Il segreto dei pataccari

Stefano Di Michele

E’ l’altra verità, che sempre sonnecchia da qualche parte, tra la testa e lo stomaco. Che spesso, poi, “è” la verità. Cioè: sappiamo noi che è la verità. Gli altri no. Ovviamente, è sempre una verità scomoda, pericolosa, tortuosa. Da svelare, da gridare, da dissotterrare – ché il potere, si sa, cupo e becchino, interra. Poi, magari, dissotterrando dissotterrando (e nello specifico pure dissotterrando su sua indicazione), nel giardino di casa di Massimo Ciancimino si scovano anziché patate pericolosi candelotti.

 

Ferrara Com’è fatta l’Italia pataccara - Rizzini Moro e le verità sepolte (dal ridicolo)

 

    E’ l’altra verità, che sempre sonnecchia da qualche parte, tra la testa e lo stomaco. Che spesso, poi, “è” la verità. Cioè: sappiamo noi che è la verità. Gli altri no. Ovviamente, è sempre una verità scomoda, pericolosa, tortuosa. Da svelare, da gridare, da dissotterrare – ché il potere, si sa, cupo e becchino, interra. Poi, magari, dissotterrando dissotterrando (e nello specifico pure dissotterrando su sua indicazione), nel giardino di casa di Massimo Ciancimino si scovano anziché patate pericolosi candelotti. Tra i più pregevoli e tra i più allertati studi televisivi, se ne andò l’interratore degli stessi: a dir peste di prefetti (quel dott. De Gennaro che anche il babbo detestava: che poi, si capisce che tra capo degli sbirri e capo mafioso qualche divergenza d’opinione sia possibile) e di politici e di giuristi e di ottimi magistrati, a illustrar pizzini in giro, che Trattativa sia, che Trattativa fu, che Trattativa di certo è.

    Siamo insaziabili: il mondo fa schifo, così com’è non piace. E se fa così schifo, certo una ragione c’è – oltre, e meglio occultata, delle ragioni che appaiono. Ovunque sia: vicino ai bastioni di Orione, nelle terre del Prete Gianni, dalle parti della tomba del Mago Merlino. Tra carte/carte/carte. E voci/voci/voci. Nei pressi del cadavere, spesso, di un vero eroe o di un vero martire: ché della sua morte non ci si consola, e la sua morte sempre mistero aggrovigliato appare – mistero che solo le menti più allertate, menti quasi alchemiche, archivistiche e insieme sapienziali sanno decriptate. Sempliciotti come siamo, amiamo la complessità – nel non comprendere, ma sapere pure che c’è qualcosa da comprendere, ci esaltiamo, nella certezza che il vero ci nascondono: a noi sta a cuore, a noi interessa, mica noi come voi siamo. E’ il nostro casareccio e casalingo “I Care”. Là dove nascono le più ardite valutazioni, là dove si erigono le più strambe costruzioni, la dove più il nostro immaginario viene coccolato e massaggiato: esattamente là, in quel sottobosco ombroso e persistente, nasce la pianta della patacca.

