I calcoli siriani di Teheran

Tatiana Boutourline

Dopo una settimana in cui l’esigenza di mandare un messaggio all’Iran atomico ha fatto da corollario a quasi tutte le perorazioni dell’Amministrazione Obama sullo strike contro la Siria, martedì sera Hassan Rohani ha rassicurato gli iraniani. La probabilità di un intervento contro Damasco è diminuita, “certo non del 100 per cento ma è diminuita” e così, momentaneamente archiviato lo spauracchio siriano, il presidente iraniano è tornato a presentare ricette per la salvezza economica e profferte diplomatiche con l’aria del secchione che ha appena dimostrato la sua superiorità al primo compito in classe.

    Dopo una settimana in cui l’esigenza di mandare un messaggio all’Iran atomico ha fatto da corollario a quasi tutte le perorazioni dell’Amministrazione Obama sullo strike contro la Siria, martedì sera Hassan Rohani ha rassicurato gli iraniani. La probabilità di un intervento contro Damasco è diminuita, “certo non del 100 per cento ma è diminuita” e così, momentaneamente archiviato lo spauracchio siriano, il presidente iraniano è tornato a presentare ricette per la salvezza economica e profferte diplomatiche con l’aria del secchione che ha appena dimostrato la sua superiorità al primo compito in classe. Nelle stesse ore Barack Obama si è rivolto agli americani: ha ribadito che l’inazione nei confronti delle armi chimiche in Siria non è contemplabile, perché indebolirebbe, tra le altre cose, il senso della non proliferazione mondiale, il caso contro l’uso di tutte le armi di distruzione di massa, incluso ovviamente il nucleare di Teheran.
    Nel frattempo però “la modesta proposta positiva” (copyright Barack Obama) agguantata da Mosca il 9 settembre si è trasformata nel giro di 24 ore nell’iniziativa che ha il potenziale di “rimuovere la minaccia delle armi chimiche senza l’uso della forza” (sempre Barack Obama) e l’Iran non ha perso tempo a insinuare di aver avuto un ruolo tanto nella sortita del segretario di stato John Kerry tanto nell’arrendevolezza siriana nei confronti della “modest proposal”.

    Rohani ha parlato di “certi messaggi” partiti dal suo governo e il ministro degli Esteri, Javad Zarif, ha risposto “non al momento” a una domanda sull’eventualità di un dialogo diretto Teheran-Washington sulla questione siriana. Nella frenetica corsa della diplomazia iraniana per evitare uno strike che per l’Iran non sarebbe mai abbastanza “unbelievably small”, la cabina di regia con Baghdad, Mosca e Damasco è stato decisiva, ma altrettanto significativa potrebbe essere stata la ricerca di mediazione con la Casa Bianca intrapresa grazie ai buoni uffici del sultano dell’Oman e dell’inviato dell’Onu Jeffrey Feltman. Nei media iraniani non si parla che dei rumour sull’esistenza di una lettera di Obama a Rohani e il presidente iraniano cavalca l’onda: l’Iran è pronto a trattare, i primi colloqui con i 5+1 si svolgeranno già a margine dell’Assemblea generale dell’Onu, ma la finestra di Teheran (sì, quella di Teheran) non rimarrà aperta per sempre.

    Soltanto sette giorni fa le parole più gettonate dai commentatori per definire l’atteggiamento iraniano dinnanzi all’ipotesi di un attacco ad Assad erano “misura e autocontrollo”, i falchi facevano la voce grossa e il governo si muoveva come un funambolo su una corda tesa verso l’abisso. Rohani sa che tutto potrebbe ancora precipitare, ma mentre i tempi si dilatano la sua strategia sembra dargli ragione e offrirgli nuove carte nella partita contro i nemici interni. Secondo il quotidiano russo Kommersant, Mosca potrebbe riaprire la pratica congelata della consegna dei missili S-300 a Teheran (l’Iran pagò un acconto ma la vendita fu congelata su pressione americana nel 2010) e persino costruire un secondo reattore a Bushehr. Sarebbe un trionfo per Rohani, la prova che il soprannome “diplomat sheikh” non è casuale, che la “moderazione” può essere il nuovo canone di Teheran perché, come recita un proverbio persiano, arriva il giorno in cui “il diavolo deve vestire i panni dell’angelo”.
    Il 6 settembre l’ambasciatrice statunitense all’Onu Samantha Power ha difeso le ragioni dell’intervento in Siria al Center for American Progress. “A chi ci chiede perché non possiamo usare strumenti non militari per raggiungere lo stesso obiettivo, rispondo: perché abbiamo esaurito le alternative”.

