Anna e i suoi uomini

Stefano Di Michele

Lei, meravigliosa. Insopportabile. Grandissima. Soprattutto meravigliosa. Di fuoco e di voce. Lupa. Di scena e di vita. Di uomini. Di occhi e capelli. Può inseguirlo fin sopra il letto, l’uomo. E può inseguirlo fin sotto il letto, l’uomo. “Esci fuori, esci fuori da lì sotto che te devo menà!” – e tutti i camerieri dell’Hotel Excelsior a pensare che certo la signora Magnani, con quel carattere da non starle troppo a portata di mano, deve  avercela con i suoi cani. “Esci fuori da lì sotto che te devo menà!”. Ma non mena ai cani, Anna.

    “L’amore. Toglietemi tutto. La carriera, la politica, Mike Bongiorno, il festival di Sanremo. Ma l’amore no. L’amore è la pioggia, il vento, è il sole e la notte. L’amore è respiro e veleno. Certi giorni mi dico: Anna, stai attenta, questa è la cotta che ti ammazza. Perché, sì, di carattere sono eccessiva, smodata. Non mi so fermare, e ogni volta che amo mi impelago fino ai capelli. Che strazio, poi, uscirne vivi. Scappare. E’ una cosa tremenda, da urlare. Come rialzarsi dal letto e non avere più sangue. Ma poi si ricomincia ed è meraviglioso” (Anna Magnani)

    Lei, meravigliosa. Insopportabile. Grandissima. Soprattutto meravigliosa. Di fuoco e di voce. Lupa. Di scena e di vita. Di uomini. Di occhi e capelli. Può inseguirlo fin sopra il letto, l’uomo. E può inseguirlo fin sotto il letto, l’uomo. “Esci fuori, esci fuori da lì sotto che te devo menà!” – e tutti i camerieri dell’Hotel Excelsior a pensare che certo la signora Magnani, con quel carattere da non starle troppo a portata di mano, deve  avercela con i suoi cani. “Esci fuori da lì sotto che te devo menà!”. Ma non mena ai cani, Anna. Mica mena gli animali – neanche le galline che entrano in cucina, “morivano di vecchiaia”, neanche i gatti che devastano casa, neanche il gallo chiamato Pecos Bill che ti assale appena ti vede, o il merlo indiano o la tartaruga. Mena gli uomini, casomai, quando serve. E non che non serva. E non che non faccia benissimo. Così, sotto il talamo, lì all’Hotel Excelsior, non c’è la lupa Micia o la bassotta Lillina o il barboncino Pippo, ma Roberto Rossellini. L’uomo che l’ha consegnata all’immortalità cinematografica con “Roma città aperta” – lei che corre dietro al camion dei nazisti che porta via suo marito, “Francesco! Francesco!”, e la raffica del bandito tedesco l’abbatte, “ma non ci vede, il Signore? Non ha pietà di noi, il Signore?” –; e pure l’uomo di cui si è innamorata: il regista geniale e il compagno traditore, “te devo menà!”. Sta lì sotto per sfuggire alla sua furia. Si amano e litigano, si perdonano e si accusano. “Robbé”, dice lei. “Stellina mia”, dice lui. Però litigano. In albergo. Sul set. Per strada. “Litigano moltissimo, con risse furibonde a bordo della Buick che sembra impazzita per via Veneto e infila il galoppatoio di Villa Borghese, con Micia ringhiante e terrorizzata”. Ringhiante – quella risata, quell’urlo, quello sguardo – è pure Anna, terrorizzato magari Roberto. Meglio lui di Micia, certo. “Io amo tutti gli animali. Un cane è bello, è poesia, è natura, è autentico, non mente. Io trovo che lo sguardo di un animale, la sua dolcezza, la sua stessa presenza sono veri come tutti i miracoli che ci offre ogni giorno la natura. Gli uomini, invece, che cosa ci offrono?”. Prendono il cuore,  gli stronzi, lo fanno volare e poi lo lasciano precipitare a terra – come una merda, come una foglia secca. Come “non avere più sangue” – così dice Anna. “E’ una cosa tremenda, da urlare” – dice. Meravigliosa cosa, lo stesso.

