L'odore della carta

Redazione

Tutto quello che ci circonda, natura a parte, è stato prima disegnato. Tutto dunque è stato prima di carta. Architetture, carta moneta, design, abiti, carta da parati, incarti di cioccolatini, lettere d’amore e opere d’arte. Siamo stati, e siamo, gente di carta. Eppure le notizie, la narrativa e persino la poesia sembrano pronte a sopportare le necessarie metamorfosi pur di migrare rapidamente dalla carta al vetro. Pubblicità e marketing lo hanno già fatto da tempo.

di Cinzia Leone

    Tutto quello che ci circonda, natura a parte, è stato prima disegnato. Tutto dunque è stato prima di carta. Architetture, carta moneta, design, abiti, carta da parati, incarti di cioccolatini, lettere d’amore e opere d’arte. Siamo stati, e siamo, gente di carta. Eppure le notizie, la narrativa e persino la poesia sembrano pronte a sopportare le necessarie metamorfosi pur di migrare rapidamente dalla carta al vetro. Pubblicità e marketing lo hanno già fatto da tempo. A scomparire sarà dunque solo il supporto cartaceo, una ricetta poverissima di acqua, fibre naturali e colla, attraverso il quale informazioni, pensiero e comunicazione sono stati veicolati negli ultimi quattro secoli? Per Ian Sansom autore de “L’odore della carta” (Tea) il certificato di morte della carta è stato compilato troppo frettolosamente e la tecnologia “con la quale abbiamo potuto dare un senso al mondo e grazie alla quale siamo diventati ciò che siamo” avrà ancora un ruolo nelle nostre vite. Possiamo pensare di sostituire le banconote con il bancomat, ma avremo qualche difficoltà a trovare un’alternativa alla carta igienica. Al ristorante possiamo scegliere da un menu elettronico, pagare il conto con la carta di credito e avere la ricevuta via mail, ma senza carta non sapremo come avvolgere un regalo di compleanno. Possiamo distrarci con le app dello smartphone ma senza la carta difficilmente possiamo concentrarci sulla geometrica magia di un origami.

    Il fantasma della carta infesta l’universo digitale. L’iPad somiglia a un taccuino, il Kindle a un libro e l’iPhone a un’agendina. Lo sfoglio dei giornali elettronici simula quello cartaceo. L’e-book non rinuncia a numero di pagina, margini, paragrafi, sottolineature e note a margine. Nell’organizzazione dello spazio il video simula la scrivania e la cancellazione dei file è affidata al solito cestino della carta straccia. La carta rimane il modello concettuale dello spazio logico-visivo delle nuove tecnologie. Se il tatto è coccolato dal palliativo del touch screen, allo schermo manca comunque il profumo della carta. A colmare la lacuna le “Essenze culturali”, che sintetizzano il profumo della “Divina Commedia” dei “Malavoglia” o di “Finzioni” di Borges e con 115 dollari e uno spruzzo di “Paper Passion”, la fragranza distillata dal “naso” Geza Schoen, potete tuffarvi nel miglior profumo del mondo, l’odore di un libro appena stampato. “Come quello dei biscotti appena sfornati, dei giacinti, e del barbecue” assicura Karl Lagerfeld, progettista del packaging. Una platonica cartiera e un’immateriale stamperia sono tabernacoli ai quali non riusciamo a rinunciare?

    Utilizziamo la carta da duemila anni. Il più antico reperto è un brandello in fibra di lino, trovato nel 2006 in Cina a Gansu, una tappa della Via della Seta, e risalente a duecento anni prima di Cristo. In Cina si fabbricava carta con la canapa, con steli di bambù, scorza del gelso, germogli di giunco, muschio, licheni, paglia di grano e riso e bozzoli del baco da seta, ma la migliore era fatta di stracci. Nel 751, durante una spedizione militare verso le frontiere della Cina, il governatore generale del Califfato di Baghdad cattura due fabbricanti di carta cinesi che messi sotto torchio spifferano i segreti di fabbricazione. Grazie a loro a Samarcanda, sotto il califfato degli Abbasidi, nascono le prime manifatture. Dal 786 all’809 al potere c’è il califfo Harun al-Rashid, uno dei personaggi centrali delle “Mille e una notte”. A lui si deve l’abbandono della pergamena e la scelta della carta come supporto ufficiale per gli atti amministrativi. La carta infatti si rivela un ottimo strumento anti falsificazione e con un altissimo grado di sicurezza. Mentre la pergamena è facilmente manipolabile grattando via la scritta, la carta conserva traccia di cancellature e abrasioni, e si compromette sotto le mani dei falsificatori. Il problema dei falsi è antico come l’uomo. Da Samarcanda, trasportata dalle carovane dei commercianti arabi e diffusa nei centri culturali dell’età dell’oro dell’islam, una valanga di carta è pronta a invadere l’occidente. Dal mondo arabo all’impero bizantino fino all’Europa il passo non è breve ma irreversibile.

