L'Antimafia delle nebbie

Massimo Bordin

La presenza di una commissione bicamerale Antimafia è ormai una costante del nostro Parlamento. Eppure non è una commissione permanente, viene riproposta e istituita di legislatura in legislatura, munita di poteri di inchiesta e di elaborazione di proposte legislative e amministrative. Se il suo insediamento ritarda, come è avvenuto questa volta, si può stare sicuri che si svilupperanno campagne di stampa e della sedicente società civile per lamentare l’inazione colpevole di un Parlamento complice. I più indulgenti e meno fantasiosi intimeranno di “non abbassare la guardia”.

    La presenza di una commissione bicamerale Antimafia è ormai una costante del nostro Parlamento. Eppure non è una commissione permanente, viene riproposta e istituita di legislatura in legislatura, munita di poteri di inchiesta e di elaborazione di proposte legislative e amministrative. Se il suo insediamento ritarda, come è avvenuto questa volta, si può stare sicuri che si svilupperanno campagne di stampa e della sedicente società civile per lamentare l’inazione colpevole di un Parlamento complice. I più indulgenti e meno fantasiosi intimeranno di “non abbassare la guardia”.

    Siccome però anche loro sono convinti della compromissione dei deputati e senatori, l’incitamento risuona come quello di un allenatore che da bordo ring si rivolge al suo pugile che ormai ritiene sconfitto e suonato. In ogni caso le lamentazioni sono ispirate da una motivazione che oscilla fra la propaganda e l’invettiva, spesso contenendole entrambe. Chi protesta per l’assenza della commissione in realtà lo fa più per la forma che per la sostanza, in concreto non si aspetta nulla e paradossalmente non ha torto. Ma le compromissioni, che pure ci saranno, c’entrano poco. Lo dimostra la storia ormai lunga, mezzo secolo, della commissione dal momento in cui nacque.

    Nei tredici anni e tre legislature in cui è stata in vita la prima commissione Antimafia della storia della Repubblica la produzione di materiale documentario è stata notevole: 42 volumi per trentamila pagine. Il primo presidente di quella commissione d’inchiesta, il democristiano senatore Donato Pafundi, definì quell’archivio una polveriera, una santabarbara. Dopo il deposito di quelle carte non successe praticamente nulla per loro causa, semplicemente nacque una forma di gigantismo documentario che fu poi coltivato nelle aule di tribunale. Almeno però quella commissione lavorò per la storia. Certo non riuscì a fotografare con una istantanea il fenomeno. Basta considerare le date: nel 1963,  quando la commissione debutta, negli Stati Uniti Joe Valachi spiega a una analoga commissione parlamentare che la mafia in realtà si chiama “Cosa nostra” e racconta come è organizzata. Da noi gli onorevoli indagatori partono dal “tenebroso sodalizio” di cui parla il primo rapporto della regia polizia quando se ne occupa nel 1898 e approdano alla fine della loro indagine al sospetto che la mafia del feudo sia arrivata alle città.

    Per convincersi che le cose stavano come aveva raccontato Valachi nel ’63 ci vorranno vent’anni e Tommaso Buscetta. Così le relazioni finali sono interessanti, ma un po’ sfocate. Troppo prudente, e si comprende, quella di maggioranza. Più interessante quella comunista firmata fra gli altri da Pio La Torre e Cesare Terranova, che la pagheranno con la vita, ma non prive di spunti originali quelle dei missini Pisanò, Niccolai e Nicosia. Quest’ultimo la pagherà con una coltellata, ma a rendere più lieve la convalescenza sarà l’apprezzamento pubblico di Leonardo Sciascia.

    La prima commissione Antimafia chiude i battenti nel febbraio 1976 e fatica altro tempo per ottenere che le conclusioni vengano discusse dall’Aula. Quando avviene, l’eco è assai flebile. Per sei anni, che corrispondono a quasi due legislature, di commissione parlamentare non si parla più. Nel frattempo però a Palermo comincia a succedere di tutto. Vengono uccisi il procuratore Scaglione, il procuratore Costa, Cesare Terranova tornato a fare il magistrato, il segretario provinciale della Dc Reina, il presidente della regione Piersanti Mattarella, il segretario regionale del Pci Pio La Torre. Infine, nel settembre 1982, viene ucciso il generale Dalla Chiesa, mandato a Palermo con poteri prefettizi. In pratica solo l’arcivescovo viene risparmiato. A quel punto lo stato deve pur farsi sentire. Vengono votate nuove fattispecie di reato e altre sono aggravate. Viene creato l’alto commissariato Antimafia. E viene istituita una nuova commissione Antimafia, che non è una commissione d’inchiesta, ma deve verificare l’attuazione delle leggi e dare suggerimenti legislativi e amministrativi. Istituita al termine della ottava legislatura nell’83, dura pochi mesi e viene ripristinata con la presidenza del comunista Abdon Alinovi nella nona legislatura, dal 1983 al luglio ’87. E’ il periodo nel quale si pente Buscetta e inizia il maxi processo. Anche questa commissione non lascia particolare segno di sé. Con la legislatura successiva le cose cambiano, a parte la presidenza ormai appannaggio del Pci. Gerardo Chiaromonte però si trova in più a disposizione i poteri di inchiesta. Ancora più incisivamente li utilizzerà nella legislatura successiva Luciano Violante. Fin troppo incisivamente.

