La malattia saudita

Carlo Panella

Le convulsioni di Barack Obama sulla crisi siriana hanno molte cause. Tra queste, non ultima, c’è la “tabe saudita”, subdola patologia che veicola dalla corte di Riad verso Washington una massa di ricatti, menzogne, informazioni deformate, suggestioni che avvelenano da settant’anni la politica mediorientale americana. E’ difficile credere che una dinastia di vecchi sovrani corrotti e incapaci, dalla vita tanto scandalosa all’estero quanto pia e ipocrita in patria, possa condizionare per decenni la Casa Bianca. Ma così è.

    Le convulsioni di Barack Obama sulla crisi siriana hanno molte cause. Tra queste, non ultima, c’è la “tabe saudita”, subdola patologia che veicola dalla corte di Riad verso Washington una massa di ricatti, menzogne, informazioni deformate, suggestioni che avvelenano da settant’anni la politica mediorientale americana. E’ difficile credere che una dinastia di vecchi sovrani corrotti e incapaci, dalla vita tanto scandalosa all’estero quanto pia e ipocrita in patria, possa condizionare per decenni la Casa Bianca. Ma così è. Questa sindrome velenosa ha offuscato il presidente americano, così come offuscò l’ex presidente francese Nicolas Sarkozy, in modo assieme semplice e contorto – tipico dell’ars politica dei Bin Saud.

    I prodromi di quest’ultimo attacco patogeno risalgono al maggio 2008, quando, con l’abituale impronta avventurista, re Abdullah e la corte di Riad decidono di eliminare con un colpo di forza Hezbollah dalla scena governativa libanese. I sauditi ritengono che la Siria di Bashar el Assad, indebolito dai contraccolpi dell’inchiesta dell’Onu sull’omicidio dell’ex premier Hariri, possa essere ferita a morte sottraendole del tutto il patrocinio politico sul Libano, dopo averla costretto alla umiliante ritirata di quello militare. Riad punta a uno showdown a Beirut per indebolire l’asse Damasco-Teheran, e imporre la propria egemonia su tutto il medio oriente. Da sei mesi Beirut è in piena e drammatica crisi politica perché è scaduta la presidenza di Emile Lahoud e non si riesce a eleggere il successore. L’antisiriano Saad Hariri, leader del movimento “arancione” del 14 marzo, vuole governare il paese senza e contro il filosiriano Hezbollah, ritenuto complice dell’attentato che uccise suo padre Rafiq Hariri il 14 febbraio 2005. Hezbollah risponde da par suo: per ben 19 volte – con check point disposti intorno al Parlamento – impedisce fisicamente ai deputati di votare. Alla ventesima votazione però, si trova una mediazione sul nome del generale cristiano Michel Suleiman, capo delle Forze armate che diventa presidente. La tensione si scarica tutta sulla formazione del governo. Nota bene: Rafiq Hariri, come Saad Hariri, è anche cittadino saudita; tutte le milizie della guerra civile degli anni 70-90, tranne quelle di Hezbollah e di Amal, si sono disgregate. Questo significa che Hariri, Jumblatt, i Gemayel, il premier Fouad Siniora e i loro alleati hanno deciso questa svolta unicamente perché sono certi della efficiente copertura militare che gli emissari sauditi garantiscono loro.

    Così, il 6 maggio 2008 Fouad Siniora – nonostante sia in carica soltanto per gestire l’ordinaria amministrazione – ordina il black out di tutta la rete di telecomunicazioni di Hezbollah, che veicola messaggi criptati a un livello tale da risultare impermeabili alla formidabile Unità 8200 di Israele durante il conflitto del 2006 (causa non prima della quasi sconfitta di Tsahal). Oscurare la rete di telecomunicazioni di Hezbollah equivale a un tentativo di disarmarla: è una dichiarazione di guerra. L’esercito libanese è pronto al conflitto, o almeno una sua parte determinante, grazie alle rassicurazioni di Riad ad Hariri e Fouad Siniora. Invece l’esercito di Beirut non fa nulla, tradisce ogni aspettativa, nel giro di sole sei ore le milizie di Hezbollah circondano il quartiere sunnita di Beirut ovest – la city della comunità politica degli Hariri – e i quartieri sunniti di Zuqaq, Wata e Batrakieh, innalzando ovunque la bandiera verde di combattimento. Il golpe tecnologico tentato da Siniora, Hariri, Jumblatt e alleati su istigazione del padrino saudita è così schiacciato da un controgolpe ordinato dal leader del Partito di Dio, Hassan Nasrallah.

