Angelo Rizzoli

Sandro Fusina

Dai ricordi di un coetaneo che ama parlare di sé in terza persona. La prima volta che incontrò Angelo Rizzoli fu in cantina. Era, a Milano, la cantina spaziosa e ben areata del padre collezionista di vini di una compagna di università che aveva il permesso di invitarvi chi voleva e di stappare qualsiasi bottiglia. Circolava una favola, messa in giro dalla stessa ragazza. Angelo Rizzoli la corteggiava e l’aveva invitata per una vacanza in Brasile. Sarà stato il 1964. Rizzoli arrivò un po’ tardi, non bevve, parlò poco.

    Dai ricordi di un coetaneo che ama parlare di sé in terza persona. La prima volta che incontrò Angelo Rizzoli fu in cantina. Era, a Milano, la cantina spaziosa e ben areata del padre collezionista di vini di una compagna di università che aveva il permesso di invitarvi chi voleva e di stappare qualsiasi bottiglia. Circolava una favola, messa in giro dalla stessa ragazza. Angelo Rizzoli la corteggiava e l’aveva invitata per una vacanza in Brasile. Sarà stato il 1964. Rizzoli arrivò un po’ tardi, non bevve, parlò poco. Nessuno fu davvero sgarbato con lui, nessuno fu davvero gentile. Soprattutto le ragazze ostentavano di non volergli dare confidenza. Il viaggio in Brasile non ci fu. Passò forse qualche mese, forse un paio d’anni. Funzionava a Milano una sezione del Frente Español de Liberación Nacional che stampava per conto del suo presidente, il vecchio ministro degli Esteri della Repubblica spagnola Alvarez del Vayo, un giornale di poche pagine da spedire clandestinamente in Spagna. Il giornale viveva di aiuti degli amici. Chissà perché, un suo vecchio compagno di scuola pensò ad Angelo Rizzoli.

    Forse per allettarlo organizzò un incontro con Alvarez del Vayo, che conosceva i grandi della terra ed era amico fraterno di Rafael Alberti. Alvarez del Vayo non si presentò, Angelo Rizzoli sì. Nessuno fu troppo caloroso con lui, nessuno fu troppo ostile. Non disse ne sì né no. Ma si capì che era a disagio in quella piccola tipografia in fondo a San Marco, che nelle intenzioni dell’organizzatore avrebbe dovuto ricordargli gli inizi del nonno Angelo, piccolo martinitt industrioso. Si capì che non avrebbe dato una lira, che era timido e riservato, ma non sciocco. Fu quel pomeriggio, scendendo per via Solferino verso il Giamaica, lungo l’interminabile isolato del Corriere della Sera, che difendendolo più per partito preso che per convinzione dalle ingiuste accuse dei suoi amici, il coetaneo che l’aveva incontrato solo due volte nella vita si affezionò a quel tipo un po’ goffo, inelegante, probabilmente timido, incapace di dire di sì come di no. Era un sentimento che tenne per sé, che non poteva condividere con nessuno per paura di essere preso in giro. Ma nell’intimo continuò a difenderlo, a prendere le sue parti. Quando l’amica delle feste a base di Saint-Emilion paterno riparò all’estero per seguire il compagno coinvolto con una qualche sigla armata, fu della delusione di Angelo Rizzoli che si preoccupò. Quando morì il primo Angelo e si lesse che il nipote entrava nel consiglio di amministrazione dell’azienda, se sentiva qualcuno dire “povera Rizzoli” ribatteva muto “povero Rizzoli”.

    Quando lesse che il padre Andrea, così diverso da lui, così portato alla bella vita, si era accollato, non si sapeva se per boria o per qualche oscura necessità, il Corriere della Sera, così indebitato, così difficile da governare, aveva sperato che Rizzoli (neanche tra sé e sé lo chiamava per nome, perché con lui non c’era confidenza) trovasse il coraggio finalmente di partire, di fare quel viaggio in Brasile per restarci, a gestire una piantagione di caucciù. Quando qualcuno ben informato voleva raccontare che inferno fosse il matrimonio del Rizzoli con una certa attrice di cui non voleva ricordare neppure il nome, cambiava discorso. Se incontrava una certa signora rossa di capelli che si vantava di dirigere un paio di settimanali alla Rizzoli solo perché molto amica di un certo Tassan-Din di cui aveva sentito parlare molto male, non poteva fare a meno di pensare in quali brutte mani era caduto il Rizzoli. Della grave malattia che lo minacciava dalla prima gioventù neppure sospettava. Il suo era un affetto cieco, sordo, muto, l’affetto di chi non vuole sapere. Purtroppo il nome del Rizzoli appariva spesso sui giornali, accanto a quello di tetri figuri, accanto a sigle preoccupanti. Ritornava in processi civili e penali, in sentenze di bancarotta, perfino in ordini di cattura, in detenzione. Sicuro della intima innocenza del suo Rizzoli, gioì di ogni buona notizia, soffrì di ogni nuova sventura. E ora che è morto invoca per lui il silenzio.