    Nel descrivere i vari tentativi messi in atto nell’ultimo anno e mezzo per distogliere Assad dall’uso di armi chimiche l’ambasciatrice ha citato, tra le altre cose, la formazione di un team di ispettori Onu e la speranza che la loro presenza in Siria rappresentasse non soltanto un elemento deterrente, ma anche la base per una condivisione di dati tale da spingere Mosca e Teheran – a suo tempo vittima degli attacchi chimici di Saddam Hussein nell’acquiescenza internazionale – a staccare la spina ad Assad. Ma suggerire che lo scandalo di un regime che usa il sarin contro i suoi cittadini avrebbe potuto spingere l’Iran ad abbandonare Assad ha attirato facili ironie sulla neo ambasciatrice. “Ingenua” e “sprovveduta” sono stati gli appellativi più gentili riservati a Power, ma sta di fatto che a Teheran la questione delle armi chimiche si è trasformata in una guerra strategica tra fautori della linea dura e teorici del dialogo con la comunità internazionale e il sostegno ad Assad è stato per la prima volta messo in dubbio.

    Fino a un mese fa il rais di Damasco era la linea rossa dell’ayatollah Khamenei e la Siria veniva definita “la 35esima provincia iraniana”, ma dalla denuncia della mattanza chimica del 21 agosto, la sicumera è svanita. Dopo aver tanto fustigato la doppia morale occidentale, l’Iran si è arrampicato sugli specchi e ha parlato con la goffaggine di un ventriloquo in crisi d’identità: così se i pasdaran hanno ventilato la “guerra asimmetrica”, il presidente Hassan Rohani ha scelto un tono minimalista: “In caso di attacco l’Iran terrà fede al suo dovere religioso e umanitario – ha detto Rohani come parlasse di una calamità naturale e non dell’aggressione del Grande Satana verso la ‘nazione sorella’ – manderemo viveri e medicinali”. Il ministro degli Esteri Javad Zarif ha ammesso che “Assad ha commesso degli errori” e ha quasi assolto Obama “tratto in inganno dai guerrafondai”. Ma è stato ancora una volta lo squalo Hashemi Rafsanjani a far deflagrare le contraddizioni dell’establishment, dichiarando che gli attacchi al sarin sono stati perpetrati dal governo siriano e non dai ribelli o “terroristi” come vuole la vulgata pro Assad. Smentite, le parole di Rafsanjani sono riaffiorate in un audio in cui la voce molto riconoscibile dell’ex presidente lancia il suo mezzo j’accuse dando il via a  una ridda di interpretazioni messe poi nuovamente in questione da un’ennesima sconfessione. Ali Motahari, deputato conservatore (di orientamento pragmatico Teheran style), ha offerto un’interpretazione dell’audio incriminato: “Forse Rafsanjani è a conoscenza di fatti o documenti che dimostrano l’uso di armi chimiche da parte del governo siriano e desidera che l’Iran prenda le distanze”.

    A emergere però, al di là della solidarietà di facciata per il governo siriano, è il fastidio con cui le autorità iraniane vivono l’alleanza con Assad. L’ex ambasciatore a Damasco Mohammed Ali Sobhani ha scritto sul quotidiano Etemad che legare gli interessi nazionali iraniani alla questione siriana, “in una situazione in cui non sappiamo chi ha lanciato il gas contro i civili, è un errore”. Ci sono tre aspetti che pesano sull’imbarazzo iraniano nei confronti del rais di Damasco. Teheran non è Pyongyang e per quanto autoritario sia il regime sa anche di dover tenere in qualche conto gli orientamenti dell’opinione pubblica, come dimostra la vittoria di Hassan Rohani. Essere associata a un uomo che gira con una lettera scarlatta per aver commesso crimini contro il suo popolo in un Iran in cui le ferite del 2009 non sono ancora rimarginate, è un’onta per la leadership clericale.
    Il secondo fattore è il cortocircuito tra la crisi siriana e il programma atomico di Teheran. Dietro l’elezione di Rohani c’è l’accettazione da parte di Khamenei del fatto che, dopo lo sconquasso dell’èra Ahmadinejad, non vi era alternativa percorribile se non quella di una strategia diplomatica più misurata e dialogante. La scommessa di Rohani è quella di estendere la sua influenza non soltanto sulla forma della politica estera, ma piuttosto sulla sostanza, ossia vincere la sfida persa da Mohammed Khatami. Il trasferimento della responsabilità del dossier nucleare dal Consiglio supremo per la sicurezza nazionale al ministero degli Esteri guidato da Zarif potrebbe essere fumo negli occhi o rappresentare la prima traccia di questa opa di Rohani. E’ inevitabile che nell’articolare una risposta alla questione siriana, a Teheran orgoglio nazionale e status nella più vasta comunità sciita debbano essere misurati sulla stessa bilancia del consenso internazionale sbocciato intorno a Rohani, soprattutto in vista di un nuovo round negoziale nel corso del quale Teheran dovrà invocare la revoca delle sanzioni.