    Non c’è da stupirsi: l’avventurismo accompagnato a una viltà militare senza pari, le sconfitte più vergognose seguite dagli abbracci più ipocriti con gli avversari, sono il tratto distintivo della politica della corte saudita. La guerra del 1948 contro Israele fu voluta da Riad come dal Cairo, con la non piccola differenza che migliaia furono i soldati egiziani che vi parteciparono, mentre i sauditi rimasero a guardare. Così è stato nel 1967 nella Guerra dei sei giorni, così nel 1973 nella Guerra del Kippur; così nella guerra in Yemen che contrappose gli alleati dei sauditi a quelli degli egiziani. L’Arabia Saudita è da sempre tra i nemici più accesi di Israele, anche da un punto di vista ideologico (il libro di riferimento della corte di Riad sono i “Protocolli dei Savi di Sion”), ma il suo esercito non ha mai combattuto contro Israele, se non con battaglioni da operetta, sempre ben lontani dalla linea di fuoco.

    Sconfitta in Libano nel maggio del 2008, nella ennesima operazione avventuristica – con la pelle di altri leader arabi, non con la propria – l’Arabia Saudita passa alla tradizionale fase successiva: la Hudna, l’abbraccio “fraterno e storico” con l’avversario che ha evitato la pugnalata. Si aprono a Doha, in Qatar, intensi e burrascosi colloqui tra le fazioni libanesi, “oliati” al solito con mazzette saudite di qualche milione di dollari, e alla fine si arriva al compromesso. In Libano nasce un governo Hariri di coalizione con Hezbollah, e la politica saudita verso la Siria di Assad fa una conversione di 180 gradi, culminata nella “storica visita” di re Abdullah a Damasco per abbracciare Assad, il 15 aprile 2010.

    Nel frattempo la diplomazia saudita impiega la sua non piccola forza di persuasione geopolitica per convincere tutte le diplomazie mondiali della “svolta” riformatrice di Assad. Gli europei cascano in pieno nella trappola saudita. Soprattutto Nicolas Sarkozy – desideroso di irrobustire la sua fallimentare Union pour la Méditerranée – che non solo vuole a Parigi il dittatore siriano ma, in contrasto con Jacques Chirac e con i suoi generali, invita sul palco, al suo fianco, Assad ad assistere il 14 luglio 2009 alla sfilata sugli Champs Elysées. Sarkozy vuole così consolidare una partnership franco-siriana nella soluzione di tutte le crisi mediorientali. L’ex presidente francese non era isolato: apprezzamenti per l’indispensabile ruolo di mediazione della Siria di Assad (che Giulio Andreotti predicava da 20 anni) arrivarono in quei mesi da tutte le cancellerie europee (Italia inclusa).

    A Washington la corte di Riad non deve faticare per accreditare il ruolo di “riformatore” di Assad. Dal 2005 i democratici americani avevano sviluppato questa ben strana convinzione, in aperto conflitto con la “dottrina” dell’Amministrazione di George W. Bush che riteneva la Siria un “rogue state” e che aveva interrotto le relazioni diplomatiche con Damasco nel 2004. Si era giunti così alla provocatoria decisione di Nancy Pelosi, speaker del Congresso, non soltanto di recarsi in visita a Damasco, ma anche – in aperta e inusuale polemica con l’Amministrazione – di rilasciare dichiarazioni entusiaste sul suo interlocutore. Vinte le elezioni nel novembre del 2008, Barack Obama, rincuorato dal consenso saudita sul ruolo di Assad, sviluppò il suo discorso al mondo islamico tenuto il 4 giugno 2009 nell’Università coranica di al Azhar al Cairo, proprio puntando sulla carta siriana per risolvere tutte le aree di crisi, da quella israelo-palestinese a quella sul nucleare iraniano. La Siria diventa il baricentro di tutti i progetti obamiani di pacificazione in medio oriente e di dialogo con l’Iran. La foto del 2010 che ritrae John Kerry in amichevole e conviviale colloquio con Assad e consorte a Damasco deve destare scandalo per il marchiano errore di valutazione “riformista” dell’interlocutore che evidenziava, non certo perché è un ovvio obbligo di stato sedersi a tavola con un dittatore. La totale incomprensione del ruolo e della strategia di Assad da parte dell’Amministrazione Obama è poi confermata dal segretario di stato Hillary Clinton. Intervistata da Lucia Annunziata il 7 maggio del 2011, a fronte di non meno di settemila vittime mietute a Deraa dalla IV Divisione di Maher al Assad, la Clinton disse: “La situazione in Siria è complessa e dolorosa, ma sappiamo che Damasco può ancora attuare le riforme e crediamo che ci sia un futuro possibile. Assad non è Gheddafi”. Parole sconvolgenti lette oggi, a pochi giorni dalle dichiarazioni di Kerry che finalmente ha preso atto che “Assad è come Hitler”.