    “La loro storia d’amore si chiude con un crudele sotterfugio, il più vigliacco di tutta la carriera del regista. Una mattina, quando sono all’Hotel Excelsior, dice che scende per portare a spasso i cani. Ma nell’atrio consegna gli animali a un cameriere, sale su un’automobile che l’aspetta con le valigie già pronte e si dirige di corsa all’aeroporto dove prende un volo per gli Stati Uniti”. Lui va a raggiungere Ingrid Bergman. Con lei girerà “Stromboli”. Per tutta risposta, Anna sarà la protagonista di “Vulcano” – stessi mesi, stesso specchio di mare. Racconterà Rossano Brazzi: “Non faceva mistero con nessuno della sua rabbia e ogni sera si metteva sulla punta dell’isola da cui si scorgono in lontananza le altre isole Eolie, e mandava colorite maledizioni in direzione di Stromboli, dove l’idillio tra Rossellini e la Bergman aveva il suo momento magico”. Sul promontorio, sotto la luna, all’infinito, Anna urla e piange. E maledice. La lupa che esce da lei, nella notte. “Il mio più grande difetto è il bisogno di sentirmi amata.

    L’amore? Se io avessi trovato veramente il grande amore, avrei rinunciato a lavorare. Ah, se me lo avessero chiesto, sì. Io l’ho chiamato difetto, ma sarebbe la mia più grande ambizione, la più grande gioia, sentirmi amata. Voglio essere amata perché mi sento più protetta. Ma la felicità non è fatta per le persone troppo sensibili. Io vivo continuamente in uno stato di delusione”. Con quella perenne paura che l’abita fin da bambina – la mamma lontana. “Ho scelto questo mestiere perché avevo voglia di essere amata, di ricevere tutto l’amore che avevo sempre mendicato. Ecco, ci risiamo, è il solito dannato complesso materno. Ho anche capito che non ero nata attrice. Avevo solo deciso di diventarlo nella culla tra una lacrima di troppo e una carezza in meno. Per tutta la vita ho urlato con tutta me stessa per quella lacrima, ho implorato quella carezza”. Le lacrime vere della vita, quelle (vere) sullo schermo. L’urlo vero della vita, l’urlo (vero) sullo schermo. E’ “La Lupa” – in vita e in scena. E’ “Medea” – in vita e in scena. Si innamora sempre, Anna Magnani. Di un film, di un regista, di un amico, di un luogo, di una casa – di un gatto randagio. Così, dopo cena, costringe gli amici a seguirla nel suo tour di gattara notturna. “Quasi una processione che cominciava con gli scavi di largo Argentina e finiva a Villa Borghese e al Galoppatoio, dove si facevano correre i cani. A Villa Borghese era un classico l’incontro con le prostitute che lavoravano lì. Tra loro e mia madre nascevano dialoghi molti simpatici e divertenti scambi di battute in un clima che oggi non esiste più”, ricorda Luca, suo figlio. Anna e i gatti e le puttane – tutti illuminati nella notte di Roma.

