Quello che Zucconi non ha capito della famigerata “grande minaccia dei social network”

Federico Tarquini

Georg Simmel, grande maestro del pensiero filosofico e sociologico novecentesco un giorno tuonò: “Meravigliosa è la sobrietà dell’ubriaco, atroce l’ubriachezza del sobrio”. Questo splendido aforisma è il primo pensiero che viene alla mente leggendo l’articolo di Vittorio Zucconi, pubblicato domenica su la Repubblica e molto condiviso in questi giorni sulla rete, intitolato “No Social gli intellettuali contro la Rete”. Niente di offensivo, sia ben chiaro. Soltanto crediamo che gli autori e le teorie convocate nell’articolo per descrivere il famigerato mondo dei social network, ci restituiscano una loro immagine a tratti affranta da una “ubriaca sobrietà”.

    Georg Simmel, grande maestro del pensiero filosofico e sociologico novecentesco un giorno tuonò: “Meravigliosa è la sobrietà dell’ubriaco, atroce l’ubriachezza del sobrio”. Questo splendido aforisma è il primo pensiero che viene alla mente leggendo l’articolo di Vittorio Zucconi, pubblicato domenica su la Repubblica e molto condiviso in questi giorni sulla rete, intitolato “No Social gli intellettuali contro la Rete”. Niente di offensivo, sia ben chiaro. Soltanto crediamo che gli autori e le teorie convocate nell’articolo per descrivere il famigerato mondo dei social network, ci restituiscano una loro immagine a tratti affranta da una “ubriaca sobrietà”. Leggere tutti insieme gli anatemi contro la Rete dei vari, Morozov, Franzen, Pynchon, Wolfe, provoca un certo disagio a chi nei “frattempi” del proprio quotidiano è su Facebook o su Twitter. Ti senti preso di mira, additato di stupidità, perfino colpevole del declino degli intellettuali e della cultura. Sarà, ma quando Zucconi ci ricorda che questi autori hanno saputo leggere nelle pieghe del World Wide Web – nientemeno – “l’ineffabile banalità, e la dispotica stupidità dell’intelligenza collettiva” vieni scosso da un sussulto, ed è arduo non provare il desiderio di reagire. In verità, anche lo stesso Zucconi, nel seguito dell’articolo, sottolinea l’eccessiva tecnofobia degli studiosi citati, finendo però per ammonire il lettore sulla necessità di non “licenziare le loro preoccupazioni come stizza dell’intellettuale individualista, che si deve misurare con la stoltezza fragorosa dell’intelligenza collettiva”. Certo: snocciolare aggettivi come “stolto”, “banale”, “stupido”, e via dicendo, per descrivere le modalità con cui miliardi di persone vivono i social network non pone la discussione su un terreno propriamente pacifico e degno di essere preso in considerazione. Tuttavia, noi stolti frequentatori dei social, siamo sportivi e proveremo a portare i nostri pensieri in un campo differente: più ampio. Le teorie su cui si poggia il ragionamento proposto nell’articolo di Repubblica hanno il difetto di prendere per buone solo alcune delle domande sollevate dal così detto “universo del Web” (formula genericamente usata da chi affronta le tematiche del Web senza capire quasi nulla di come funziona il Web). Una ristretta serie di questioni che possiamo ricondurre alle dicotomie potere/sfruttamento, libertà/controllo, vero/falso, cultura/barbarie.

    E’ lo stesso Zucconi a ricordarcelo: “C’è il sospetto che l’apparente libertà espressiva del World Wide Web sia soltanto la manifestazione di una nuova forma di controllo, di divisione e di sfruttamento, nell’apparenza dell’universalizzazione”. Crediamo al contrario che il senso della Rete, e prima ancora degli altri media, non possa essere ridotto solo a controversie di questo tipo. Ed è oltretutto pretestuoso che chi non ha esperienza delle forme sociali tipiche del Web, perché le rifiuta a priori, arrivi a conclusioni, diciamo così, tranchant. Tematizzare la questione dei new media nei termini di una dialettica tra i “giulivi adepti della socializzazione virtuale” e l’intellettuale tecnofobico, nauseato da Facebook e Twitter, è un modo di ragionare che non ci porta lontano. Pensare i media come semplici strumenti di comunicazione, come scatole vuote da riempire con i “giusti” contenuti, o addirittura come mezzi di dominio, lascia colpevolmente inesplorata la dimensione del pubblico. E allora uno si chiede: ancora a questo siamo? Al contrario, è necessario esplorare il territorio in cui vive il telespettatore, il consumatore, e oggi lo user, poiché è in questa zona nevralgica che i media agiscono e vengono agiti. Sottovalutare tale aspetto è quanto mai delittuoso, proprio oggi che le modalità comunicative della rete permettono ad un numero crescente di persone di prendere la parola. Il vigore e la convinzione con cui nell’articolo vengono denunciati gli effetti perversi dei social network, ci fa venire il sospetto che il vero scopo sia preservare una condizione sociale ormai messa in discussione dal corso stesso della storia. L’engagement con cui alcuni intellettuali si scagliano contro i media, denunciando la presunta falsità delle loro culture di riferimento – prima quelle di massa, poi quelle televisive e infine quelle digitali – è un modo di autolegittimare un potere di controllo sulla società ormai quasi del tutto sfumato. Il timore che per la classe dei colti, o almeno per la versione che di questa categoria è stata data nel Novecento, sia ormai finita l’epoca in cui potevano legittimamente indirizzare i costumi sociali è più che fondato. Lo nota proprio Zucconi quando descrive quanto sia angosciante per “questi magnifici alchimisti della parola” confrontarsi con “la stupida spensieratezza di pensierini elementari sparati a decine di migliaia di follower e scambiati come perline senza valore”. Fatto che, secondo il direttore di Repubblica.it, li condanna a perdere il controllo del discorso collettivo. Ora, il punto è: siamo sicuri che senza la mediazione di questo tipo d’intellettuali siamo destinati a un collettivo istupidimento? Che il discorso collettivo, una volta sfuggito dal loro controllo, sia peggiore? E soprattutto, che senza le loro regole, si finisca per precipitare nell’assenza totale di regole? Forse è tempo di riequilibrare il tiro e accettare serenamente che il tempo passa, le cose cambiano, e si diventa vecchi. L’unica cosa saggia a questo punto è lasciare un po’ di spazio a chi viene dopo di noi. E convincersi una volta per tutte che continuare ad autolegittimare un potere di controllo sulla società che ormai è quasi del tutto sfumato è come pensare che le guerre si possono ancora vincere usando le fionde.

    *L'autore di questo articolo è docente di Culture digitali e social media presso l’università della Tuscia