Memento Mori

Redazione

Le corpose motivazioni che la Quarta sezione del tribunale di Palermo ha steso per spiegare l’assoluzione di Mario Mori e di Mauro Obinu, “perché il fatto non costituisce reato”, danno un colpo che dovrebbe essere decisivo al castello di carta su cui è costruita l’accusa sulla supposta “trattativa” tra stato e mafia. L’intento dell’accusa viene bollato in modo esplicito come una artificiosa costruzione volta a “fare apparire, attraverso facili dietrologie e impropri richiami moralistici, senz’altro complicità o connivenze gli sforzi di chi magari cercava in quei difficili momenti di evitare eventi sanguinosi”. Dietrologie e moralismi impropri: non si sarebbe potuto esprimere meglio.

    Le corpose motivazioni che la Quarta sezione del tribunale di Palermo ha steso per spiegare l’assoluzione di Mario Mori e di Mauro Obinu, “perché il fatto non costituisce reato”, danno un colpo che dovrebbe essere decisivo al castello di carta su cui è costruita l’accusa sulla supposta “trattativa” tra stato e mafia. L’intento dell’accusa viene bollato in modo esplicito come una artificiosa costruzione volta a “fare apparire, attraverso facili dietrologie e impropri richiami moralistici, senz’altro complicità o connivenze gli sforzi di chi magari cercava in quei difficili momenti di evitare eventi sanguinosi”. Dietrologie e moralismi impropri: non si sarebbe potuto esprimere meglio il difetto di fondo di una campagna giudiziaria e mediatica che pretende di riscrivere la storia di anni e di vicende terribili in base a pregiudizi infondati presentati come verità scomode ma incontrovertibili. Bisogna rendere agli imputati l’onore che meritano, non solo per la loro innocenza, ma anche per aver rifiutato la prescrizione cui avevano diritto per aver voluto invece affrontare una ennesima dura prova giudiziaria, che peraltro è solo al primo grado, visto che in Italia si possono appellare anche le sentenze di assoluzione.

    Un altro elemento che avrà un suo peso nelle procedure in corso è il giudizio contenuto nella sentenza sull’attendibilità dei “pentiti”, sulle cui testimonianze, oltre che su ricostruzioni speciose, si fondava l’accusa di aver favorito la latitanza di Bernardo Provenzano nell’ottobre del 1995 e in generale il teorema sulla Trattativa. Di tutti i dichiaranti si risontra una sostanziale inattendibilità e per qualcuno si ipotizza la “sopravvenuta esigenza di assecondare alcune ipotesi accusatorie, determinata dalla volontà di acquisire qualche benemerenza”, il che getta uno spiraglio di luce sulle oscure “trattative” tra procure e pentiti, probabilmente più reali di quelle ipotizzate tra stato e mafia. Sottoposte al vaglio di un giudizio di merito (che si è svolto per la scelta degli imputati), le ricostruzioni della procura sono risultate indifendibili e persino la decisione di trasformarle in accuse formali viene considerata in sostanza contraria ai principi giuridici: “Per un pubblico ministero e, a maggior ragione, per un giudice è questo un punto fermo sul quale non si può prescindere”. Il punto fermo è il rifiuto di trasformare ipotesi “che restano ipotesi” in fatti “sforniti di prova”. La chiarezza esemplare della sentenza è confortante per chi ancora ha qualche fiducia nella permanenza, a dispetto di tutto, di elementi di garanzia nella giustizia italiana. Una buona notizia ogni tanto serve a dar fiducia, non nello stato attuale della giustizia, ma nella possibilità di riportarla alle sue funzioni di verifica delle prove e non di moralizzatrice universale.