    Anna Magnani è morta quarant’anni fa, nel settembre 1973. Aveva solo sessantacinque anni. Tumore al pancreas. “Se la morte mi spaventa ancora un po’ e perché vorrei che ciascuno potesse essere se stesso per poter morire in pace… Ho lottato, ho urlato alla vita, e oggi sorrido alla morte”. Urlò alla vita e urlò agli uomini, Anna Magnani. C’è adesso un bel libro che la ricorda: pieno di lei, delle sue furie, delle sue ferite – “ogni tanto fa bene essere matti, no?”. Della sua bravura, dei suoi film, delle sue passioni – “non rimpiango niente e ricomincerei la vita allo stesso modo”. E dei suoi uomini, dei suoi amori. Mai semplici, mai scontati. Di brevi felicità. Si intitola “Anna Magnani” (editore Bompiani, 396 pagine, 19 euro). Lo ha scritto Matilde Hochkofler, con la collaborazione di Luca Magnani. Anna beve sempre caffè, sempre fuma, si arruffa i capelli quando è felice, legge copioni, controlla tutto – dall’America persino il frigorifero di casa, le mattonelle, sempre i suoi amati animali. Piange, ride, riempie la scena e la vita – e scena e vita si confondono e si rincorrono. “Recito male se provo a recitare. Vivo quello che faccio o credo di viverlo che è lo stesso”. Profonde tristezze che quelli molto saggi ammalati di prudenza e senso comune sfuggono – nel loro sopravvivere più faticoso della vita stessa: “Amo le bestie perché non ti fanno male. Ho pianto una settimana quando i russi misero Laika dentro lo Sputnik, pregavo la Madonna perché la salvasse”. L’amore, più di tutti, la innalza – e “Amore” si intitola quel bellissimo film, due piccoli bellissimi film in uno: nel primo, avvolta nel filo del telefono, recita “La voce umana” di Jean Cocteau, e nel secondo è una povera folle che si fa mettere incinta da un fasullo san Giuseppe. E con l’amore Anna è piena di coraggio, e con l’amore Anna è piena di paura. Una cosa e l’altra. Ma sempre per il collo prende gli uomini, sempre li fronteggia fulminandoli con i suoi bellissimi occhi ardenti, sempre e per prima paga il prezzo altissimo di quel suo amare sopra le righe. Mai li evita, gli uomini che ogni volta le lasciano cicatrici – così da non avere più sangue, così da sentire sempre il suo sangue circolare. Dice di lei il suo amico Sergio Amidei quello che si disse di García Lorca: “Si sentiva che stava per arrivare e quando era andato via era ancora presente”.

    Prima di Rossellini – da inseguire sotto il letto, da braccare in mezzo al Mediterraneo, c’è stato un altro regista, Goffredo Alessandrini. Lo ha sposato. “Accanto a mio marito ho conosciuto sette anni di felicità, di gelosia, di dubbi e di collera”. Quando ama, la Lupa è un cucciolo remissivo. “Sorrideva sempre. Mi lasciava fare tutto quello che mi passava per la testa, e io continuavo a cambiare posto ai mobili”. Ma Goffredo è come Rossellini, come tanti altri. “Quando seppi che mio marito aveva delle avventure galanti e usciva con altre donne, per poco non impazzii. Goffredo mi aveva già tradito, se è per questo, ma era stato prima del matrimonio e io lo avevo perdonato. Ma adesso no, non potevo. Minacciai, urlai, piansi, mi disperai. Ero al fondo della disperazione. Non mi restò che separarmi”. Tocca spesso il fondo di questa disperazione, Anna – che in amore e liti mai si risparmia. Goffredo le regalò una cavalla. Un po’ matta, indisciplinata. Si chiamava – poveretta – Via dell’Impero. “Te la regalo perché ti somiglia. Ha una groppa generosa e le gambe storte e magre”. Anna ricorda che era bellissima, “e non riuscii mai a domarla veramente. Partiva come una pazza, mi tagliava le braccia e le mani, e io gridavo: ‘Sei una figlia del diavolo, ma tu forse non sai che anch’io sono il diavolo! Ti stanchi, mi stanchi, ma alla fine vincerò io!”.  C’è sempre il dolore di una rottura, urli e patimenti, e c’è sempre qualcosa che torna sotto forma di amicizia, che resta, che pianta lo stesso radici dove il sangue è stato versato. In amore, Anna è come sul palcoscenico mentre canta: “Qui nel cuore, qui nel cuor, / c’è un amor, c’è un dolor, / qui nel sen, qui nel sen / c’è il mio ben col tuo ben, / sempre più, sempre più nel mio cuor ci sei tu…”. E’ madre quando ama: così la disperazione, così l’annullamento, così lo schiaffo. Tutto e il contrario di tutto: Anna e/è Via dell’Impero, cavalla scontrosa. Quando il suo compagno Massimo Serato deve partire, durante la  guerra, lei si precipita a Termini in tassì, fa accostare la macchina alla fila dei militari in marcia – e piange e si dispera e gli urla di non partire, di andare via con lei: lo costringe a salire, lo porta all’ospedale militare del Celio, chiama il ministro dell’Africa italiana con cui gioca a carte, mette il suo amato al riparo dalla morte.

