“Il Principe” spiegato alla mia prof.

Mariarosa Mancuso

Con il senno di poi, il liceo che abbiamo frequentato dava segni di schizofrenia. Le lezioni di storia erano il trionfo dell'aneddoto: un professore alla soglia della pensione ci intratteneva con gli elefanti di Annibale e altre piacevolezze. Da allora, per elementare prudenza, controlliamo ogni data che capita di mettere per iscritto. Credeva nei Grandi Uomini, pronunciati con la maiuscola, e nelle Grandi Imprese, pronunciate di conseguenza.

    Con il senno di poi, il liceo che abbiamo frequentato dava segni di schizofrenia. Le lezioni di storia erano il trionfo dell’aneddoto: un professore alla soglia della pensione ci intratteneva con gli elefanti di Annibale e altre piacevolezze. Da allora, per elementare prudenza, controlliamo ogni data che capita di mettere per iscritto. Credeva nei Grandi Uomini, pronunciati con la maiuscola, e nelle Grandi Imprese, pronunciate di conseguenza. Le lezioni di italiano erano il regno dello strutturalismo: una professoressa fresca di studi arrivò munita di schedine, con l’intenzione di farci smontare “Il Principe” di Niccolò Machiavelli. Le frasi andavano ricopiate e rubricate in base alle parole chiave. Qui il potere e là lo Stato. Qui le bugie e là la virtù. Qui l’oratoria e là le alleanze. Qui la guerra e là la libertà. Il rimontaggio non avvenne mai: era considerato superfluo, nonché foriero di valori sorpassati. Ne uscimmo con le idee confuse e il sospetto – poi divenuto convinzione – che il metodo scientifico applicato ai testi uccide il piacere della lettura senza procurarne altri.

    Poiché la vendetta si serve fredda e non va mai in prescrizione, regaleremmo volentieri all’insegnante di allora il libro di Adriano Sofri “Machiavelli, Tupac e la Principessa”, appena uscito da Sellerio. Magnifico esempio di rilettura artigianale, condotta con la cassetta di attrezzi da Ludwig Wittgenstein chiamata linguaggio, che dal “Principe” estrae – senza anestetizzarlo, senza appiattirlo in una formula, senza usarlo come pretesto – parecchie cose notevoli. Sulla politica, sull’esistenza, sull’autobiografia, sullo stile, sul peso che la fortuna ha nelle faccende terrene.

    Il piccolo trauma causato dalle strumentazioni teoriche che dopo parecchi sforzi e diagrammi scoprono l’ovvio (ci fece lo stesso effetto il libro con schemini psicoanalitici di Francesco Orlando dedicato alla “Fedra” di Racine, pagine e pagine ostiche per ricavarne che Fedra insegue un desiderio proibito, conclusione a portata di mano dopo una semplice lettura, giacché l’oggetto d’amore era il figliastro Ippolito) spinge ad apprezzare massimamente i lettori intelligenti. Fa da modello Michel de Montaigne, che un metodo non ce l’aveva. Coltivava la sapienza che rispetta il testo, si concedeva divagazioni, non cancellava l’autore (sia nella formulazione di Marcel Proust contro Sainte-Beuve, sia nella formulazione di Giorgio Manganelli nel suo “Pinocchio: un libro parallelo”: l’autore non è un’ipotesi necessaria). I lettori intelligenti, e capaci di valore aggiunto. Non da parafrasi, che quella riesce pure a noi.

    Si comincia con il capitolo XXV del “Principe”, tra quelli che a suo tempo pazientemente rubricammo senza vederci un paio di questioni cruciali. Tema: “Quanto possa la fortuna nelle cose umane”. Approccio alla Vladimir Nabokov, altro prezioso lettore che arricchisce i testi invece di immiserirli. Franz Kafka, Gustave Flaubert, Gogol’ e Dostoevskij non sono più gli stessi dopo le sue lezioni di letteratura (in calce, le domande che poneva agli studenti della Cornell University, tra loro la moglie di John Updike). “Accarezzate i particolari” era la regola numero uno, spesso corredata da disegnini: il manicotto di Anna Karenina, l’insetto della “Metamorfosi” che esaminato dall’entomologo non somiglia a uno scarafaggio, le descrizioni a strati che ricorrono in “Madame Bovary”.

    Il particolare che interessa Adriano Sofri sta nella parolina “presso”. La Fortuna è arbitra di metà delle azioni nostre, ne lascia governare solo “l’altra metà, o presso, a noi”. Presso sta per “poco meno”, fa notare ai commentatori “distratti” da un’altra questione: se fare a metà tra noi e la Fortuna significa che una volta vinciamo noi e la volta dopo vince lei, in un’alternanza da “testa o croce”; oppure se significa che volontà e caso si intrecciano per determinare il risultato finale di ogni azione. Il “presso” inteso come “poco meno” ci rende azionisti di minoranza nella vita. In netto contrasto con il Machiavelli spiegato ai manager, o con la lettura trionfante del fine che giustifica i mezzi. L’accento andrebbe messo piuttosto sul fine, e dunque viene in soccorso la fomulazione di Jacques Maritain, alla vigilia della Seconda guerra mondiale: “La peggiore angoscia per il cristiano è precisamente sapere che può esservi giustizia nell’impiegare mezzi orribili”.

