Il gioco si fa duro

Fabiana Giacomotti

In questa crisi priva di certezze persino su se stessa, sono saltati anche i due indicatori che ci rafforzavano nel nostro desiderio di sentirci vivi, attivi e guizzanti nonostante tutto: il primo riguarda il cosiddetto “lipstick effect”, cioè l'effetto boom sulle vendite dei prodotti di bellezza che dovrebbe caratterizzare i momenti storici difficili, ma che secondo gli ultimi dati disponibili si è verificato solo su un numero limitato di categorie. Il secondo è relativo al “betting”, cioè alla tendenza a scommettere e giocare d'azzardo.

    In questa crisi priva di certezze persino su se stessa, sono saltati anche i due indicatori che ci rafforzavano nel nostro desiderio di sentirci vivi, attivi e guizzanti nonostante tutto: il primo riguarda il cosiddetto “lipstick effect”, cioè l’effetto boom sulle vendite dei prodotti di bellezza che dovrebbe caratterizzare i momenti storici difficili, ma che secondo gli ultimi dati disponibili si è verificato solo su un numero limitato di categorie (in termini pratici e noti all’universo semantico femminile, vendono bene i matitoni per gli occhi mentre stentano le creme per il corpo, come dire che negli ultimi tempi noi signore ci limitiamo allo stretto indispensabile per ben apparire al di sopra del maglioncino a collo alto, quel che accade sotto pazienza come all’epoca della controriforma e delle lattughe inamidate). Il secondo è relativo al “betting”, cioè alla tendenza a scommettere e giocare d’azzardo. Pare che in Italia si giochi meno, si tenti meno la fortuna, per usare un’espressione abusata ma perfetta per quanto si andrà a scrivere. Siamo di meno a sognare la botta di culo che ci renderà felici e, forse, liberi, e chi continua a farlo forse ha altre spinte oltre alla possibilità di ricchezza immediata a motivarlo. Quest’ultima notizia, che in linea teorica potrebbe confermare le ipotesi dei tanti, me compresa, convinti del fine non contingente bensì filosoficamente eversivo del gioco, del suo status persino eroico di sfida alla necessità, al rigore e al concatenarsi degli eventi, insomma al destino secondo il famoso incipit di Mallarmé sul lancio dei dadi che “non abolirà mai il caso” e che ha aperto la strada al Simbolismo, al Surrealismo e perfino ai pissoir ready made di Duchamp, sta rivelando infatti un aspetto molto più pragmatico e drammatico di guerra fra agenzie e concessionari legittimi di opportunità di gioco e no.
    Al coté romantico, o malinconico o deprimente del gioco, a seconda di come la si vuole vedere, se ne è affiancato uno erariale, e di importo sufficiente a far riconsiderare lo status del settore persino al governo: centocinquanta milioni mancanti all’appello, una distesa di agenzie di gruppi con sedi all’estero, non di rado a Malta, contro la rete di concessionari statali, che pagano imposte e che adesso rischiano di pagarne di meno. Tanto che le agenzie legittimate a farlo hanno chiesto un sostegno a Palazzo Chigi. Che il banco finisse per avere bisogno degli aiuti statali è certamente un aspetto che nessun romanziere, Dostoevskji senza dubbio, ma neppure Marco Baldini, simpatica spalla di Rosario Fiorello, deve aver mai considerato.

    A quasi dieci anni dalla liberalizzazione e da una crescita ininterrotta, in Italia il settore dei giochi inizia ad assomigliare a quei tipi che si vedono uscire dai pawn shop di Las Vegas dopo avervi lasciato la gamba artificiale o la dentiera in cambio di un prestito per andare a giocare al casinò: gente con una grande forza di volontà e qualche problema di equilibrio. Quest’anno, secondo le stime dell’agenzia specializzata Agipronews, la raccolta dei giochi segnerà il 4 per cento in meno rispetto a un anno fa, con una raccolta di 84,3 miliardi di euro, mentre la spesa effettiva è calata di circa 700 milioni, pari al 4 per cento in meno, a quota 16,1 miliardi. Dopo due mesi di scontro sull’imu, si tratta del classico e inatteso calcio negli stinchi. Escluso il lotto, l’unico gioco in controtendenza, perdono quota tutti, a partire dall’ippica. E non solo perché, con meno soldi in tasca, gli italiani che non hanno ingaggiato la propria personale battaglia contro il destino e dunque si giocherebbero pure la camicia con venti gradi sotto zero si concedono ormai giusto una puntatina qui e là e hanno reindirizzato quei pochi o tanti euro ad altri scopi, ma perché tanti sembrano voler provare il brivido dell’evasione anche quando puntano del denaro. Francesco Ginestra, presidente dell’Assosnai che da un paio di giorni si è ribattezzata Agisco (Associazione giochi e scommesse) e più che un acronimo sembra un manifesto programmatico, stima in almeno “cinquemila le agenzie illegali in Italia”: le colpevoli di quei cento e passa milioni in meno in introiti per il fisco sono loro, contro le quali combattere ad armi pari risulta ovviamente impossibile. Non soggette alla fiscalità italiana, hanno gioco facile su poste e promesse. Da qui l’aut aut: o arrivano sgravi e aiuti o con il nuovo anno gli associati chiederanno lo stato di crisi, e di concerto la sospensione dell’imposta unica e il dimezzamento dei costi di concessione.

