Natale in casa Guareschi

Redazione

Stimatissimo signor Giuseppe Bottazzi detto Peppone, dove è finito adesso che avremmo così bisogno di lei? Ci manca quel suo respiro antico, ci manca quel suo camminare d’altri tempi, ci manca quel suo chiaro e onesto sguardo. Sappiamo bene che il Mondo piccolo dal quale la trasse Giovannino Guareschi si va facendo piccolissimo, quasi introvabile. Persino la notte padana non è più quell’involucro cupo e freddo eppure così desideroso di riscaldarsi al tepore del Bambinello che lei aveva pitturato in casa di don Camillo.

di Alessandro Gnocchi e Mario Palmaro

    Stimatissimo signor Giuseppe Bottazzi detto Peppone, dove è finito adesso che avremmo così bisogno di lei? Ci manca quel suo respiro antico, ci manca quel suo camminare d’altri tempi, ci manca quel suo chiaro e onesto sguardo. Sappiamo bene che il Mondo piccolo dal quale la trasse Giovannino Guareschi si va facendo piccolissimo, quasi introvabile. Persino la notte padana non è più quell’involucro cupo e freddo eppure così desideroso di riscaldarsi al tepore del Bambinello che lei aveva pitturato in casa di don Camillo. Si era sotto il Natale del 1947 e noi ricordiamo bene che cosa pensò quando, tornando a casa, sentì risuonare all’orecchio la poesia che suo figlio le avrebbe recitato: “Quando, la sera della Vigilia, me la dirà, sarà una cosa magnifica! Anche quando comanderà la democrazia proletaria, le poesie bisognerà lasciarle. Anzi, renderle obbligatorie!”.

    Come detto, anche la notte padana non è più buia e intirizzita al punto di sentire il bisogno che Qualcuno la riscaldi. Piena di luci, di suoni e di calore mondani illude chiunque vi si avventuri di essere sufficiente a se stesso. Non è più cupa e fredda abbastanza da suscitare l’esigenza di quella poesia che il cardinale Newman vedeva nella preghiera liturgica di san Benedetto: le basta l’alito laico del mondo. La poesia, quella che faceva vibrare l’anima, il cervello e il cuore di gente malgarbata come lei richiede la costante presenza a se stessi e a un altro mondo, impone lo sforzo di dare la medesima quantità di attenzione alle cose del visibile e a quelle dell’invisibile: è divenuta un esercizio aristocratico troppo faticoso per gente moderna con uso di mondo.

    Caro signor Bottazzi, lei ha l’aristocrazia del poeta perché possiede l’umiltà dell’uomo che prega. Guareschi non sarebbe stato in grado di raccontare qualche cosa di così bello se, nel suo gesto di pitturare il Bambino del presepe e nel suo consolarsi al risuonare della poesia di Natale, non avesse colto un atto di adorazione. Per questo, ci piacerebbe stringere la mano che ha tenuto la statuina in gesso di Nostro Signore usando la stessa amorevole delicatezza di cui fu capace il Vecchio Simeone quando tenne in braccio Gesù Bambino all’ingresso del Tempio. Vorremmo che con quella sua mano benedetta carezzasse uno a uno i nostri figli. E che fosse lei a spiegare ai ragazzi perché tutte le statuine del presepe guardano verso la luce sprigionata dalla grotta santa.

    Ricorda, signor Bottazzi, i racconti in cui Guareschi costringe lei e la sua ciurma comunista a inciampare nel Bambino che torna a nascere ogni anno? Ricorda che il figlio del Lungo, il duro della banda, si rifugiò nel solaio della Casa del Popolo per costruirsi un presepe fatto di povere statuine di terra cruda? Anche quella volta, dopo aver tentato invano di democratizzare la discesa del Figlio di Dio sulla terra, lei e i suoi compagni siete rimasti, col naso all’insù: in contemplazione della luce accesa da un bambino, povero barbaglio paesano della Luce che non si spegne.

