità, può paragonarsi al rapporto fra un’automobile lanciata ad una data velocità e chi la conduce”.

    E rieccoci alla Formula 1, la cui essenza non prevede inclinazioni poiché consiste in un vorticare orizzontale, e per innumerevoli volte, sullo stesso piano di scorrimento. Ma questa traiettoria obbedisce a una voluttà famigliare, che non ha la virtù trasfigurante dell’ascesa eppure presuppone un grado di audacia o intrepidezza più alla portata dell’uomo contemporaneo. Nello sci, questa temibile intensità si proietta verso il basso e diventa come una danza accompagnata dal ritmo di forze discendenti che la legge di gravità esemplifica appena. Forse si potrebbe parlare di legge d’attrazione universale. Quel nomos della terra per il quale gli elementi chimici del corpo si aggrappano, secondo armonia, finché c’è vita, alla fredda coscienza delle nostre ossa (il regno di Saturno) e per il quale ciascun essere tende a occupare lo spazio suo nel cosmo. Per uno che ascenda verso l’immota solitudine di una cresta rocciosa, è necessario che molti de-cadano, precipitando da un punto inassegnabile, magari opponendo il loro sguardo stizzoso alle altitudini negate dal fato. L’uno e gli altri, spesso incoscienti, partecipano della stessa natura.