    Ai romantici viene in mente il mister Micawber dickensiano che vede la propria vita solo in funzione del tavolo verde e di un futuro, ipotetico riscatto contro lo strapotere del banco “perché qualcosa dovrà pur andare per il verso giusto” e che certamente si sentirebbe scosso fin nel profondo dell’animo da questa improvvisa crisi del banco ufficiale. Il banco è un totem, il grande potere immoto e crudele da ingraziarsi prima e fare fesso poi. Il banco riconosciuto che mostra le prime crepe, che potrebbe cedere, è un non dato. Un affronto, un insulto alla dignità del giocatore lungo lo stesso schema di pensiero che gli fa ammettere inciampi nella condotta dell’amante, mai della moglie. Lo aveva capito Piero Chiara fin dal suo primo romanzo, “Il piatto piange”, parallelismo costante fra la vita ristretta, regolatissima della provincia italiana e gli schemi di gioco su cui si esercitano i suoi personaggi di modesto spicco, e l’hanno capito benissimo anche l’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli, dove il direttore giochi Roberto Fanelli sostiene di “aver dato grande importanza” alla gara che meno di due anni fa ha assegnato le concessioni per duemila punti-gioco in tutta Italia, e di voler “ridurre il gap con la rete legale attraverso una norma che metta entrambe sullo stesso piano a livello di tassazione”. Si discute di posti di lavoro in meno, di contratti, di disagi. Ginestra è furente: “Se fra due anni saremo ancora a bocce ferme, annulleremo tutte le clausole dei contratti firmati con i Monopoli”. Fossimo in Inghilterra, dove si scommette su tutto, anche con poste minime, per fare notizia e alimentare un qualunque dibattito, un bookmaker ci avrebbe già fatto una puntata, una scommessa, un lancio di dadi che, certamente, non abolirà mai il caso, ma vuoi mettere la soddisfazione di averci provato. Il gioco, nei pensieri dei romantici, dovrebbe essere questo. Pura, pericolosissima voluttà. In realtà, ogni tanto se ne scorgono tracce anche nei volti di quei poveretti che già alle nove del mattino siedono davanti alle slot machine nei bar, non di rado posizionate proprio vicino alla cassa a dispetto della legge. Basta osservarne l’espressione nel momento in cui abbassano la leva, seguirne lo sguardo che si perde mentre rincorre il fluire elettrico dell’adrenalina nel sangue, per capire che cosa si provi quando si va a solleticare le hasard che in francese identifica al tempo stesso il caso e l’azzardo. La vertigine del lancio di dadi che ogni volta si vuole percepire come quello decisivo, il lancio decisivo.

    Il mondo occidentale vive da centosedici anni degli effetti culturali e sociali di quella poesia, della sua grafica sbieca su cui sono fiorite tutte le composizioni tipografiche delle riviste più chic e sofisticate del mondo, compreso Harper’s Bazaar dell’epoca di Carmel Snow, Diana Vreeland e dell’art director Alexey Brodovitch, ma soprattutto delle sue allegorie: il naufragio, il pugno alzato del navigante sott’acqua che stringe i dadi della sorte, la piuma che volteggia sull’abisso, il profilo di Amleto con il corredo del suo monologo sull’essere, la rivelazione del cielo lontano dalle stelle dell’Orsa, che diventeranno “vaghe” nel giro di qualche decennio dietro la macchina da presa di Luchino Visconti. Da centosedici anni ci domandiamo che cosa sarebbe successo se davvero il protagonista avesse gettato i dadi prima di scomparire e il suo numero fosse apparso, cioè quale sarebbe stata la morale della storia se il caso vi avesse giocato un ruolo meno dominante.