    Il terzo elemento che spiega il logoramento di parte della dirigenza iraniana nei confronti dell’intesa con Bashar el Assad è economico. Nel gennaio di quest’anno Damasco ha annunciato l’apertura di una linea di credito da parte di Teheran pari a un miliardo di dollari. A giugno l’Iran ha sborsato altri 3,6 milioni di dollari “per l’acquisto di prodotti petroliferi”. La dirigenza iraniana ha anche contribuito alla difesa di Assad con l’invio di aiuti militari convenzionali e no, nonché con l’addestramento di una forza paramilitare, Jaysh al Shabi, composta da 50 mila combattenti. La liberalità iraniana è motivata dalla necessità di preservare il potere di un regime che non è soltanto il suo unico alleato nella regione, ma anche l’indispensabile trait d’union con Hezbollah. Ciò nonostante, con l’economia iraniana in crisi (gli ultimi dati registrano una contrazione del 5,4 per cento dal 2012 al 2013 e un’inflazione al 44 per cento) e la Siria presumibilmente ancora più bisognosa di aiuto in caso di strike “l’Iran quanto rimarrà a guardare il precipizio? Se le cose si mettono male per Assad a quale punto potrebbe lasciar cadere la corda?”, chiede Mehrzad Boroujerdi, direttore del programma di studi mediorientali alla Syracuse University.

    Così, mentre la Siria comincia a venir descritta come il Vietnam dell’Iran, l’ipotesi che Teheran possa decidere un giorno che è meglio mozzare la testa del serpente (Assad) per salvare il corpo (un regime baathista che controlli la Siria, o almeno una porzione di Siria) non è più considerata così peregrina. L’onere di cambiare il calcolo strategico del regime viene addossato a Rohani, ma si tratta di un’aspettativa probabilmente esagerata che non tiene conto delle prerogative di Khamenei e del suo entourage né del ruolo determinante del capo di al Quds, Qassem Suleimani. “Chi fa il bello e il cattivo tempo in Siria non è Bashar el Assad ma il comandante Suleimani”, disse dopo la defezione e la fuga da Damasco l’ex primo ministro Riyad Hijab. La settimana scorsa in un discorso molto atteso all’Assemblea degli esperti il leader di al Quds ha confermato la linea ufficiale di Teheran: “Con Assad fino alla fine”.
    Diverse fonti però riferiscono anche l’esistenza di canali di comunicazione tra Suleimani e i ribelli, contatti complicati che tuttavia Teheran non può non esplorare per provare a tutelarsi dalla caduta di Assad. Nel frattempo, il generale dei pasdaran Ali Jafari si prende gioco delle rassicurazioni americane sull’“attacco limitato” vaticinando sventure per Washington, eppure anche la retorica dei falchi appare in qualche modo temperata dalle esigenze della realpolitik. Così mentre la dirigenza iraniana si barcamena calibrando prudenza da un lato e difesa della credibilità regionale dall’altro, resta agli alleati dell’internazionale sciita il ruolo di provocatori.

    Secondo un dispaccio dell’Associated Press datato 6 settembre le milizie filoiraniane sono pronte a rispondere a uno strike americano colpendo gli interessi statunitensi in Iraq. L’AP cita Wathiq al Battat, leader dell’Esercito di Mukhtar che rivendica “un buon livello di coordinamento con l’Iran” e assicura che in caso di attacco la reazione sarà forte. Al Battat rivela che il suo gruppo ha individuato migliaia di obiettivi sensibili in Iraq: bersagli direttamente riconducibili all’Amministrazione statunitense, ma anche a “società legate agli americani”. Altrettanto minacciose le Brigate dell’Hezbollah iracheno, la formazione finanziata dai pasdaran iraniani in cui al Battat si è fatto le ossa e la milizia di Asaib Ahl al Haq. Un esponente di quest’ultimo gruppo (già responsabile di attacchi contro le truppe americane prima del ritiro dall’Iraq) definisce il possibile strike contro Damasco un incendio che non risparmierà gli interessi degli americani e dei loro alleati nella regione. “Molte milizie armate sono pronte a entrare in azione” e secondo l’uomo non aspettano altro che il via libera da parte dell’ayatollah Khamenei. Alcune indicazioni ai militanti potrebbero già essere arrivate. Stando al Wall Street Journal, gli Stati Uniti avrebbero già intercettato un ordine partito da al Quds: colpire subito obiettivi americani in caso di strike alla Siria. Nel frattempo il dipartimento di stato ha invitato i cittadini americani a evitare tutti i viaggi “non essenziali” in Iraq e il quotidiano libanese al Akhtar scrive che Hezbollah (nella sua incarnazione libanese) ha mobilitato le sue forze: decine di migliaia di guerriglieri e riservisti sarebbero in attesa di una chiamata alle armi coordinata da Suleimani, Assad e il loro leader, Hassan Nasrallah.