Il piano australiano per agganciare la ripresa asiatica col G20

Domenico Lombardi

Dall’altroieri, il testimone del G20 è passato all’Australia che lo terrà per i prossimi 12 mesi, sino al summit di Brisbane previsto per la metà del prossimo novembre. Dopo la scialba presidenza russa, sono considerevoli le attese su un paese che, in passato, ha fatto della partecipazione a questo nuovo foro mondiale una delle ancore della propria politica estera. Tali attese, tuttavia, rischiano di infrangersi per le molteplici difficoltà che la neo presidenza australiana dovrà fronteggiare a livello nazionale, regionale e mondiale.

    Dall’altroieri, il testimone del G20 è passato all’Australia che lo terrà per i prossimi 12 mesi, sino al summit di Brisbane previsto per la metà del prossimo novembre. Dopo la scialba presidenza russa, sono considerevoli le attese su un paese che, in passato, ha fatto della partecipazione a questo nuovo foro mondiale una delle ancore della propria politica estera. Tali attese, tuttavia, rischiano di infrangersi per le molteplici difficoltà che la neo presidenza australiana dovrà fronteggiare a livello nazionale, regionale e mondiale. Procediamo con ordine. Il nuovo governo guidato dal conservatore Tony Abbott, insediatosi lo scorso settembre, si è concentrato, nella fase iniziale del suo mandato, esclusivamente su priorità di ordine domestico. Rispetto ai contenuti dell’imminente presidenza australiana, l’amministrazione ha assunto inizialmente una posizione attendista e ambivalente per marcare la discontinuità con il governo laburista che lo ha preceduto e a cui, nell’opinione pubblica del paese, è strettamente associato il foro intergovernativo. Né aiuta il fatto che il neo primo ministro non vanti una significativa proiezione internazionale, come pure non benefici di alcuna relazione personale con gli altri leader del G20.

    Fine tattico, efficace comunicatore, ma privo di grandi afflati ideali, Abbott tenderà a traslare sul piano internazionale la propria visione politica e l’agenda (domestica) del suo governo. L’agenda che il governo australiano proporrà al G20 sarà volta a dare esecuzione all’action plan siglato a San Pietroburgo lo scorso settembre sotto la presidenza russa. Più che verso nuovi, ambiziosi obiettivi, l’Australia sarà tesa a codificare traguardi intermedi rispetto alla strategia economica formulata nell’ultimo anno sotto la regia russa, incentrata su una narrativa meno sofisticata ma più malleabile per politici che navigano le acque della politica domestica. Rispetto alla tensione ideale dei primi summit, in cui gli Stati Uniti avevano proposto un quasi coordinamento delle politiche economiche tra i membri sotto la regia intellettuale ma discreta del Fondo monetario internazionale, la presidenza russa ha cercato di uscire dall’impasse in cui si era venuto a trovare il G20 in seguito a disaccordi interni, puntando a un’alternativa realista, meno ambiziosa, centrata sul perseguimento di comuni obiettivi già definiti nelle agende domestiche dei paesi membri. Temi come la crescita e l’occupazione, la lotta all’evasione fiscale, piuttosto che il finanziamento di opere infrastrutturali, diventeranno i capisaldi dell’agenda australiana per la loro capacità di proiettare a livello internazionale l’approvazione di ampi segmenti dell’opinione pubblica su priorità di natura domestica. Del resto lo stesso Tony Abbott ha più volte indicato di voler passare alla storia del proprio paese come il primo ministro delle grandi opere infrastrutturali.

    Lo scopo geografico della presidenza australiana risentirà della peculiare posizione geopolitica di questo paese. La sua economia è altamente integrata con i paesi dinamici dell’Asia, aspetto che il premier ha inteso sottolineare scegliendo l’Indonesia come primo paese da visitare all’insegna dello slogan “più Giacarta, meno Ginevra”. Eppure politicamente Canberra guarda all’occidente. Gli Stati Uniti stanno accelerando il trasferimento di marine nella parte settentrionale del paese, strategica secondo il Pentagono. Attualmente il 90 per cento delle basi americane nel Pacifico sono in un raggio di 1.100 miglia nautiche dalla Cina, esposte a potenziali attacchi dei suoi missili balistici. Pertanto l’Australia è in una posizione potenzialmente privilegiata per fare da cerniera rispetto ai due blocchi antagonisti nel G20, quello transatlantico e quello delle economie emergenti dell’Asia. La prima patata bollente nelle mani della presidenza australiana sarà l’accordo di libero scambio che la Casa Bianca intende finalizzare fra le economie del Pacifico, Cina esclusa, e che metterà alla prova le capacità diplomatiche di Canberra. Quest’ultima ha bisogno di essere riconosciuta come interlocutrice privilegiata da Pechino e da Washington per portare a casa qualche risultato al summit di Brisbane, ma sinora gli approcci tentati con il G20 sono stati assai timidi. Oltre alla difficoltà di incunearsi nell’agenda bilaterale sino-americana che da anni non compie progressi significativi e di smorzarne contemporaneamente l’incalzante antagonismo, la presidenza australiana dovrà vincere la crescente, personale disaffezione dell’inquilino di Pennsylvania Avenue nei confronti del foro intergovernativo.
    Rispetto all’iniziale entusiasmo che l’aveva portato a presiedere il summit di Pittsburgh nel 2009, Barack Obama si è infatti progressivamente distanziato dal foro lamentandone la crescente burocratizzazione segnata in misura crescente da incontri cerimoniali e formalistici che poco spazio lasciano a conversazioni politicamente significative fuori dal perimetro definito dal protocollo ufficiale. Tale sentimento di disaffezione ha toccato il culmine al summit di Cannes del 2011, dominato dalle consultazioni serrate fra i leader di Francia e Germania sulla crisi dell’Eurozona, rispetto a cui Obama si sentì impropriamente escluso. Il successivo summit di Los Cabos, in Messico, calmierò in parte il disappunto della Casa Bianca per l’iniziativa della presidenza messicana di riservare almeno una sessione a una conversazione limitata ai soli leader politici, escludendo i responsabili delle organizzazioni internazionali che tendono a monopolizzare buona parte dell’agenda e del prezioso tempo dei partecipanti. Una cosa appare certa: il prossimo autunno la regione ospiterà tre summit e la concorrenza sarà particolarmente intensa per attirare i più importanti leader del mondo, per i quali sarà difficile partecipare a tutti.