    Fa impressione, e anche un po’ di tenerezza, vedere con quale spirito fideistico i giocatori del lotto si affidino al calcolo delle probabilità, alla legge dei grandi numeri pur conoscendo il rischio di finire come il cavaliere di Méré che a forza di calcoli e previsioni finì per perdere sempre e il cui unico, e nostro, vero colpo di fortuna, fu di lamentarsi dell’evidente predominanza dell’empirismo sulla matematica con l’amico Blaise Pascal, che ne scrisse a sua volta a Fermat dando vita ai primi ragionamenti sul calcolo delle probabilità nell’ambito della frequenza. Con quella stizza e quei calcoli erano state gettate le basi dei moderni studi di statistica, ma anche del favore che i giocatori riservano a calcoli sempre più complessi, sempre più impegnativi e dagli scopi che appaiono quasi taumaturgici. In Inghilterra, quasi il trenta per cento delle entrate derivanti dalle varie lotterie viene destinato a opere di pubblica utilità, le cosiddette good causes che comprendono scuola, arte, patrimonio nazionale, solidarietà (in Italia il fisco ha ben altre priorità, purtroppo, e lo dimostra la sollecitudine di Fanelli nel calmare Ginestra e soci): ma anche se la percentuale di incassi da gioco che in un futuro migliore l’Italia dovesse destinare per esempio alla salvaguardia dei suoi siti archeologici fosse maggiore, la spinta verso il gioco non ne terrebbe mai conto. E’ una bella cosa, ma totalmente ininfluente nelle motivazioni che spingono a giocare, forse neanche utile per tacitarne coscienza o eventuali sensi di colpa. La spinta è altra, copre tutta la gamma di sensazioni e sentimenti che vanno dalla speranza del riscatto all’abiezione, e tutte convergono nella sfida all’ignoto. Il guanto di sfida schiaffeggiato sul volto del caso. La totale, perfetta fiducia che lo scommettitore ripone negli eventi incontrollabili ha in sé del miracoloso.

    “Il tessuto del mondo è un intreccio di casualità e necessità. Tra questi due estremi sta la ragione dell’uomo”, scrive Goethe in “Wilhelm Meister”. E d’altronde non è un caso che il gioco assuma le caratteristiche che presenta ancora oggi nel Diciannovesimo secolo e nel primo trentennio del Novecento, epoche di grandi incertezze spirituali, filosofiche e sociali, in cui sono molti a interrogarsi sulle tante incognite dell’esistenza senza cercare di spiegarle con la “ragione”, come era accaduto nel Settecento. Il caso, e il caos, tenuti a bada per quasi due millenni dal potere religioso e dalla coesione sociale dei piccoli centri urbani tornano infatti a galla con l’inurbamento ottocentesco, con il timore per la propria incolumità e con la spinta opposta e inevitabile verso il dominio assoluto e totale della propria esistenza. Si vuole padroneggiare il caso. E la scommessa contro il fato, contro il fluire apparentemente incontrollabile degli eventi, diventa un grido di ribellione, di affermazione di sé in ogni espressione della vita.

    Pensateci un attimo: nella letteratura e nel teatro non si trova una figura di giocatore tragico, grandioso o commovente fino a metà dell’Ottocento, e non mi pare che non ci si rovinasse con il gioco anche prima. Anzi. Non solo ci si rovinava, ma sembra che ci si divertisse anche di più, a giocare e pure a perdere, e i nobili soprattutto, che erano quelli che giocavano più forte, che scommettevano su tutto e su tutti, fosse pure sul sesso di nascita di un loro pari come il chevalier d’Eon. I titolati o i plebei che avevano la faccia tosta per farlo come Gian Giacomo Casanova tenevano banco (in senso proprio, ora tutti solo in senso figurato), mentre la chiesa e lo stato avevano il loro bel daffare con bari, biscazzieri, debitori e, naturalmente, con il tentativo di regolamentare in qualche modo quel ricco flusso di denaro. Il caso faceva parte della vita, e Casanova, occultista alla bisogna, faceva mostra di occuparsene solo per meglio trarne vantaggio, cioè senza mai pensare di immolarsi nel tentativo di sconfiggerlo o di crogiolarsi nel vizio per aspirare voluttuosamente alla redenzione. Questo accade con il Romanticismo, e quando arriva Mallarmé si è finalmente pronti per la fase successiva. Il caso diventa un soggetto sofisticato, adatto a menti sensibili, e prende a dominare tanto la poesia (chiunque di noi ha pensato di poter infilare le parole in un sacchettino e di tirarne fuori un componimento “infinitamente originale e di una sensibilità affascinante” solo accostando i vocaboli pescati di volta in volta, come suggeriva Tristan Tsara), quanto la pittura, vedi Jean Arp.

    E’ il caso, e un bello sberleffo alla morale dominante, a far scegliere a Duchamp una latrina al posto, chessò, di un lavandino, per il suo primo ready made, è il caso a regolare in buona parte l’effetto del dripping di Jackson Pollock. Per certi versi il caso dovrebbe essere diventato un tema da salotto, addomesticato, o forse bisognerebbe imparare a raccontarlo come tale, per far sì che questa diatriba recentissima fra stato e punti scommesse non prenda un’aria inquietante. Ci vorrebbe un altro Casanova a scriverne.