    Ma lei è un uomo di solido catechismo e di fine religiosità. Sua mamma e il suo parroco hanno lavorato bene e quindi sa che quella luce è alimentata dal Crocifisso: presepe e Croce, Natale e Passione, stanno insieme o non hanno nessun senso. Solo la creatura che riesce a contemplarle nel medesimo istante, come ha fatto lei tante volte, ne è pacificato. La poesia di Natale di suo figlio le tocca il cuore perché lei è capace di inginocchiarsi davanti all’Uomo sulla croce a chiedere la guarigione del bambino malato. Se lei percepisce le meccaniche celesti che presiedono alla Natività, lo deve alla contemplazione della lacrima di Gesù che riga d’argento il legno nero della croce per dire che il suo bambino è salvo. Lei è passato per la porta stretta da cui si scorgono nuovi Cieli e nuove Terre e in cambio, per qualche istante soprannaturale, ha avuto la grazia di essere sottratto al potere del mondo: reliquia vivente dell’alterità e dell’amore di Dio, lacrima destinata a cadere verso il Cielo.

    Nel suo paese, non ci sono pertugi invitanti per il soffio mondano. Non si guarda in faccia il mondo se non per fargli guerra e convertirlo: per salvarlo. Dalle sue parti, tutti sanno che ogni luogo e ogni tempo chiedono gesti appropriati: non solo in chiesa, ma anche in casa, nei campi, in officina o alla Casa del popolo. Non vi è atto umano che non sia liturgico.

    Talvolta, anche a lei, signor Bottazzi, è capitato di dimenticarlo, ma ha sempre incontrato qualcuno capace di rimetterla sulla strada giusta. Noi ricordiamo quando, nel 1953, in un momentaneo eccesso di mondanizzazione, impedì a suo figlio di recitare la regolamentare poesia nella notte di Natale. E ricordiamo pure che, rientrato nella grazia di Dio, il giorno dopo avrebbe voluto che il bambino gliela dicesse come se non fosse accaduto nulla: non ci fu verso di smuoverlo, il piccolo Bottazzi. “Perché?” chiese lei. “Perché adesso non conta più. Adesso il Bambino è già nato e la poesia parla del Bambino che doveva nascere questa notte”. Lei si fece portare il quadernetto per controllare se fosse vero e, in effetti, era proprio così. Nel pomeriggio, portò il piccolino a spasso per il paese e, a un certo punto chiese: “Adesso siamo soli, me la dici la poesia?”. “No” rispose lui. “Qui nessuno ti sente!”. “Ma il Bambino Gesù lo sa”. Anche questa era poesia e allora lei capì.

    Quanto sacra è la nostalgia che la beata testardaggine di quel bambino risvegliò nel suo cuore con quell’ostinazione liturgica. E pensi che oggi si cerca di proteggere i fanciulli dal manifestarsi del divino perché non sarebbe adatto alle loro emozioni. Come se i bambini non avessero un cervello, un cuore e un’anima. E come se quel cervello, quel cuore e quell’anima non trovassero alimento in gesti, segni e tempi che si devono ripetere sempre uguali a se stessi.

    Uno scrittore inglese di nome Gilbert K. Chesterton, che amava sentirsi bambino nonostante la sua mole e la sua età, insegnava che tutte le visioni materialistiche del mondo si fondano sul falso presupposto che le cose ripetute siano morte come l’ingranaggio di un orologio. I materialisti mondani teorizzano che se l’universo fosse veramente vivo, sarebbe vario. Ma i loro pensieri sono frutto di uno sguardo che non vede. Basterebbe poco per comprendere che la varietà nelle cose umane è portata generalmente dalla morte o dall’esaurirsi di una forza o di un desiderio. E’ tanto assurda l’idea della varietà legata alla vita, che a garanzia ultima della ripetizione delle cose c’è la comica, assoluta, immortale libertà divina. Solo un Dio imprevedibile e burlone può dire ogni mattina al sole di alzarsi ancora. “Può non essere una necessità automatica quella che fa le roselline tutte eguali”, dice quell’immenso bambinone di Chesterton. “Può darsi che Dio le faccia separatamente, una ad una, e non gli sia mai venuto a noia farle. Può darsi che egli abbia l’eterno appetito dell’infanzia, perché noi abbiamo peccato e ci siamo fatti vecchi, ma il Padre nostro è più giovane di noi. Le ripetizioni, in natura, possono non essere semplici corsi e ricorsi, possono essere dei bis, come a teatro”. Questo ragionamento suggerisce al nostro amico una conclusione davvero poco mondana: “Io avevo sempre vagamente sentito i fatti come miracoli nel senso che erano meravigliosi; ora pensavo che erano miracoli nel senso più ristretto di atti volontari. (…) Io avevo sempre creduto che nel mondo ci fosse della magia. Ora credevo che ci fosse un mago”.