    Da Samarcanda a Baghdad e a Damasco la carta invade il Nordafrica: il Cairo, Fez, Tripoli, fino alla Mauritania e al Marocco. Da Fez, penetra in Spagna, dove sorge la prima cartiera d’Europa. Di lì a Troyes, Norimberga, Cracovia e Mosca. In Italia prima ad Amalfi nel 1220 e poi a Fabriano nel 1276.
    L’invenzione è cinese, il viaggio degli arabi, ma la rivoluzione è in Italia: per esattezza nelle Marche, a Fabriano. Lo racconta “Cotone, conigli e invisibili segni d’acqua”, il libro edito dalla Fabriano e presentato nei giorni scorsi alla fiera del libro di Francoforte. “Grazie al lavoro di mercanti e merciai, già tra XIII e XIV secolo le risme di carta vengono spedite ad Ancona, Fano, Rimini, Venezia, Perugia, Firenze, Pisa, Siena, Lucca, e all’estero in Svizzera, Austria, Francia. Dai porti di Talamone, sul mar Tirreno, e di Aigues-Mortes, sul Mediterraneo francese, le creazioni dei maestri fabrianesi raggiungono la Provenza, il Nord Europa e il Medio Oriente”. L’avventura delle cartiere di Fabriano comincia con un curioso ribaltamento: “La stessa sorte subita dai due cartai cinesi a Samarcanda tocca, circa cinquecento anni più tardi, anche ai primi ‘estorsori’: gli arabi. Sarebbe proprio un gruppo di loro militari, fatti prigionieri e internati nella valle dell’alto Esino, a rivelare il segreto ai fabrianesi”.

    La storia della carta sa prendersi le sue rivincite. Il tramonto della carta arabo-spagnola coincide col sorgere della tradizione fabrianese. L’occidente resiste alla novità. La nuova industria non è vista di buon occhio per la sua provenienza araba o giudaica. Nel 1231, quattrocento anni dopo la preveggente scelta a favore della carta del califfo al-Rashid, Federico II emana un editto in cui stabilisce che ogni documento su carta è privo di valore perché effimero e poco durevole. A quale carta si riferisce l’imperatore? Non certo alla splendida carta dei califfi abbasidi. Piuttosto alla modesta carta bambagina che si produceva all’epoca: facilmente deteriorabile per la collatura con sostanze amidacee che non protegge il foglio dall’attacco dei microrganismi. Per l’imperatore è ancora la pergamena il supporto più sicuro, anche se più costoso. E qui nasce il colpo di genio dei cartai fabrianesi che, facendo bollire gli scarti delle pelli delle concerie locali, ricavano una gelatina animale che toglie alla carta la capacità assorbente e la rende immune agli agenti patogeni: “In particolare la colla lapin, ottenuta dalla bollitura degli scarti di conceria di pelle di conigli (…). La gelatina animale crea uno strato più impermeabile e meglio ancorato al contesto fibroso, proteggendolo maggiormente rispetto a quanto potesse fare la collatura con amido, secondo il metodo degli arabi, ma anche rispetto alla mucillagine di ‘Ibisco del Tramonto’ adoperata nell’antichità da cinesi e coreani”. Grazie agli ingegnosi cartai di Fabriano l’editto di Federico II viene aggirato e il divieto di usare la carta per redigere atti pubblici scompare nel volgere di pochi anni.