    A qualcosa sempre crediamo – e credendoci, fortemente l’assicuriamo. “Definitiva conferma e certezza…”, si potrebbe dire. E’ stato detto. Prendiamo il dott. Antonio Esposito, che ha presieduto il collegio della Cassazione che ha reso definitiva la condanna di Berlusconi (ma di questa cosa qui si parla e da qui in poi si tace, ché gli stessi più devoti alla sorte del Cav. a fine luglio ne certificavano la consolante caratura di conservatore e la rassicurante lontananza da ogni contaminazione con Magistratura democratica, per poi ai primi di agosto passare sul fronte opposto: facendo netto e tara all’ingrosso, come con le casse di frutta al mercato ortofrutticolo) – e del resto, di quel momento e quel pronunciamento che ha infilato la scombinata politica italiana nel suo definitivo frullatore, ancor più persistente dei giudici supremi accaldati dentro le toghe, resta l’imperdibile video del carabiniere che in alta uniforme accenna un passo di danza nell’aula ancora vuota. Con generosità e certa convinzione, il giudice Esposito ha scritto la prefazione al libro di un suo amico, ex giudice a sua volta, Ferdinando Imposimato, “Presidente onorario aggiunto della Suprema Corte di Cassazione”, tra i prescelti dei grillini per il Quirinale. Titolo: “I 55 giorni che hanno cambiato l’Italia”. Sottotitolo: “Perché Aldo Moro doveva morire? La storia vera”. Storia vera, dunque, a leggere l’opera di Imposimato. “Definitiva conferma e certezza”, sanziona e certifica Esposito nella prefazione. Indubitabile, quindi. Accertato, perciò. Il doppio stato. Il triplo stato. Lo stato come gioco degli arcana imperii. In sostanza, Moro fu lasciato morire. I militari che potevano salvarlo rimossi. Gli assassini brigatisti oscenamente spalleggiati. “Purtroppo sono andati al potere quelli che io ritengo i responsabili della sua morte”, ha spiegato Imposimato. A chi si riferisce in particolare?, gli fu chiesto. “Ad Andreotti e a Cossiga”. Sia come sia, si fa per dire. E la prova? La pistola fumante (per quanto orrenda, nel caso, la metafora)? Il riscontro? Eccolo, Esposito lo sottolinea: le rivelazioni di due militari – uno brigadiere della Guardia di Finanza, l’altro ufficiale e membro di Gladio. In codice: “Archimede” e “Sapienza”. E anzi “del tutto sovrapponibile è il resoconto da parte di entrambi”, e pure “del tutto coincidenti le rivelazioni dei due militari”, ecc. ecc. Che però, viene fuori ora, erano uno. Due in uno. Uno che faceva due. E dunque, almeno coincidere dovevano. Almeno sovrapponibili apparire. Hanno scoperto Ros e procura che Giovanni Ladu (il brigadiere) era Oscar Puddu (il gladiatore). Archimede era Sapienza, Sapienza era Archimede – seppur due nomi così impegnativi e, ora pare, così mal impegnati. La conferma quale e solo autoconferma – acquaiolo, com’è l’acqua?

    Il gioco degli specchi del potere che infine confonde quelli che il gioco volevano rivelare. “Troppa luce che acceca”, come notava beffardo Andreotti stesso, eterno sospettato, qualche anno fa. Troppa luce, quasi come il buio. La penombra. I contorni indefiniti delle cose: l’habitat della patacca e dei pataccari, quando non è letteratura e non sono sentimenti. La verità – “vogliamo la veritààààààà!!!!!!!” – sempre esibita, sempre a caccia di un gancio dove appenderla, così da innalzarla e mostrarla, come il cuore di García Lorca buono per “lasciarlo appeso a un altro petto”. La patacca vuole esibizione, pubblica acclamazione, quel minimo di credulità per farsela rifilare. Come quelli che, nelle piazzole degli autogrill, nonostante tanta commedia italiana e tanti allerta delle forze dell’ordine, tuttora pensano di fare il grande affare comprando nel retro dei cessi per un pugno di euro un fiammante iPad, ritrovandosi col solito mattone dentro la scatola. La vittima della patacca, di solito, vuole essere impataccato, incrociando mirabilmente la patacca un suo desiderio nobile (la verità) o un tantino più ignobile (l’affare losco). Il pataccaro è uno psicologo, con l’orecchio teso  sull’altrui desiderio.

