Quel che i tosti industriali tedeschi hanno strappato ai sindacati

Giovanni Boggero

Ieri pomeriggio, nella seconda giornata di interlocuzione con le parti sociali, il presidente del Consiglio, Enrico Letta, ha incontrato i vertici di Confindustria e dell’Associazione bancaria italiana (Abi). Due giorni fa era toccato ai sindacati – Cgil, Cisl e Uil – rimasti poco soddisfatti dalla mancanza di certezze sulla legge di stabilità in via di elaborazione. Già ieri mattina, il presidente degli industriali, Giorgio Squinzi, aveva anticipato le sue richieste: “Questa sera andrò dal presidente del Consiglio e gli dirò che per la riduzione del cuneo fiscale 10 miliardi sono il minimo per fare un salto di qualità e per dare una spinta alla crescita, 10 miliardi bisogna assolutamente trovarli, è fondamentale”.

    Ieri pomeriggio, nella seconda giornata di interlocuzione con le parti sociali, il presidente del Consiglio, Enrico Letta, ha incontrato i vertici di Confindustria e dell’Associazione bancaria italiana (Abi). Due giorni fa era toccato ai sindacati – Cgil, Cisl e Uil – rimasti poco soddisfatti dalla mancanza di certezze sulla legge di stabilità in via di elaborazione. Già ieri mattina, il presidente degli industriali, Giorgio Squinzi, aveva anticipato le sue richieste: “Questa sera andrò dal presidente del Consiglio e gli dirò che per la riduzione del cuneo fiscale 10 miliardi sono il minimo per fare un salto di qualità e per dare una spinta alla crescita, 10 miliardi bisogna assolutamente trovarli, è fondamentale”. Una cifra almeno doppia rispetto alle ipotesi di sgravio fatte circolare finora dall’esecutivo. Tanto che Letta, durante l’incontro, avrebbe comunque ribadito la necessità di un intervento per tenere sotto controllo deficit e debito pubblici, prevedendo dismissioni di asset di stato.

    Per ora, e nonostante i ripetuti richiami che nel dibattito pubblico si fanno alla riedizione italiana della grande coalizione che fu in Germania negli anni Duemila, le parti sociali si confermano distanti da quell’atteggiamento degli omologhi tedeschi che è stato così decisivo per portare a termine le riforme a Berlino. Quando gli imprenditori tedeschi, ormai più di una decina di anni fa, si trovarono dinanzi alla scelta se chiudere i battenti o spostarsi all’estero, alcuni di loro, tra tutti Martin Kannegiesser, allora potente leader della Gesamtmetall, l’associazione delle imprese metallifere e metalmeccaniche, scelsero di proporre al sindacato uno scambio tra salari e posti di lavoro, sperimentando anche forme di produzione innovative e metodi di contrattazione insolita. Insomma, prima ancora della politica, furono le parti sociali ad accordarsi su un nuovo tipo di Modell Deutschland. Sin dal discorso tenuto al Bundestag il 14 marzo 2003, il cancelliere socialdemocratico Gerhard Schröder aveva d’altra parte avvertito il mondo produttivo che “se le parti sociali non troveranno intese a livello aziendale, toccherà al governo intervenire”. E imprese e sindacati, dopo lunghe trattative, alla fine si accordarono. Come ha scritto la Bundesbank in un rapporto dell’ottobre del 2010, la Germania ha superato senza particolari drammi occupazionali la tempesta finanziaria del 2008-2009 per diverse ragioni. “Negli anni precedenti la crisi – spiega la Banca centrale tedesca – i contratti collettivi hanno introdotto clausole d’apertura tali per cui i contratti aziendali hanno potuto agganciare gli orari di lavoro e la retribuzione alle mutanti situazioni congiunturali”.

    Di norma, anche in Germania il contratto aziendale non può derogare al contratto collettivo di settore (Branchentarifvertrag), salvo che quest’ultimo non lo preveda espressamente. Oltre ai sempre maggiori spiragli lasciati aperti dai contratti collettivi, imprese di ogni dimensione hanno iniziato ad abbandonare le rispettive associazioni datoriali proprio per svincolarsi dall’applicazione dei troppo rigidi contratti di settore. Oggi si calcola che la metà dei lavoratori dell’ovest e tre quarti dei lavoratori dell’est sia occupato in aziende dove non è applicato il contratto collettivo del macrosettore di riferimento. Una rivoluzione dal basso che, insieme con una politica di moderazione salariale (vedi l’analisi pubblicata ieri sul ruolo dei sindacati), ha notevolmente migliorato la competitività del sistema-paese tedesco. La contrattazione decentrata, in qualche caso addirittura individuale, non ha comportato un livellamento degli stipendi verso il basso; anzi, come mostrano dati del 2010 dell’Institut der deutschen Wirtschaft di Colonia (IW), risalenti dunque a quando la crisi aveva già iniziato a mordere in tutta Europa,  le aziende che non applicano i contratti collettivi pagano un salario lordo medio mensile leggermente più elevato (3.127 contro 3.057 euro). Anche in uno studio del Forschungsinstitut zur Zukunft der Arbeit (Iza) di Bonn, uscito nel novembre del 2009, si leggevano parole di apprezzamento per il graduale processo di decentramento contrattuale che ha accompagnato la stagione delle riforme tedesche: “Così le parti sociali non hanno soltanto rafforzato la competitività della Germania, ma hanno anche dimostrato che cambiamenti sensati e accettabili sono possibili e non necessariamente devono trovare origine in Parlamento”.

    Poco dopo l’inizio del secondo mandato dell’esecutivo rosso-verde, nel 2003, scoppiò infatti un dibattito nell’opinione pubblica su efficacia ed efficienza dei contratti collettivi di lavoro, che in Germania vengono stipulati per macro-aree regionali, più o meno corrispondenti ai confini dei Länder. A quell’epoca la rigidità dei contratti era vista come uno dei principali motivi della scarsa attrattività della Germania come paese in cui investire. Nel marzo del 2003, l’allora presidente della Confindustria tedesca, Michael Rogowski, pronunciò una frase poi passata alla storia: “Bisognerebbe bruciarli tutti questi contratti collettivi!”. In Parlamento, la Cdu/Csu, insieme con i liberali dell’Fdp, aveva presentato proposte di legge per autorizzare la deroga dei contratti nazionali da parte di accordi aziendali adottati a maggioranza. Il cancelliere, invece, diede ancora un’ultima chance al sindacato per flessibilizzare la contrattazione. Nemmeno un anno più tardi, nel febbraio del 2004, Gesamtmetall (padronato) e IG Metall (sindacato), rappresentati da Martin Kannegiesser e Berthold Huber, firmarono il cosiddetto “Pforzheimer Abkommen” o Accordo di Pforzheim, dal luogo in cui si tenne la stipula del patto. L’intesa disciplinava i casi nei quali era possibile da parte dei contratti aziendali derogare a quelli collettivi regionali (in particolare in materia di orario di lavoro) e rappresentò la pietra miliare del nuovo sistema “spontaneo” di relazioni industriali che negli anni seguenti consentì alle imprese tedesche un forte recupero di produttività. Proprio grazie all’Accordo di Pforzheim, il sindacato IG Metall ha calcolato che, solo tra il 2004 e il 2007, siano stati salvati almeno diecimila posti di lavoro e realizzati investimenti per più di trecento milioni di euro.

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