    La legislatura inizia nel 1992 e la commissione viene istituita nel luglio dopo le stragi di Capaci e via D’Amelio. L’affidamento a Violante della presidenza genera più di una perplessità. Chiaromonte, che per motivi di salute deve lasciare, si dice contrario, riservatamente e all’interno del suo partito. Violante è stato il coordinatore della politica giudiziaria del Pci, ora divenuto Pds, ed è stato assai critico con Falcone, prima per la scelta di spostarsi al ministero e soprattutto, nell’ultimissima fase della vita del giudice, sulla creazione della figura del procuratore nazionale Antimafia, ruolo a cui Falcone era candidato. Luciano Violante gestisce la commissione con grande determinazione e le indubbie capacità che tutti gli riconoscono, non pochi con un certo timore. Il presidente della Repubblica Cossiga, quando aveva molto allentato i freni esternatori, a un certo punto comincerà a chiamarlo “il nostro Vishinsky”, ma Violante non è tipo da intimidirsi per cose del genere e procede dritto per la sua strada. Con la sua presidenza c’è una novità clamorosa. Dispone l’audizione di alcuni pentiti. La questione ha un profilo non trascurabile ma sostanzialmente di forma. Un mafioso, come tale condannato, per la prima volta prenderebbe la parola in un’Aula parlamentare. A molti pare una innovazione discutibile, a qualcuno un fatto inaudito. Ma forse non è questo il problema principale. Con audizioni di questo tipo la commissione diventa di fatto un’aula di giustizia. E’ un rischio insito in ogni commissione d’inchiesta che ha i poteri dell’autorità giudiziaria. Nel caso delle audizioni dei pentiti scelti da Violante c’è però un problema ulteriore. Violante si tiene l’esclusiva dell’interrogatorio, che naturalmente è vincolato dalle esigenze dei pubblici ministeri che sentono il pentito per le loro indagini. Ai membri della commissione, in seguito alle proteste del radicale Taradash, Violante concede  al massimo di procedere col vecchio rito di udienza: i commissari pongano a lui le domande e se lui lo riterrà opportuno le girerà al suo interlocutore, riservandosi un ruolo di totale controllo dell’audizione.

    L’audizione chiave è quella di Buscetta, tornato apposta dall’America per deporre davanti ai magistrati siciliani sul rapporto fra mafia e politica. Ora i tempi sono maturi, sentenzia, e in più aggiunge di volere così rendere omaggio al suo amico Falcone. Questa dichiarazione di intenti Buscetta, per la verità, la propone prima di essere sentito dalla commissione, a un giornalista della Stampa, Francesco La Licata, che racconta in premessa al lettore quanto l’intervista sia stata casuale. Mentre era in un ristorante gli era capitato di notare quanto somigliasse a Buscetta un tizio che mangiava a un altro tavolo. Scoperto che era proprio lui, gli aveva proposto un’intervista, prontamente accettata dal pentito. Se il giornalista ha raccontato questo avrà avuto i suoi buoni motivi. Certo è un caso singolare e molti ebbero l’impressione che tutto fosse un po’ troppo funzionale a un’operazione tipo “il ritorno di Buscetta”. Tanto più che i commissari, già seccati dal duplicato giornalistico, poterono notare come nel lessico buscettiano fosse comparso un nuovo misterioso termine: “l’entità”, una sorta di misterioso ectoplasma, chiamato a rappresentare l’interfaccia politica di Cosa nostra. Se non il famoso terzo livello, qualcosa che gli si avvicinava molto. Durante l’audizione, anche grazie alle domande del presidente Violante pure il più ingenuo degli ascoltatori poteva facilmente comprendere che “l’entità” aveva un nome e un cognome. Il nome era Giulio e il cognome Andreotti. Il processo del secolo era ormai lanciato e il via era stato dato nell’aula di Palazzo San Macuto. Basterebbe quella audizione del 16 novembre 1992 per dare un senso diverso alla quarta commissione Antimafia rispetto alle altre.