    Motore dell’invasione della carta nell’occidente, la cultura islamica davanti ai torchi di stampa ha una drammatica battuta d’arresto nel 1483. A trent’anni dalla caduta di Costantinopoli, il califfo ottomano Beyazit condanna alla pena capitale chiunque stampi, possieda o legga un libro in arabo o in turco stampato al torchio. Liberi di stampare, possedere e leggere libri stampati nella loro lingua, cristiani ed ebrei. La più grande rivoluzione culturale dell’umanità, la stampa, che permette l’allargamento esponenziale della piramide sociale del sapere, si ferma sulla soglia della Grande Porta. La rivoluzione innescata il 23 febbraio 1455 dalla prima Bibbia a 42 linee stampata da Gutenberg spaventa l’islam. Meglio lasciare il Corano in poche copie costosissime in mano agli ulema e alle élite. Una voragine di quattro secoli nella quale si consuma la battuta d’arresto di una cultura e se ne disegna il declino. In Europa i torchi imprimono il ritmo alla modernità. Quelli “irriverenti” della Serenissima, come racconta Laura Lepri in “Del denaro o della gloria” (Mondadori) sfornano libri in una catena di montaggio proto-industriale, con un’industria editoriale complessa e agguerrita e con editori umanisti pronti all’avventura editoriale in lingua volgare del “Cortegiano” di Baldassar Castiglione. Nel 1538, da una galea veneziana sbarca a Istanbul Alessandro Paganini, erede di una dinastia di tipografi e cartai bresciani. Con l’aiuto di alcuni ebrei e musulmani, Paganini ha fuso nel piombo caratteri arabi e ha stampato, in un numero considerevole di copie, la prima edizione del Corano fatta al torchio. Ignaro del divieto del califfo Beyazit, l’audace Paganini pensa di aver fatto il colpo, ma le copie, appena scaricate dalla galea, sono sequestrate dalla dogana ottomana. Salvato in corner dagli ambasciatori della Serenissima, la pena di morte comminata è trasformata nel taglio della mano destra. E le prime copie stampate del Corano, come racconta il contemporaneo Jean Bodin, date alle fiamme. Senza quel rogo e quei quattrocento anni di “silenzio stampa”, il futuro dell’islam sarebbe mutato? Trentasette anni dopo l’assedio di Vienna, nel 1720 il califfo ottomano Ahmed III, abolisce il divieto dell’“arte nera”. Nasce così la prima tipografia autorizzata a stampare in arabo e turco, ma rimarrà per molto tempo l’unica e sotto stretto controllo dello stato. Il rogo delle copie del Corano di Paganini ricorda altri terribili roghi di libri, e la distruzione dei Budda di Bamiyan in Afghanistan. Quei quattrocento anni senza la rivoluzione di Gutenberg non saranno colmati rapidamente, neppure dalla rivoluzione di internet.

    Lenta ma inesorabile, la carta conquista l’occidente. Mentre la cartapecora al tramonto lancia gli ultimi belati, i torchi battono il ritmo della modernità. A rallentare l’espansione della carta è il processo artigianale di triturazione, battitura, impasto, pressatura, sbiancatura ed essiccazione, e la penuria della materia prima più nobile: gli stracci. L’abitudine sempre più diffusa di utilizzare la camicia e la biancheria intima, formidabile scorta di stracci per la produzione dell’impasto, dà un impulso decisivo all’industria della carta. A raccoglierli di casa in casa, una rete capillare di stracciaioli, spesso ebrei, alle dipendenze di ricchi mercanti che riforniscono le cartiere più grandi. Un flusso di stracci e di carta attraversa l’Europa. Pericoloso veicolo di contagio nelle epidemie di peste ma indispensabili per nutrire le cartiere che spuntano ormai in tutta Europa. Gli stracci andranno a ruba fino al XVIII secolo, quando, cresciuto il popolo dei cartivori, salita la domanda di libri e con il prezzo degli stracci alle stelle, si tenteranno arditi melange di paglia, cardo campestre, fieno, cascami della canapa e del lino. Tentativi insufficienti: dopo gli stracci sarà il legno a dare i migliori risultati.

    Le cartiere entrano di diritto nel novero delle grandi industrie e i loro lavoratori diventano protagonisti delle lotte sociali. Durante le Swing Riots, le rivolte operaie del 1830, i membri dell’Original Society of Papermakers attaccano le cartiere, gli operai sono processati e deportati in Tasmania. Molti produttori falliscono ma la corsa della carta non si ferma. A fine ’800 in Portogallo i grandi latifondisti dell’Alentejo stroncano le lotte bracciantili sostituendo le grandi culture cerealicole con immense distese di eucalipti, ottimi per la produzione di pasta di legno e che non necessitano di manodopera. La carta inghiotte la lotta di classe e la tecnologia è pronta a fare la sua parte. Cartiere con cilindri essiccanti, sbiancanti nell’impasto, macchine trita legno per produrre in larga scala. A metà Ottocento, con la pasta di legno la crisi della carta è scongiurata. Inizia quella delle foreste. Le cartiere, insaziabili, si impadroniscono della metà della raccolta industriale del legno. Usando le parole dell’ecologista Mandy Haggith: “La pagina bianca è una purea di alberi sbiancata chimicamente”. Se la Cina ancora consuma solo 50 chilogrammi di carta pro capite, in Inghilterra si arriva a 200. Adoriamo gli alberi e le foreste ma non rinunciamo alla purea di carta. Il viaggio della carta finisce in un’apocalisse ambientale che troverà il suo Armageddon nella rete.