    Come quando ci si accapigliò sull’agenda rossa di Borsellino, che forse si  credeva di vedere in quel baratro di orrore che era via D’Amelio – qualcosa di rosso che sorgeva, tra le fiamme e i roghi, l’agenda!, l’agenda!, ed era solo un beffardo parasole risparmiato dal tritolo degli assassini. Almeno i pataccari cinici hanno una loro limitata incidenza: l’affare, la truffa, il raggiro. Pacco, paccotto e contropaccotto. Quelli che per esempio riescono a farsi dare decine di migliaia di euro (inchiesta della Finanza) per avere la conferma di qualche goccia di sangue nobiliare, un quarto almeno di granducato, vedersi ricollegati idealmente a un nipote di Carlo Magno o qualche addentellato della Gens Iulia. Stiamo sempre bordeggiando il vispo Totò che piazza la Fontana di Trevi al paesano Decio Cavallo, o dello stesso principe (fece fare accertamenti) quale ambasciatore del Catonga, “tu ci sei venuto?”, peraltro ideale raccordo cinematografico con tutte le nipoti di Mubarak che verranno. O siamo all’avvistamento di tracce del Santo Graal dalle parti di Otranto (il racconto in un divertentissimo saggio di Franco Cardini). A Roma, più prosaicamente, pare che saliamo sul bus con la patacca direttamente in tasca: quella dei biglietti dei bus clonati, la patacca tranviaria. O sempre tanto di cappello alla felicissima patacca dei falsissimi Modigliani, quando tre vispi ragazzotti di Livorno buttarono in un fosso certi manufatti loro opera di perizia con un Black&Decker, e grandissimi critici come Brandi e Argan andarono in estasi scrutando i presunti capolavori – ché al capolavoro appunto attendevano.  
    Un po’ come Argan con Modigliani, si è dunque trovato il dott. Esposito nell’assegnare “conferma e certezza” al narrare tra le pagine di “I 55 giorni ecc. ecc.” del brigadiere e del gladiatore (il brigadiere/gladiatore: meglio) di come Moro fu lasciato massacrare. Non c’è dubbio che generosamente abbia proceduto – perché questa storia, a leggerla bene, come quasi tutte le storie di patacche, se ciò che la procura ha appurato sarà dimostrato, è storia piena  di doppi. Lo sono Esposito e il suo amico Imposimato: uno ha teorizzato e l’altro ha certificato con l’autorevolezza del suo incarico.

    Lo sono Ladu e Puddu, uno e due e nessuno, con quei nomi che dovrebbero ingenerare sospetti anche in una fiction televisiva. Lo sono, tornando a Esposito e alla sua famosa intervista al Mattino, anche il giudice e il suo giornalista che lo intervista – la lunga consuetudine dove forse scivola il magistrato, argomentando tra Tizio e Caio e Sempronio e quel “non poteva non sapere”, e dove il magistrato dice invece che scivola il cronista, Antonio Manzo, e il testo, visionato via fax, “è stato manipolato”. E no, dice Manzo che conosce Esposito da trenta e passa anni; e sì, dice Esposito, che da un trentennio conosce Manzo. “’Nun me portà ngoppa a stu problem’…” – ma quello invece fu il problema. “C’è chi lo etichetta come il magistrato del pregiudizio. E chi, invece, lo descrive come un giudice sereno che non si è mai lasciato condizionare né da nomi e cognomi degli imputati, né dalle inchieste e dai processi” – il capitello che sormonta l’intervista di Manzo: ancora un doppio, ancora l’uno o l’altro. O l’uno e l’altro, come pure si sostiene – e l’integrale di quella intervista pregevole all’orecchio dovrebbe rivelarsi. E comunque tutto si fa evocativo della storia del “compagno segreto” di Conrad: quello che dorme nascosto nella cabina del capitano, e il cui cappello bianco che galleggia sull’acqua indica la giusta scia.

    La patacca animata dalle buone intenzioni è quella che persiste, che si morde la coda, che svelata continua a vivere di vita propria. Anzi a moltiplicarsi, a generarne altre, di patacche. E sospetti. E ipotesi di complotto. Non esce quasi mai del tutto dal suo labirinto. Basta un’occhiata ai blog dove si discute del libro di Imposimato per capire che un disvelamento non porterà che a nuove supposizioni, a ulteriori ingrandimenti della patacca originaria – e del resto, era la patacca detta cosa così perché moneta di scarso valore ma di notevole dimensione. “Imposimato ha detto che il Bilderberg era dietro alle stragi di stato italiane ma questa notizia principale non è stata riportata. Forse perché Monti, Letta, Bonino etc. sono del Bilderberg, consesso dei banchieri centrali stranieri e dei loro esecutori che tiene riunioni a porte chiuse” (Cesare). “Ferdinando Imposimato non è un pischello che si è fatto una canna con gli amici e spara boiate. E’ stato il giudice istruttore del caso Moro di cui ha condotto i primi tre processi!!! Sciradindi!!!! E se non capisci il sardo traduco: svegliati!!!!” (Antonio). “La verità è stata scritta nei verbali di ben sei processi” (Davis, dubbioso). “Scusa, Davis, ma tu fossi per caso uno che ha interesse a che il caso resti insabbiato. Chi sei, uno del Sismi? Un raccomandato dei due ‘cospiratori’? Uno ‘sporco anticomunista’?” (Massimo). Giustamente, del resto – infatti sul sito della casa editrice del libro, la Newton Compton Editori, si trovano segnalate alcune autorevoli recensioni che lodano “rigorosa e inedita ricostruzione (…) numerosi indizi inediti e testimonianze nuove di zecca di due militari a conoscenza dei fatti”, e ti credo, (Repubblica); “nel suo ultimo libro il giudice svela e riordina alcuni lati oscuri” (Sole 24 Ore); “novità eclatante” (Gazzetta del Mezzogiorno). Perciò Esposito avallò, certo, ma altri autorevolmente avallarono a loro volta. In fondo, il brigadiere Ladu (che fu pure il gladiatore Puddu), non fu meno artista – pur se in ambito più tragico e oscuro e sanguinante – dei tre geniali amici che diedero ai grandi esperti d’arte esattamente quello che loro volevano. Sono, tanto il pataccaro quanto l’impataccato, l’assoluto contrario del poeta fingitore di Pessoa – quello “finge così completamente / che giunge a finger che è dolore / il dolore che davvero sento”; questi possono fingere così bene da giungere a fingere che è vera la verità che loro pensano reale.