    Anna è forte, Anna è spaventata. Nasconde dai nazisti il suo amico Luchino Visconti, ma la inquietano gli ascensori di New York, si aggrappa a Montanelli inviato del Corriere: “Non me lascià, co’ ’st’ascensori che se chiudono da soli”, s’impunta sulla banchina rifiutandosi di salire sull’Andrea Doria finché non lasciano salire anche la bassotta Lillina. E Visconti – occultato ai nazisti – è costretto a fronteggiare la furia (fredda, stavolta) di Anna durante la lavorazione di “Bellissima”. Mentre girano, lei scopre una covata di gattini randagi pieni di pulci. Si siede sotto un ombrellone e, uno per uno, comincia a spulciare i mici, infischiandosene del regista che spiega la scena successiva. Il racconto di Franco Zeffirelli: “Luchino perse la pazienza e le strappò di mano il suo passatempo, facendolo volare in un cespuglio. Ci fu un costernato silenzio. Anna si alzò senza dire una parola, andò a riprendersi la bestiolina, si accertò che non si fosse fatta male, poi tornò a sedersi e riprese a spulciarla come se niente fosse successo. Visconti rimase interdetto ma poi attaccò con tono perentorio: ‘E allora?’. Anna non lo guardò neppure. Poi mormorò piano ma con voce fermissima: ‘Se ti azzardi a farlo un’altra volta, ti giuro che non mi rivedi più finché campi’”. Nel libro gli animali seguono i film, i film seguono gli uomini. “Le bestie vivono secondo natura e non sbagliano quasi mai. Ho trasportato questa teoria nel campo degli uomini”. Vive giorni felici a New York con il giovane Gabriele Tinti, poi incontra Anthony Franciosa – “il giovane attore italo-americano che si chiama in realtà Papaleo e ha vent’anni meno di lei. Il rapporto tra i due si fa intenso durante la lavorazione del film, creando imbarazzo tra i compagni del set. Il nervosismo di Anna, combattuta tra l’affetto per Tinti e la passione per Franciosa, aumenta con l’arrivo di Shelley Winters, la fidanzata dell’attore”. Che li trova una sera che si baciano, con in mano i copioni. “Non è una scena prevista del film e così si scatena l’ira di Shelley, che si avventa sulla rivale in uno dei suoi tempestosi scatti d’ira. Ma il rapporto tra Anna e Tony continuerà con lunghe lettere appassionate che si scambiano anche quando lei rientra in Italia”. Però prima di rientrare ha qualcosa da fare, Anna. Una lettera a Tinti – lo prega di lasciare la casa. Lo ha amato, ma adesso è in crisi.

    “Sincerità o vigliaccheria? Non è la prima volta e non sarà l’ultima che Anna, abituata a prendere l’iniziativa, in amore lascia affiorare il suo lato maschile comportandosi come spesso gli uomini si sono comportati con lei”, spiega Matilde Hochkofler. Scrive a un’amica: “Ho passato quattro mesi meravigliosi e infernali. Io che ho fatto nella mia vita tutto alla luce del sole, ho dovuto vivere repressa, avvilita, nascosta, con un sentimento grosso dentro di me da spaccare il mondo. Felice, ma impazzita”. Tony è un debole, non si deciderà mai. Altre cicatrici. C’è Marlon Brando, sul suo orizzonte. Lui racconta che Anna “senza alcun incoraggiamento da parte mia, cominciò a baciarmi con grande passione. Mi sentii in dovere di restituirle i baci, ma appena tentavo di sottrarmi a lei si stringeva ancora di più e mi mordeva il labbro. Continuavamo a oscillare avanti e indietro, mentre lei cercava di portarmi verso il letto. Alla fine per staccarla da me l’afferrai per il naso e cominciai a strizzarlo con tutte le mie forze. Presa alla sprovvista, fece un balzo e io riuscii a sfuggirle”. Poi, ancora, Osvaldo Ruggeri.