    Il suo mondo, signor Bottazzi, ci piace perché è un territorio incantato fatto così. Presepe consacrato dalla pazienza liturgica dei suoi abitanti. Offerta a Dio, che possa gradirne la vista dall’alto. Disegno misterioso simile a quei gomitoli di simboli meravigliosamente complicati che sono i tappeti d’oriente. E come quelle tessiture, quando se ne mostri solo il rovescio nodoso, evocano le trame incomprensibili del destino, così fanno i campi di questa fettaccia di Bassa quando li si osservi soltanto da terra. Solo in un momento sacro è dato agli uomini intuire l’altro lato della vita, l’inconcepibile disegno del quale si è filo o nodo, solco o fosso: in ogni caso, frammento di figura, parte del tutto, statuina di presepe.
    Marchingegno da bambini per i quali, ogni giorno, ricomincia tutto da principio, come se fosse appena stato creato. Luogo dove, ogni mattina, l’universo è costretto a produrre la sorpresa magnificente dell’attimo in cui il Creatore pronunciò il suo “fiat”. “Quando camminiamo per la strada e vediamo sotto di noi le deliziose teste a forma di bulbo, tre volte più grandi del corpo, che caratterizzano questi funghi umani” dice sempre il grosso Gilbert “dovremmo sempre rammentare per prima cosa che in ciascuna di quelle chiorbe c’è un universo nuovo, com’era nel settimo giorno della creazione. In ognuna di quelle sfere ci sono un nuovo sistema stellare, nuovi prati, nuove città, nuovi mari”.

    Quella sera in canonica, mentre pitturava il Bambinello, signor Bottazzi, lei comprese bene che questo soffio alita sul presepe e ne fa il luogo in cui tutto ciò che è umano, ingenuità e ingegno, teoria e pratica, materia e idea, si mette al servizio del sacro e, anche solo per un momento, rinuncia alla tentazione di servirsene. E’ questo il segreto più intimo di quel luogo che accoglie e compone figure di reciproca e bizzarra estraneità: pastori e re, ladri e soldati, vagabondi e magi, contemplatori dei cieli e uomini della terra, pii pellegrini e predoni. Quel luogo concreto e insieme metafisico in cui scienza e prospettiva si arrendono alla convivenza di pecore enormi come i cammelli dei Re Magi e casette con porticine dalle quali nessuna statuina potrebbe mai passare. Quel luogo dove le piante si affastellano con furore sacro e antiscientifico in filari di faggi, di palme, di abeti e di rovi, dove animali miti e ingenui si mescolano con solenne sospensione del tempo alle belve e ai predatori. Il segreto di questa gran macchina allegorica è il fascino poderoso e gentile dell’infanzia divina che si manifesta, tenera e indifesa, per chiedere adorazione.

    Ma per goderne davvero, signor Bottazzi, bisogna essere liberi da ogni spirito mondano, proprio come spiegava Guareschi: “Nelle grandi città la gente si preoccupa soprattutto di vivere in modo originale e così saltano poi fuori cose sul genere dell’esistenzialismo, che non significano un accidente, ma danno l’illusione di vivere in modo diverso dai vecchi sistemi. Invece nei paesi della Bassa si nasce, si vive, si ama, si odia, e si muore secondo i soliti schemi convenzionali. E la gente se ne infischia se si trova immischiata in una vicenda che è una scopiazzatura del ‘Sangue romagnolo’ o di ‘Giulietta e Romeo’ o dei ‘Promessi sposi’ o della ‘Cavalleria rusticana’ e altre balle di letteratura. Quindi è un eterno ripetersi di vicende banali, vecchie come il cucco, ma alla fine, tirate le somme, quelli della Bassa finiscono sottoterra preciso come i letterati di città, con la differenza che i letterati di città muoiono più arrabbiati di quelli di campagna perché a quelli di città dispiace non solo di morire, ma di morire in modo banale, mentre a quelli di campagna dispiace semplicemente di non poter più tirare il fiato. La cultura è la più grande porcheria dell’universo perché ti amareggia, oltre la vita, anche la morte”.