    Nel paese così satollato di iPad e telefonini e Twitter e Facebook – in un minuto capaci di collegare informazioni utili ma pure e soprattutto sentimenti/paranoie/risentimenti – alla fine lo smercio della patacca è facilitato. Siccome è necessario crederci, alla fine si finisce sempre col sommare,  nell’invocazione/esortazione/ autocertificazione di società civile (il più delle volte lo stato brado di ogni livore piuttosto che di ogni sdegno), ogni più oscura perturbazione. Se non fa logica, fa volume. Appunto: mica noi siamo del Sismi – o Cia o Kgb o Bilderberg. Piuttosto tutti temerari, spadone sguainato, certezza esibita. Ne sappiamo sempre così tanto, abbiamo così tanta fervida fantasia, che è insostenibile il peso di tenere tutto per noi. Siamo così scafati da essere così incredibilmente creduloni.

    Come quelli invitati alla radio, autorevolissimi personaggi, che si fanno fregare da finte telefonate di non meno autorevoli personaggi (la patacca vocale, diciamo) – e si confidano, e si abbandonano, e si dilungano in chiacchiere. Per pentirsi poi, per vergognarsi un po’. Qualcosa di più pensiamo che sia sempre giusto aggiungere. Ora anche Enrico Letta, così composto e così ammodo, si lascia andare alla mediatica (e metallica) patacca sulle sue “balls of steel”, le palle d’acciaio: granitici, quasi staliniani (nel senso di acciaio, prima che s’inalberi Renzi), a durezza leghista, attributi. Può non essere una patacca, questa? Che tristi e peraltro ingenerosi disguidi potrebbe sempre generare – ogni vera patacca lo sa fare, come quando il biografo ufficiale definiva Bartolomeo Colleoni (a migliore sottolineatura tanto di capacità di condottiero quanto a metallici attributi) “Bartolomeo Coglione”: dall’elogio all’equivoco. Ci sarebbe da fare un salto, tutti quanti, la prossima estate, in Ciociaria. Risulta attiva, in quel di Serrone, vicino Frosinone, l’annuale Sagra della Patacca e della Passerina – e l’equivoco non meno che sulle “ball of steel” lettiane (a conferma e certezza si gradirebbe un intervento del ministro per i Rapporti col Parlamento) potrebbe trovar spazio. Ma attenzione, essendo vera sagra della patacca, la patacca in questione “è una tagliatella fatta con acqua e farina”, e la passerina (che alla patacca sommata poteva rivelarsi sinonimo, per stare al solito gioco del doppio) “è un vino bianco secco, ottimo per accompagnare i tradizionali piatti ciociari”. Così è la patacca ben fatta: pare una cosa, è sempre un’altra.

    P.S.: Letta smentisce le “palle d’acciaio”. Una balla. Una patacca d’acciaio.

    Ferrara Com’è fatta l’Italia pataccara - Rizzini Moro e le verità sepolte (dal ridicolo)