    Dice Anna: “Lo so, sono la donna più discontinua del mondo. Tutto cambia dentro di me da un’ora all’altra. Il fatto è che seguo sempre il mio istinto e il mio cuore. Non mi curo mai di quello che sembro, di come gli altri mi vedono. Sono così, come la mia vita, le mie speranze, le mie delusioni, le mie gioie e le mie infelicità mi hanno fatta”. Annota: “Piena di difetti, tanti, ma piena di timori, di smarrimenti, gli stessi che ho oggi dopo una dura, durissima vita, li avevo a dieci anni. E questo trauma è la cosa che amo di più in me. Le stesse violenze, le stesse reazioni per una disillusione o per una commozione”. Al drammaturgo Tennessee Williams – insieme al suo compagno, Franco, tra i suoi migliori amici – scrive raccontando dei cani, “angeli che Dio ha mandato sulla terra sperando che l’umanità diventasse migliore”, e di sé, “come vedi anche io alla mia maniera sono matta! Son matta e triste come sempre. Dio non vuol farmi la grazia di farmi trovare la felicità. Ma forse sono io che non so vederla dov’è”.

    Montanelli, che la conosce: “Una creatura timida, irresoluta e umbratile, che qualche volta cerca di far paura agli altri per far coraggio a se stessa”. Ancora lei: “L’inquietudine bolle a fuoco dentro di me, come una pentola d’acqua sul fornello acceso. Sono piena di violenza”. Alla fine – ma lo stesso non sapeva che la fine fosse così vicina – sa che i giorni felici sono sempre pochi, “attimi, giornate che sommate assieme per tutta la vita non fanno neanche una settimana”. Gli amici andati via, i film mancati, gli anni che passano. “Ho troppo orgoglio, troppo rispetto di me e troppa dignità per essere la donna che descrivono ossessionata dalla giovinezza che se ne va. Vorrei essere come un albero che è dritto e forte fino a quando muore. Come è pulito un albero anche quando è vecchio”. Qualche giro ancora di notte, come quando di notte accompagnava in giro il suo amico Trilussa, lui allora vicino alla fine. E prendevano il caffè al bar, a piazza Venezia. E il vecchio Trilussa restava imbambolato davanti a una bella cassiera “con due seni che sembravano due fiasche” e gli occhi verdi. Il poeta la fissava. “Voi che avete fatto oggi?”. “Sono stata al mare”. “E il mare che ha detto quando ha visto questi occhi?”.

    E’ stata piena di tumulti e amori e dolori e stupori e applausi e lacrime, la vita di Anna che ora scorre nell’ultima immagine cinematografica, quella del film “Roma” di Fellini – “Chi so’ io?”. “Una Roma vista come lupa e vestale…”. “De che?”. “… aristocratica e straccionesca, tetra, buffonesca. Potrei continuare fino a domattina”. “A Federì, ma va’ a dormi, va’!”. Vorrebbe abolire le corride, cancellare la vivisezione, torna la notte a portare da mangiare ai gatti così simili a lei – lupa e felina. Sta per andare via. “Quello che mi atterrisce è di sparire da un momento all’altro, improvvisamente, senza essere riuscita a sapere chi era veramente la Magnani, o meglio chi era la piccola Anna. Ho recitato la parte dell’aggressiva, ma non lo ero. Di qui le mie collere. Ho recitato la parte della coraggiosa quando invece ero un agnello. Di qui, ancora, le mie collere. Povera pazza! Se oggi dovessi morire, sappiate che muoio ricca perché ho capito tutto questo. Sappiate che le mie collere erano solo rivolte contro di me”. Vorrebbe che nel giorno della morte, i bambini delle scuole cantassero tutti insieme “Reginella”. Si gira. L’ammalata della stanza accanto è stata dimessa. Chiede: “Perché io sto ancora male, perché non riesco a muovermi?”. A New York il suo amico Tennessee, lui pure trascinato nei felini bagordi notturni, tra qualche giorno la celebrerà: “Sono sicuro che il fantasma di un gatto affamato di Roma siede qui fra di noi in questa cerimonia di addio a una grande anima, la nostra cara Anna…”. Ogni collera si spense. O spavento che fosse.