    Questo sentire, così consapevole della miseria del mondo, è il regalo più grande che il suo creatore letterario potesse farle, signor Bottazzi. Un salvacondotto per il Cielo, ma non per questo garanzia di una vita facile. Guareschi ha sempre fatto in modo da rendere appena meno visibile la presenza della Grazia per chiedere più forza al suo dire e al suo fare. L’ha fatta inginocchiare davanti alla croce, ma le ha dato un destino.

    Come suo padre, questo scrittore amava i “Promessi sposi”, gran repertorio di destini come pochi altri nella letteratura. E deve aver meditato la pagina in cui il cardinale Borromeo ammonisce don Abbondio ed espone una regola di matematica spirituale grande più di tante altre. Lì si dice con rara chiarezza come il sottrarsi alla propria vocazione conduca, quasi per necessità meccanica, dove infuria il pericolo per l’anima e per il corpo. L’unico azzardo sicuro, spiega il cardinale, è la fedeltà a un ruolo che il Creatore ha stabilito una volta per sempre su ciascuna delle sue creature. Assumendolo, don Abbondio avrebbe avuto fortuna, ricusandolo è stato ghermito dai rigori del mondo. Di rimando, il povero curato, nella sua tiepidezza, riesce solo a partorire quel piccolo piccolo: “E’ un gran dire che i santi come i birboni gli abbiano ad aver l’argento vivo addosso, e non si contentino di essere sempre in moto loro, ma voglian tirare in ballo, se potessero, tutto il genere umano”.

    Come Don Rodrigo, il curato è dominato dalla passione: paura in lui, e lussuria nell’altro, decidono per loro conto e oscurano il loro destino. Non così per il cardinale Borromeo, l’Innominato, fra Cristoforo. Soprattutto, per la vereconda Lucia, che parla e si muove su registri nutriti di meditazioni sulle vie storte e le vie dritte, su ciò che conviene e non conviene a uno stato, come dire sul destino. Il pudore fremente di questa donna è il ponte fra la percezione del santo e l’istinto fine del popolo: questo coro che nei “Promessi sposi” dichiara a ogni passo la reverenza aristocratica per coloro che hanno un destino.

    Signor Bottazzi, non pensiamo che sia troppo scorgere in lei quest’anima manzoniana che si muove tra la capacità di consacrare ogni fibra del proprio essere alla conquista del cielo e la necessità di attingere al manifestarsi della Grazia inchiodata sulla croce. Tempre come la sua chiedono di muoversi su scenari adeguati, non necessariamente grandiosi, ma capaci di evocare e replicare momenti perfetti, fondali dove la forma preesiste all’idea, al destino che la colmerà: “Il fiume scorreva placido e lento, lì a due passi, sotto l’argine, ed era anch’esso una poesia: una poesia cominciata quando era cominciato il mondo e che ancora continuava. E per arrotondare e levigare il più piccolo dei miliardi di sassi in fondo c’eran voluti mille anni. E soltanto fra venti generazioni l’acqua avrà levigato un nuovo sassetto. E fra mille anni la gente correrà a seimila chilometri l’ora su macchine a razzo superatomico e per far cosa? Per arrivare in fondo all’anno e rimanere a bocca aperta davanti allo stesso Bambinello di gesso che, una di queste sere, il compagno Peppone ha ripitturato col pennellino”.
    Compagno Peppone, dove sei finito ora che avremmo così bisogno di te?

    di Alessandro Gnocchi e Mario Palmaro