Cosa vuole davvero l'Iran

Carlo Panella

Quando Adolf Hitler si sedette nel 1938 alla Conferenza di Monaco con Neville  Chamberlain, Benito Mussolini ed Edouard Daladier aveva dalla sua un non piccolo vantaggio: per dirla sbrigativamente, sui  Sudeti aveva ragione lui. Da qui bisogna partire quando si maneggia – spesso incautamente – il parallelo tra il patto di Monaco e accordi come quello siglato a Ginevra tra i 5+1 e l’Iran sul programma nucleare di Teheran. Il parallelo è opportuno, a patto che non si ragioni in termini geopolitici, dentro le regole che valgono nella diplomazia occidentale da Vestfalia in poi.

Raineri Monaco non c’entra nulla e il pre-accordo conviene. Cinque buone ragioni - Meotti L’accordo nucleare di Ginevra? E’ peggio di Monaco ’38

    Quando Adolf Hitler si sedette nel 1938 alla Conferenza di Monaco con Neville  Chamberlain, Benito Mussolini ed Edouard Daladier aveva dalla sua un non piccolo vantaggio: per dirla sbrigativamente, sui  Sudeti aveva ragione lui. Da qui bisogna partire quando si maneggia – spesso incautamente – il parallelo tra il patto di Monaco e accordi come quello siglato a Ginevra tra i 5+1 e l’Iran sul programma nucleare di Teheran. Il parallelo è opportuno, a patto che non si ragioni in termini geopolitici, dentro le regole che valgono nella diplomazia occidentale da Vestfalia in poi. Dentro quello schema, invece, ragionò e agì Chamberlain, che non coglieva per nulla – non da solo – il punto focale di quella trattativa, che non era affatto la ragione o no che i tedeschi dei Sudeti avevano di voler essere distaccati dalla Cecoslovacchia e essere inglobati nel Reich tedesco. Su questo punto, come si è detto, i tedeschi dei Sudeti avevano ragione, perché i cechi e gli slovacchi li trattavano come cittadini di seconda categoria e il loro irredentismo pangermanico era giustificato. Anche l’Iran oggi ha tutte le ragioni di aspirare al nucleare civile e anche a pretendere di raffinare l’uranio da solo: l’errore  dei 5+1 a Ginevra è oggi, appunto, di ritenere che il punto focale della trattativa sia questo e che quindi l’ambito della discussione sia soltanto quello di imporre agli iraniani di aderire ai protocolli e alle ispezioni dell’Agenzia atomica dell’Onu (Aiea), come previsto dal Trattato di non proliferazione nucleare. Se così fosse, nulla quaestio, si tratta soltanto di discutere dei risultati – in questo ristretto ambito – che avrà la futura road map.

    Un passo indispensabile
    Così non è. La posta in gioco, la sfida che la Repubblica islamica d’Iran lancia al mondo non è soltanto il riconoscimento del suo ruolo geopolitico quale potenza regionale e del suo diritto al nucleare civile. Questo indubbio obiettivo è infatti per la leadership iraniana – pasdaran in primis – un passo indispensabile per perseguire la strategia che è propria di ogni verbo rivoluzionario: esportare la rivoluzione sciita in tutta la umma musulmana, eliminare l’entità sionista e porre fine all’usurpazione della custodia dei luoghi santi dell’islam da parte della dinastia saudita (da qui, l’inedito asse tra Gerusalemme e Riad contro gli Stati Uniti guidati da Barack Obama). Questo è l’immenso “non detto” che unisce a Teheran riformisti e oltranzisti che i 5+1 ignorano e che invece Israele coglie con disperata convinzione

    A Ginevra è in gioco molto altro rispetto al futuro del nucleare civile iraniano, così come a Monaco era in gioco il contrasto a una strategia hitleriana, che ben poco aveva a che fare con il destino dei Sudeti. Questo “altro” era – ed è – semplicemente la vocazione apocalittica e utopistica, militarmente aggressiva, allora di Hitler, oggi, in termini assolutamente differenti, ma non meno pericolosi, della leadership iraniana. L’uno e l’altro uniti peraltro – tra le immense diversità storiche e ideologiche – da un inquietante tratto comune: un feroce antisemitismo. Questo antisemitismo è premessa della “costruzione dell’uomo nuovo”, centro dell’aspirazione utopica e apocalittica del nazismo, così come lo è oggi – ripetiamo, con ben altre componenti, radici e caratteristiche – degli ayatollah e dei pasdaran khomeinisti.

    Il parallelo tra il 1938 e oggi è dunque legittimo, perché allora come oggi si cerca, e si trova, un accordo su un nodo geopolitico, senza rendersi conto che gli interlocutori lo collocano invece all’interno di una loro strategia che deborda, che va oltre, che è apocalittica, oltranzista, eversiva e aggressiva. Su questo terreno, sulla vocazione apocalittica, sull’utopia, ovviamente non si può trovare una mediazione. Si può però commettere un errore disastroso: avere gli occhi chiusi, non saper interpretare il progetto storico apocalittico ed eversivo dell’avversario (Shoah inclusa, i cui termini furono peraltro sempre incompresi e quindi ignorati dagli angloamericani sino al 1945) e pensare che esso si fermi, si arresti, nella cornice definita dall’accordo geopolitico.

    Questo fu l’errore di Chamberlain, condiviso da un’ampia e composita platea di leader e opinioni pubbliche mondiali di cui facevano parte Joseph Kennedy, padre di JFK, allora ambasciatore americano a Londra, e quell’establishment inglese ben incarnato da lord Darlington, nella perfetta ricostruzione storica del film “Quel che resta del giorno”. Quell’errore si proiettò ben oltre il 1938 e fu la causa della drôle de guerre 1939-’40, come del patto Molotov-Ribbentrop. Dopo il 3 giugno 1939, dichiarata guerra alla Germania dopo l’invasione nazista della Polonia, i governi e gli stati maggiori di Inghilterra e Francia si attestarono a inerme difesa della linea Maginot, senza combattere, senza attaccare le truppe naziste, lasciando che Hitler occupasse anche la Norvegia, perché ritenevano di dover permettere che il Führer aumentasse il ruolo di potenza regionale della Germania. Stalin stesso agiva in una logica “à la Monaco” e pensava infatti che la spartizione della Polonia avrebbe contribuito a definire un nuovo, complesso gioco di equilibri tra le potenze europee. Una nuova Vestfalia, appunto. Non fu così.

    Tra il disonore e la guerra
    Allora, nei giorni di Monaco, Winston Churchill – e lui soltanto – aveva compreso il progetto apocalittico di Hitler e lo aveva enucleato da par suo in poche parole: “Francia e Inghilterra potevano scegliere tra il disonore e la guerra. Hanno scelto il disonore. E avranno la guerra”. Così sarà con l’Iran nucleare, con solo il vantaggio – solo a favore dell’Iran, sollevato dalle sanzioni in una hudna, tregua temporanea, che persegue con intelligenza – dell’intervallo di qualche anno e non di qualche mese da qui alla bomba di cui potranno disporre i pasdaran nella loro nuova strategia che mira a utilizzare la deterrenza nucleare per esportare la rivoluzione sciita.
    Già in Siria, con Bashar el Assad alleato dell’Iran, il presidente americano Barack Obama, l’Europa e le Nazioni Unite hanno appena scelto il disonore. E hanno la guerra.

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