Vacuum lettiano

Letta vagheggia riforme elettorali ed economiche

Francesco Forte

Nel passaggio dalle larghe intese alle piccole intese, il programma del governo Letta si è ulteriormente raggrinzito e ciò che rimane è pieno di vuoto, con la parola “stabilità” come salvagente. Per le riforme istituzionali e del sistema elettorale, Letta nel suo discorso alla Camera ha espresso un disegno ambiguo. L'indicazione “dobbiamo orientarci verso meccanismi maggioritari” non indica necessariamente il “sistema” maggioritario.

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    Nel passaggio dalle larghe intese alle piccole intese, il programma del governo Letta si è ulteriormente raggrinzito e ciò che rimane è pieno di vuoto, con la parola “stabilità” come salvagente. Per le riforme istituzionali e del sistema elettorale, Letta nel suo discorso alla Camera ha espresso un disegno ambiguo. L’indicazione “dobbiamo orientarci verso meccanismi maggioritari” non indica necessariamente il “sistema” maggioritario. Anche quello proporzionale con premio di maggioranza o con soglie di esclusione per partiti con pochi voti ha “meccanismi” maggioritari. La vaghezza di questa impostazione ha una sua logica: il governo delle piccole intese ha bisogno dei partiti di centro, per la propria maggioranza. Quanto alla riforma dell’architettura costituzionale le proposte di Letta vanno in direzione opposta a ciò che occorrerebbe per consentire una politica fiscale nazionale unitaria dotata di adeguato potere decisionale: ossia il modello della repubblica presidenziale e quello (alla tedesca) del premierato. Ciò necessita anche per potersi confrontare con gli altri governi dell’Eurozona e con le istituzioni europee. L’abolizione delle province non serve a ciò: serve (e non basta) per semplificare la burocrazia. Trasformare il Senato in Camera delle regioni, senza presidenzialismo o premierato, implica una nuova frammentazione di poteri.

    E ciò tanto più che Letta non ritiene necessario stabilire poteri nazionali che superino quelli regionali in materie in cui l’unità nazionale è essenziale ma afferma che occorre togliere i “poteri concorrenti di stato e regioni”. Ciò può voler dire che le regioni potrebbero avere, in ambiti in cui è essenziale l’unità nazionale, più poteri di quelli attuali!
    A livello europeo il programma di Letta è generico e timido. Il solo impegno specifico è quello per l’Unione bancaria. Manca del tutto il punto fondamentale: la difesa dell’autonomia decisionale della Banca centrale europea per la politica del credito e la difesa dell’euro. E per la finanza dell’Unione europea, manca un qualsiasi cenno al fatto che la Commissione dovrebbe svolgere una politica fiscale utilizzando gli strumenti di spesa di investimento con formule miste di finanza pubblico-privata anche avvalendosi delle istituzioni finanziarie di cui dispone.

    La mancanza di concretezza si presenta, elevata al cubo, per i cinque obiettivi di politica economica nazionale. Nel numero 5, in luogo della riforma del mercato del lavoro e del salario di produttività, troviamo la semplificazione dei “codici del lavoro” (sic!). La richiesta del Nuovo centrodestra, è bellamente ignorata. Al numero 1, non si fa riferimento alla spending review ma ci si limita a sostenere che bisogna far scendere debito, spese correnti e imposte. Come? Il punto 2 dice che bisogna avere la crescita del pil dell’1 per cento nel 2014 e del 2 nel 2015. Ma come? Al numero 3 si dice che vanno rilanciati gli investimenti, ma non c’è nessuna indicazione operativa. Al n. 4 si afferma che bisogna accrescere la competitività, ma non si dice con quali strumenti. E, ciliegia sulla torta, per il secondo tempo delle privatizzazioni si “studierà” quella delle Poste con l’azienda e i sindacati, con apertura all’azionariato operaio tramite gli organismi sindacali di categoria (un modello da mettere nel museo del corporativismo con o senza il prefisso “neo”). E il fatto che il credito all’economia stia diminuendo? Il programma di Letta su ciò tace.

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