    L’operazione si rivelò alla fine velleitaria, la gestione del processo vero si rivelò inadeguata, del resto a nessuno verrebbe in mente di paragonare Vishinsky al dottor Scarpinato. Forse ci sarebbe voluto Violante anche nell’aula del tribunale. In ogni caso quella commissione Antimafia non può essere definita sostanzialmente ininfluente come quelle che la precedettero. La conclusione fu comunque traumatica. Avviato il processo al massimo esponente della Prima Repubblica, all’attenzione dei giornali arrivarono i vincitori del primo round della Seconda. Il Cavaliere, certo, ma anche il suo inner circle, il cui punto debole fu individuato in Marcello Dell’Utri. E proprio alcune dichiarazioni di Violante in merito a un’indagine su Dell’Utri, niente meno che per un traffico d’armi, da parte della procura di Catania dettero l’impressione di una utilizzazione decisamente impropria del suo ruolo da parte del presidente, il quale pur continuando a smentire il giornalista, che era Augusto Minzolini, decise di dimettersi per fugare ogni dubbio sul suo comportamento. Per la verità a Dell’Utri è stato intentato più di un processo, ma per traffico d’armi, mai.

    Resta il fatto che tutte le altre commissioni Antimafia che si sono succedute si sono mosse in questo solco, con più o meno fortuna. Da Tiziana Parenti nel ’94 all’ultima legislatura con Beppe Pisanu. E proprio l’ultima legislatura ha visto l’Antimafia giocare praticamente di sponda con una serie di processi che si andavano tenendo sulla questione della trattativa stato-mafia. Pisanu, persona non priva di spessore e di esperienza, è forse il presidente che più si è avvicinato al modello Violante giocando di sponda con i magistrati e anticipando alcune testimonianze poi valorizzate dalla procura di Palermo. In fondo le audizioni dell’ultima commissione parlamentare sono le carte migliori, relativamente parlando, che i pm possano giocarsi. Un uso accorto della presidenza di una simile commissione non può non giovare anche alla carriera politica o alla propria ricollocazione. Non è il caso di Violante, forse lo è stato per un altro presidente di commissione l’allora diessino Giuseppe Lumia che fu presidente nell’ultimo scorcio della tredicesima legislatura, fra il 2000 e il 2001. E’ indubbio che da allora la sua posizione politica in Sicilia si è notevolmente rafforzata e oggi è uno dei parlamentari più forti del Pd nell’isola.

    Assai diverso il caso del suo predecessore Ottaviano Del Turco, che mostrò autonomia di giudizio e intelligenza investigativa nel condurre come commissione una indagine relativa a vicende svoltesi fra Reggio Calabria e Messina sulle quali la magistratura non aveva brillato per interventismo. Le sue successive vicissitudini contrastano con quella immagine di presidente Antimafia attivo più nel compito istituzionale che nella tessitura di relazioni. Le commissioni Antimafia però sono state eccellenti veicoli promozionali anche per molti semplici membri in un incrocio di ruoli talvolta virtuosistico. Se si risale al periodo a cavallo fra gli anni 80 e i 90 è difficile dimenticare la figura del professore Alfredo Galasso, civilista ma avvocato di parte civile nei processi di mafia, membro del Csm, consigliere regionale del Pci poi passato alla Rete di Orlando con la quale fu eletto deputato e poi nominato all’Antimafia. Memorabili i suoi attacchi a Falcone perché lavorava al ministero, chiamato lì da un ministro socialista. Altro di memorabile non c’è. Oppure il finiano Fabio Granata assessore regionale ai Beni culturali in più giunte guidate da Cuffaro e poi deputato di Fli e vicepresidente assai visibile della penultima commissione Antimafia. Sta di fatto che queste vicende mostrano come, a parte l’eccezione Del Turco, la struttura parlamentare della commissione Antimafia sia divenuta un mero ricettore di documenti e input dalle strutture giudiziarie e investigative delle quali, nella migliore delle ipotesi finisce per duplicare il lavoro. Confinata la commissione in quest’ambito, cosa possa venirne di buono è difficile vedere. Cosa d’altro ne possa uscire abbiamo visto.