    Gli errori compiuti in queste settimane da Obama vengono da lontano, hanno un concreto spessore. La stessa apposizione della “linea rossa” sulle armi chimiche a cui il presidente si è appeso incautamente discende dalla incapacità sua e del suo staff di comprendere non solo quando, ma perché, per quali dinamiche, Assad aveva oltrepassato la linea che lo equiparava a Gheddafi (e a Hitler…). Con un’aggravante. Dall’inizio del 2012 Riad non solo ha iniziato a inviare finanziamenti e munizioni ai ribelli siriani, ma ha cessato di accreditare Assad come riformatore e interlocutore valido.

    A Washington, a quel punto, nessuno ha avuto la più pallida idea di come rapportarsi alla crisi siriana e tutta l’Amministrazione si è “seduta” sulla linea attendista di una centralità dell’Onu che copriva la totale mancanza di strategia. Sino a quando, come spesso hanno fatto i presidenti democratici, a partire da Kennedy con il Vietnam, le politiche del “dialogo” non si sono ribaltate in impegno bellico. Salvo poi impantanarsi in quella trappola che sono gli accordi di Ginevra Kerry-Lavrov che hanno il non piccolo difetto di essere conclusi non solo senza, ma addirittura contro, tutta la leadership della rivoluzione siriana, con evidenti, disastrosi effetti sulla loro praticabilità sul terreno.

    Naturalmente questa “tabe saudita” non è una patologia che si trasmette nell’etere, ma viene veicolata da intensi contatti umani che investono le varie Amministrazioni americane a partire dagli anni Trenta. Obama ne è stato contagiato dal contatto con due personaggi di primo piano per la sua Amministrazione: John Brennan e Bandar bin Sultan. Brennan è oggi il capo della Cia e si è formato sul campo proprio in Arabia Saudita e con i sauditi, tanto che condivide con i wahabiti della corte di Riad l’impostazione ideologica dell’antiterrorismo. “L’islam ha contribuito a formare la mia visione del mondo”, dice sovente. Come i sauditi, Brennan nega che i terroristi siano parte dell’islam, ma li considera delinquenti comuni e si avventura in definizioni sconcertanti: “Non possiamo descrivere il nostro nemico come ‘jihadista’ o ‘islamista’ perché il jihad è una lotta santa, un principio legittimo dell’islam, che significa purificare se stessi o la propria comunità, e non c’è nulla di santo, o di legittimo o di islamico nell’uccidere uomini innocenti, donne e bambini. Dobbiamo definirli ‘estremisti’ e non ‘jihadisti’, perché questo termine definisce chi lotta per un obiettivo sacro, dà a questi assassini la legittimità religiosa che cercano disperatamente e suggerisce che gli Stati Uniti sono in guerra con la religione dell’islam”. E’ l’ennesimo esempio della capacità saudita di egemonizzare – con teorie assurde come quella sopra riportata – i gangli stessi delle Amministrazioni americane. Brennan ha frequentato per un anno l’Università americana del Cairo, dove ha appreso l’arabo ed elementi generali – e generici – dell’islam, poi ha lavorato al Centro del controterrorismo della Cia per il medio oriente (inclusa la fase di Desert Storm), e nel 1995 è diventato capo missione della Cia a Riad e ha condiviso col Mukhabarat saudita, allora diretto dal principe Turki bin Faisal, informazioni sull’attentato alle Torri di Khobar del 25 giugno del 1996. Questi intensi rapporti di collaborazione con i sauditi sono stati preziosi per Brennan, divenuto consigliere per l’antiterrorismo di Barack Obama, per la costruzione della base segreta in territorio saudita da cui partono i droni diretti verso lo Yemen, la Somalia, l’Afghanistan, il Pakistan. La strategia di contrasto al terrorismo imperniata essenzialmente sull’impiego dei droni ha un profondo risvolto dottrinale che giudica il fenomeno separato da una dinamica religiosa islamica (invece evidente e acclarata), relegandolo a una dimensione essenzialmente criminale. Se non c’è alcun rapporto tra l’islamismo e il terrorismo islamico, vale un’azione di contrasto dispiegata con i più raffinati e tecnologici sistemi e mezzi di repressione nei confronti di una banda criminale: in primis, l’eliminazione dei suoi dirigenti.