    Anche la carta ha i suoi drogati e le sue dipendenze. In “Cotone, conigli e invisibili segni d’acqua” è riportata la testimonianza di Ulisse Mannucci (1921-2013), il più grande cartaio fabrianese del secondo Novecento. “Un nostro cliente americano comprava sempre una carta di stracci, nerissima, perché la fabbricavamo con gli stracci delle camicie fasciste. Erano gli anni Quaranta… Poi, caduto il Fascismo, cominciammo a fare una carta meno scura. ‘Meno’, ma pur sempre scura: stava finendo la guerra, non la povertà. Però quel cliente si era evidentemente affezionato al vecchio colore. Di fronte alle nostre spiegazioni sul rivolgimento storico, sull’improvviso dileguarsi delle camicie nere, d’un tratto ci fulminò con una battuta: ‘Ma come, e i preti?’”.

    “E’ importante il suono che fa la carta – continua Mannucci flettendo il foglio stretto tra indice e pollice, e imprimendo dei colpi rapidi e secchi col polso –. Ecco la musica della carta…”. La carta ha i suoi feticisti e i suoi maghi: “Il vuoto che separa il fronte di un sottile foglio di carta dal retro… è qualcosa che merita di essere studiato! E’ una categoria che ha occupato molto spazio nei miei pensieri negli ultimi dieci anni. Ritengo che, attraversando ciò che è più sottile, si possa passare dalla seconda alla terza dimensione”, scriveva Marcel Duchamp. Per gli artisti diventa una metafora pregnante come nei decollage di Mimmo Rotella e nelle opere bidimensionali e nelle installazioni di Gianluigi Colin, che strappa la carta di giornale alla sua caducità sedimentando il flusso dei media.
    Carta, stampa, diffusione del sapere e dell’arte sono uniti indissolubilmente. Ai libri, congegni portatili, elementari e insieme rivoluzionari, il merito delle rivoluzioni scientifiche, della riforma protestante, della caduta dell’ancien régime, della fine del comunismo e di tutto quello che è capitato nel mezzo: amori, odi, avidità, narcisismo, sogni.

    Aveva torto Federico II ma anche le sue ragioni. La carta e i libri sono facili da distruggere. I pagani hanno bruciato Protagora, gli islamici hanno bruciato il Corano di Paganini, e i nazisti, per “illuminare il cammino”, il 10 maggio del 1933 hanno dato alle fiamme Freud, Kafka, Marx, Heine, Lenin, Thomas Mann e Stefan Zweig.

    Nel confronto con il vetro dei video, la carta cerca la sua nuova misura. E punta sulla sua forza: la sua materialità. Ridefinendosi come il supporto ideale del pensiero critico non effimero. Come il Financial Times, che dopo anni di esperienza nella duplice veste cartacea e online decide di incrementare i contenuti della versione internet durante la settimana a scapito della carta e di capovolgere il rapporto nel fine settimana quando la lettura si fa riflessiva e di qualità. Carta o vetro, l’importante è seguire il verso della storia. Come ricorda Ian Sansom ne “L’odore della carta”, nella lingua giapponese esiste l’espressione “yokogami-yaburi” che in senso letterale indica il gesto di strappare un foglio in direzione contraria alla fibra e in senso metaforico è sinonimo di perversione. Se non rispettiamo la carta finiremo per andare contro il senso delle cose e finiremo per non comprenderle. “Ti do carta bianca” o “fatemi leggere le carte” sono espressioni dalle quali è difficile liberarsi. Come al gioco della Morra, la carta perde contro la forbice di editori poco coraggiosi e lungimiranti, ma vince la sfida contro il sasso. Incartandolo, naturalmente.

    di Cinzia Leone