Brava la min. Carrozza, non dice “choosy” ma sui giovani fa la vice Fornero

Ritanna Armeni

Non c’è bisogno di insultare i giovani dicendo che sono “schizzinosi” come ha fatto, quando era ministro del Lavoro, Elsa Fornero, per dire della difficoltà di trovare una occupazione. Non occorre neppure accusarli di essere “bamboccioni” come fece il ministro dell’economia Tommaso Padoa-Schioppa per denunciare gli ultratrentenni che non lasciavano la casa di mamma e papà perché, appunto, senza lavoro e senza reddito. Non è necessaria la patetica nostalgia di noi anziani che oggi sappiamo solo ricordare quanto, contrariamente “ai giovani di oggi”, ai nostri tempi eravamo attivi, entusiasti, intraprendenti e fortunati. E non c’è neppure da compatirli quei giovani perché loro “poveretti, non hanno un futuro”.

    Non c’è bisogno di insultare i giovani dicendo che sono “schizzinosi” come ha fatto, quando era ministro del Lavoro, Elsa Fornero, per dire della difficoltà di trovare una occupazione. Non occorre neppure accusarli di essere “bamboccioni” come fece il ministro dell’economia Tommaso Padoa-Schioppa per denunciare gli ultratrentenni che non lasciavano la casa di mamma e papà perché, appunto, senza lavoro e senza reddito. Non è necessaria la patetica nostalgia di noi anziani che oggi sappiamo solo ricordare quanto, contrariamente “ai giovani di oggi”, ai nostri tempi eravamo attivi, entusiasti, intraprendenti e fortunati. E non c’è neppure da compatirli quei giovani perché loro “poveretti, non hanno un futuro”. La noia colpevole delle frasi fatte sulle giovani generazioni è stata rotta a Cernobbio dalla ministra dell’Istruzione Maria Chiara Carrozza. “Mai più un laureato che arriva a 25 anni senza aver mai avuto un’esperienza come cameriere o assistente in libreria”, ha detto al Forum Ambrosetti. E allora ci vogliono tirocini, stage, studi e formazione, università e lavoro, libri e manualità, esami nella scuola e nella vita. Parole sante. E non solo perché sono le aziende a richiedere quali esperienze di lavoro prima della laurea abbia avuto un giovane da assumere, ma perché si deve affrontare “un deficit della nostra formazione universitaria”, ha detto la ministra. Lanciando un’accusa al modo in cui viene concepita la cultura e l’università, e – aggiungerei – anche alla nostra visione della vita, alla nostra cultura, al modo di educare i figli e i nipoti.

    Tante cose sono sottintese nelle sobrie parole della ministra dell’Istruzione che ci piace immaginare. Adolescenti che vanno a raccogliere i pomodori o l’uva prima dell’inizio dell’anno scolastico (modo eccellente per conoscere dal vivo i problemi dell’immigrazione), giovani liceali che la domenica lavorano in un ristorante, universitari che frequentano e conoscono le aziende anche per breve tempo. Periodi in cui la scuola si interrompe non per le settimane bianche ma per qualche tirocinio che renda più chiare le idee per il futuro. Stage nelle biblioteche dopo aver superato gli esami di storia. Periodi di lavoro anche umile nei laboratori scientifici dopo essersi impegnati in quelli di fisica e di chimica. Sperimentazione del lavoro manuale, delle sue possibilità creative, delle soddisfazioni che può dare. E anche università che non siano accademia senza esperienza, templi del tempo dell’attesa e dell’inutilità. Lo so bene, molte di queste cose sono impedite o non favorite da leggi che vogliono evitare sfruttamenti o illeciti guadagni sul lavoro dei giovani. E so anche bene, d’altronde, che finora stage, tirocini e formazione sono stati utilizzati, quando sono stati utilizzati, per avere un po’ di manodopera sotto costo. Ma proprio per questo il punto è eliminare il deficit della nostra formazione universitaria. E prima ancora il deficit culturale che la società del benessere ha creato nella testa di giovani e adulti. Quello per cui si può arrivare a diciotto anni senza saper cucinare un piatto di spaghetti, né lavarsi un paio di calzini. Non si sa cambiare una lampadina né piantare un chiodo. E al mercato non si sa riconoscere la frutta ben matura da quella marcia. E ci si può laureare sicuramente in ritardo, senza aver ancora riconosciuto quel che si vuole fare.

    Nei tempi dell’utopia c’era chi parlava di quattro ore di studio e quattro ore di lavoro per tutti, giovani e meno giovani. Di una formazione continua che non si abbandonava con il lavoro, di uno studio che non si interrompeva con la scuola. Era l’utopia appunto di fronte a un realtà che divideva nettamente il lavoro manuale da quello intellettuale, lo sfruttamento dal privilegio. Oggi che il mondo si è ribaltato non è più il sogno, ma la realtà a esigere un cambiamento. La ministra Carrozza l’ha detto senza offendere e insultare nessuno. Quindi con maggiore credibilità – e speriamo ascolto – di tanti supponenti professori.