    Brennan ha svolto un ruolo chiave anche nelle dinamiche della crisi siriana in stretto raccordo con i suoi storici interlocutori di Riad. Tra questi sicuramente vi è Bandar bin Sultan, dal 19 luglio 2012 capo del Mukhabarat, e quindi suo omologo diretto, che però è in grado di influenzare centri decisionali americani ben più importanti della Cia. Ambasciatore a Washington dal 1983 al 2005, azionista di molte aziende americane, titolare di un enorme patrimonio personale (la sua villa ad Aspen, Colorado, valeva 131 milioni di dollari), Bandar ha trattato per 20 anni tutte le forniture militari statunitensi a Riad, dove suo padre era ministro della Difesa, quindi l’acquirente, è stato coinvolto in tutte le strategie petrolifere americane ed è amico personale di George W. Bush, come di tutti i leader politici, economici, finanziari e militari degli States. Non ha alcun problema a veicolare i messaggi politici che Riad desidera far arrivare alla Casa Bianca, in modo da condizionare le scelte delle Amministrazioni. Il potere di ricatto dei sauditi – tramite Bandar bin Sultan – è enorme: oltre alle esportazioni di petrolio saudita negli Stati Uniti e al controllo di migliaia di miliardi di petrodollari a Wall Street, nel 2012 Riad ha comprato armamenti negli Stati Uniti per 34 miliardi di dollari. Nei quarant’anni che ci separano dal 1973 (boom dei petrodollari), il sistema militare americano ha venduto all’Arabia Saudita armamenti per una cifra che supera di sicuro i 600 miliardi di dollari (a valore attuale).

    L’intreccio tra servizi segreti di Washington e Riad, fra contratti petroliferi e vendita d’armamenti, è distintivo in tutti i personaggi chiave di collegamento tra i due paesi, a partire dal primo: John Philby. A differenza del figlio Kim Philby che, agente dei servizi inglesi, tradì l’Inghilterra a favore dell’Urss, John Philby nella sua lunghissima permanenza in Arabia Saudita tradì sempre l’Inghilterra (evidentemente vocazione di famiglia) ma a vantaggio degli Stati Uniti, con scabrose parentesi a favore della Germania nazista. Agente del governo inglese e poi del MI6, inviato in medio oriente e in Arabia Saudita, Philby si attivò per favorire la vittoria di Ibn Saud nelle sua lotta contro i sovrani Hashemiti, sostenuti da Londra e da Lawrence d’Arabia che infine persero il controllo della Mecca. Divenuto intimo amico di Ibn Saud una volta fondato il regno dell’Arabia Saudita (1932), Philby si distinse per una intensa attività antisionista e soprattutto perché l’Aramco fornisse il petrolio saudita agli Stati Uniti, anziché al suo paese, non senza avere favorito in precedenza – pare tramite Adolf Eichmann – una fornitura di petrolio attraverso la Spagna alla Germania nazista. Durante la permanenza a Riad come fidato consigliere e amico personale di Ibn Saud, Philby ebbe stretti rapporti con John Foster Dulles (che fu anche avvocato della Chevron nei suoi rapporti con l’Aramco), Allen Dulles (allora diplomatico e poi membro e infine direttore della Cia), Prescott Bush, padre di George Bush e nonno di George W. Bush. Questi personaggi hanno avuto effetti perversi sull’azione mediorientale dell’America, iniziando con l’opposizione alla nascita dello stato di Israele, continuando con la follia di rompere con Nasser sulla diga di Assuan per poi contrastare la giustissima guerra condotta da Francia, Inghilterra e Israele sul canale di Suez nel 1956. Il tutto col risultato di ottenere il petrolio arabo, ma anche di “regalare” all’Urss l’alleanza con tutti i paesi arabi le cui leadership erano state alleate a suo tempo col nazismo. Regalando a Putin un peso in medio oriente ben più importante della sua consistenza di potenza regionale, Obama propone al pianeta una specie di “déjà-vu”.