Accerchiamento bancario

Marco Valerio Lo Prete

La trattativa sull'Unione bancaria, la riforma più importante dell'Eurozona dopo l'introduzione dell'euro (copyright: Mario Draghi), non è finita. Piano dunque con il trionfalismo sui vertici brussellesi di questi giorni. Ieri, sulla stampa internazionale, non c'era traccia di formule come “accordo storico”, “vittoria italiana” o “passi indietro dei tedeschi”. All'opposto. Provando a scansare le veline contraddittorie dei negoziatori, una cosa è certa: il premier Enrico Letta – ieri e oggi a Bruxelles per il Consiglio Ue, dove hanno cominciato anche a prendere forma i contratti bilaterali per le riforme voluti da Angela Merkel, i “Partenariati per la crescita, l'occupazione e la competitività” da definire meglio dopo le elezioni europee – si trova davanti a un'intesa ancora in fieri.

    La trattativa sull’Unione bancaria, la riforma più importante dell’Eurozona dopo l’introduzione dell’euro (copyright: Mario Draghi), non è finita. Piano dunque con il trionfalismo sui vertici brussellesi di questi giorni. Ieri, sulla stampa internazionale, non c’era traccia di formule come “accordo storico”, “vittoria italiana” o “passi indietro dei tedeschi”. All’opposto. Provando a scansare le veline contraddittorie dei negoziatori, una cosa è certa: il premier Enrico Letta – ieri e oggi a Bruxelles per il Consiglio Ue, dove hanno cominciato anche a prendere forma i contratti bilaterali per le riforme voluti da Angela Merkel, i “Partenariati per la crescita, l’occupazione e la competitività” da definire meglio dopo le elezioni europee – si trova davanti a un’intesa ancora in fieri.

    La supervisione sugli istituti di credito è accentrata in capo alla Banca centrale europea, non c’è più dubbio. Maggiore incertezza, al momento, c’è invece sul Meccanismo unico di risoluzione degli istituti di credito che dovrebbe sovrintendere a ristrutturazioni e fallimenti bancari: secondo la Bce, il processo decisionale è lento e concede troppo ai veti nazionali. Inoltre, è vero che dal 2025 avremo un paracadute finanziario comune di 60 miliardi di euro alimentato dalle banche europee per intervenire a sostegno degli istituti in difficoltà, ma fino ad allora il terreno rimarrà accidentato: ci saranno obbligazionisti, azionisti e depositi bancari oltre i 100 mila euro da tosare (il cosiddetto “bail-in”), poi i fondi nazionali da costituire, e solo in ultima istanza il Meccanismo europeo di stabilità (Esm) cui attingere per dei prestiti, peraltro non in maniera diretta ma a certe condizioni.

    Senza contare che, come annunciato dal ministro dell’Economia Saccomanni, tutto questo si baserà su un regolamento comunitario e su un nuovo Trattato internazionale voluto da Berlino, con annessi passaggi parlamentari, lungaggini e incertezze. Intesa in fieri, dunque, e giudizi cangianti anche sulla stampa. Così mentre ieri il Corriere della Sera preferiva vedere il bicchiere mezzo pieno e spiegare per esteso cosa intendesse Saccomanni con la formula “accordo storico”, altri erano più scettici. Il francese Echos parlava di “un accordo molto vicino a quello che ha fatto digrignare i denti a qualche paese la scorsa settimana, in particolare l’Italia”. Il Financial Times di un “progetto pesantemente influenzato dagli sforzi della Germania di tenere i suoi contribuenti liberi da qualsiasi impegno”.

    Per valutazioni più ponderate, dunque, meglio attendere. Quel che però il Foglio ha già registrato, soprattutto tra i tecnici comunitari, è che il 2014 rischia comunque di essere l’anno dell’accerchiamento alle banche italiane. Da gennaio infatti assisteremo, con l’Asset quality review e gli stress test sui bilanci bancari coordinati dalla Bce, ad approfonditi esami del sangue dei nostri istituti. Non toccherà solo a noi, né le nostre banche risultano complessivamente più zoppicanti di tutte le altre, tuttavia – si osserva a Francoforte – i paesi più deboli del nostro (Cipro, Grecia, Portogallo, Spagna e Irlanda) sono già destinatari di un programma di aiuti internazionali. Non è un dettaglio da poco: questi paesi, in cambio degli aiuti ricevuti, hanno già dovuto aprire da tempo le porte dei loro istituti di credito ad approfonditi controlli esterni da parte di Ue, Bce e Fondo monetario internazionale. E’ più difficile dunque che nel novembre 2014, quando i risultati degli esami della Bce verranno resi noti, arrivino sorprese epocali dai paesi sotto programma: alcune banche sono in via di ristrutturazione (come in Spagna, dove la “bad bank” per ripulire i bilanci è operativa), altre in corso di ricapitalizzazione (28 miliardi sono stati iniettati in quelle greche), altre sono state nazionalizzate e in alcuni casi chiuse (come Anglo Irish Bank, terza banca irlandese). A meno che i revisori della Bce non decidano di smentire quanto fatto finora dai loro stessi colleghi, insomma, non si attendono novità fortemente negative da questi paesi.

    Tra i presunti “virtuosi”, invece, la Germania finora ha speso già 60 miliardi dei contribuenti per puntellare le sue banche; e si è battuta affinché centinaia delle sue potenti banche locali, spesso malconce, siano esentate dai controlli della Bce. Insomma, la Vigilanza europea da gennaio sarà unica, ma le condizioni di partenza degli stati no. Se la revisione degli attivi e gli stress test dovranno essere “rigorosi” per essere “credibili”, come si ripete a Francoforte, non si rischia allora l’accerchiamento degli istituti italiani? L’allarme lanciato due giorni fa sul Corriere della Sera da Francesco Giavazzi, cioè la richiesta a Letta di respingere qualsiasi progetto europeo che contempli la penalizzazione dei titoli di stato nei bilanci delle banche e che danneggerebbe oltremodo i nostri istituti, fa temere di sì. Ipotizzare un default dell’Italia pur all’interno di un esercizio teorico come lo stress test – lascia intendere Giavazzi che Draghi lo conosce bene – scalfirebbe la credibilità del presidente della Bce che nel 2012 si è detto pronto a fare “tutto il necessario” per salvare l’euro, quindi anche a evitare il default di un paese sistemico come il nostro. E di certo sarebbe un duro colpo per la fiducia nelle nostre banche. I brindisi possono attendere.