    L’altro particolare – che tanto particolare non è, risulta anzi bene in vista come la lettera rubata nel racconto di Edgar Allan Poe – riguarda il modo di contrastare la Fortuna. Conviene essere impetuosi e non rispettosi, giacché la fortuna è donna, quindi “è necessario, volendola tenere sotto, batterla e urtarla”. Da cinquecento anni, si stupisce Adriano Sofri, “branchi di studiosi le passano oltre con naturalezza, e generazioni di scolaresche la portano all’interrogazione senza battere ciglio”. Più avanti, con un cortocircuito tra alto e basso che riesce bene soltanto a una scrittura governata da uno stile impeccabile, la donna da battere o urtare e la donna da proteggere o venerare (vale a dire la madre, e la madrepatria) tornano in una canzonetta del 1934, “Signora Fortuna”. Testo pascoliano, nel senso delle disgrazie che si accumulano sulla “strada chiamata Destino che porta in collina”. La Signora Fortuna impedisce un amore, rovina un matrimonio, si placa soltanto davanti alla mamma “che mai t’abbandona”.

    Tupac sta per Tupac Amaru Shakur, rapper che sapeva di pentametri giambici e che lesse “Il Principe - Dell’arte della guerra” in galera, nel 1995. Aveva 24 anni, un album di platino e due album d’oro alle spalle: la conta, a vent’anni dalla morte con tredici proiettili in corpo, tocca i 75 milioni di brani venduti. Prima del carcere, condannato per violenza sessuale, gli avevano già sparato una volta (cinque colpi, si finse morto per salvarsi). Uscito dal carcere decise di chiamarsi Makaveli, facendo circolare il nome e la dottrina del Principe tra chi altrimenti non li avrebbe mai sentiti nominare. “Non è che io vada pazzo per questo tipo, Machiavelli. Vado pazzo per quel modo di pensare che ti spinge a fare tutto quel che serve per raggiungere i tuoi obiettivi”. I “Principi” di riferimento, nella versione di Tupac, sono Malcolm X e Martin Luther King.

    La Principessa è Caterina Sforza, gran donna che nelle lezioni di storia al nostro liceo non era granché presa in considerazione. Magari eravamo distratti, di tanto in tanto. Ma avremmo certamente ricordato l’aneddoto di lei venticinquenne che dopo la morte del marito, ucciso in una congiura dopo molti tentativi, medita tremenda vendetta. Quanto ai figli presi in ostaggio, si alza la gonna e fa secchi gli astanti, spiegando loro che aveva “ben modo di farne altri”. Machiavelli in missione va a trovarla, un amico e maturo fan implora “portami il suo ritratto” (in un rotolo, ché a piegarlo si sciuperebbe). Sofri coglie l’occasione per voltare al femminile il capitolo XVII, sulla crudeltà e la clemenza: “Se è meglio essere amata, che temuta”. E’ dove gli umani son dipinti come “ingrati, volubili, simulatori, cupidi di guadagno”: frase che resta al maschile anche nella versione di Sofri, paladino della causa, ma siamo sicuri comprenda anche le umane.

    Il catalogo è parziale. Bisognerebbe aggiungere il palio di Siena, i rinforzi contro le alluvioni, Wikileaks, la successione in politica, nel papato, nelle grandi famiglie (non tutti sono come Aby Warburg, figlio di banchieri che rinunciò alla primogenitura facendosi garantire dal fratello Max un conto aperto per l’acquisto di libri: nacque così la biblioteca Warburg, mezzo milione di volumi, e la convinzione che in arte, come in tutte le faccende umane che contano, “Dio sta nei dettagli”). Ci spostiamo dalle montagne svizzere, culla di gente più vicina alla natura (e per questo invisa a Hegel, che nel suo diario di viaggio sulle Alpi bernesi dice dei montanari peste e corna, e altrettanto delle cime sublimi, gli piace soltanto una cascata), al Kazakistan di Nazarbayev, nato nella steppa da genitori analfabeti e nella capitale Astana mecenate di archistar. Dalla Cina di Mao a Phnom Penh. Da una casa nei dintorni di Firenze, poco lontana dal rifugio dove Machiavelli trascorse gli anni dell’esilio, a un bestiario di volpi, leoni, lupi e muli. L’invenzione del Kalashnikov e la Natura di Leopardi, legata da odiosa sorellanza alla Fortuna che governa le nostre vite.

    Le vite, appunto. Ben intrecciate con i libri, con l’effetto che quando qualcuno curiosa tra gli scaffali di casa capita di provare imbarazzo, come a prestare romanzi annotati e sottolineati (per lo stesso motivo gli scaffali altrui muovono a irresistibile curiosità). Le vite che hanno un prima e un dopo, e anche per questo Machiavelli ha la frase giusta: “Questo resto della vita che me la pare sognare” (era caduta la Repubblica fiorentina, aveva perso l’impiego, si era salvato da una congiura). Nello splendido italiano di Adriano Sofri: “Fai le cose, ma ti guardi farle, da quel punto in cui ti sembrava finita”. Nelle schedine del liceo, non avremmo saputo dove collocarla. Vale lo stesso per un’altra considerazione, che Machiavelli affida a una lettera. Tradotta in parole d’oggi, spiega perché l’alto e il basso procedano avviluppati, certificando nello stesso tempo che non si tratta di un’invenzione postmoderna. A leggere la nostra corrispondenza, scrive, un momento sembriamo serissimi, chini su cose grandi, con in petto pensieri onesti ed elevati. Un momento dopo, il lettore scopre che “noi medesimi” siamo “leggieri, inconstanti, lascivi, vòlti a cose vane”. “A qualcuno pare vituperoso, a me pare laudabile”, è la machiavellica conclusione.

     

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