Il giorno che fummo todos compañeros

Vi racconto il Cile che mi porto dentro da 40 anni

Stefano Di Michele

Però la voce, cazzo!, la voce tremava – e invece doveva essere alta, forte, indignata. Indignati lo eravamo tutti, ma la voce tremava per conto suo – la prima volta, si capisce. Faticava a uscire, si smarriva nell’aria. Tremavano pure le gambe. La causa era nobile, nobilissima; l’oratore inadatto, inadattissimo. Adesso come quarant’anni fa. “Pe primo hanno ammazzato er Presidente / che s’è difeso mejo d’un leone; / ma alla fine è caduto eroicamente: / la forza bruta ha vinto la raggione…”. Bandiere rosse/bandiere cilene/bandiere rosse/pugni chiusi/bandiere cilene.

Ferrara L’ingenuo Allende. Quanti errori dietro la favola bella della rivoluzione socialista

    Però la voce, cazzo!, la voce tremava – e invece doveva essere alta, forte, indignata. Indignati lo eravamo tutti, ma la voce tremava per conto suo – la prima volta, si capisce. Faticava a uscire, si smarriva nell’aria. Tremavano pure le gambe. La causa era nobile, nobilissima; l’oratore inadatto, inadattissimo. Adesso come quarant’anni fa. “Pe primo hanno ammazzato er Presidente / che s’è difeso mejo d’un leone; / ma alla fine è caduto eroicamente: / la forza bruta ha vinto la raggione…”. Bandiere rosse/bandiere cilene/bandiere rosse/pugni chiusi/bandiere cilene. Qualche innovativa caraffa di sangria – solo per azzardo di affinità linguistico/politica: ché Allende lo avevano ammazzato, ché Franco a Madrid invece non moriva mai. Disinteresse generale. “Poi se so scatenati dappertutto, / senza misericordia e senza pena; / er Cile l’hanno fatto vestì a lutto / e vònno mette ’r popolo a catena…”. Lì a fianco, improvvisato gruppo musicale borgataro-periferico, con fraterno soccorso dalle borgate contigue, accordava chitarre e agitava maracas – ché a questo l’incerta recitazione mirava, a permettere gli opportuni altrui accordamenti. Sarebbe così seguito, alla lettura poetica, volenteroso e temerario concerto con misto di “venceremos venceremos / sembraremos las tierras de gloria, / socialista será el porvenir” e “el pueblo unido jamás será vencido!” – che poi il povero “pueblo”, unito o sparpagliato, sempre “vencido” era, e sarebbe stato. Sapevamo tutto. Credevamo di sapere tutto. Però lo stesso, quarant’anni dopo, penso che almeno sapevamo l’essenziale: chi era la vittima, chi era l’assassino. “Ecco, questa der Cile è ’na lezzione / pure pe noi che stamo qui in Italia / e volemo portalla sta nazzione / ar socialismo senza la mitraja…”. Finita la composizione poetica, finito pure il fiato mio. Applauso di circostanza, subito coperto da vigorosa schitarrata che annunciava “avanti o popolo alla riscossa!”. Urla circostanti: “Viva il Cile!”. “Allende, Allende, el pueblo non si arrende!”. “Fascisti carogne!”. Una saggia anziana compagna soccorritrice mi allungò un bicchiere di Spuma Appia, democratica alternativa alla deprecabile imperial Coca-Cola. “Compagno, sei stato bravo…”. Fu l’unica a dirmelo. Ma era materna – ed era particolarmente impietosita.

    Avevo l’età minima per il futuribile PalaSharp, quel giorno che la mia militanza comunista, tra pubertà e adolescenza, debuttò sullo scalcagnato palco, minuscola manifestazione di paese di solidarietà col popolo cileno da un anno in mano ai gorilla di Pinochet. Dunque, 1974. “Tu che fai?”, mi chiese il compagno T., colonna della sez. “A. Gramsci” del Pci – autonominatosi “guardia rossa a sinistra del Tevere, più grande rivoluzionario del sud Europa, scienziato delle masse, professionista dell’amore”. Avevo appena finito le medie. “Farò l’istituto commerciale…”. “E chi se ne frega!”, disse il compagno T. “Che fai per la manifestazione del Cile?”. “Io? Niente. Però vengo…”. Allungò la mano verso il libretto su un tavolino, sotto la foto del soprannominato A. Gramsci. Lo aprì a pagina 11. “Tu leggerai ’sta poesia. Tanto sai leggere”. “Io?”. “Tu. E’ ora che cominci a fare qualcosa per il partito, compagno”. Quasi rideva, mentre diceva: compagno. Compagnino/compagnuccio/compagnetto. Quel libretto ce l’ho ancora: versi politici in romanesco firmati “Giordano” e pubblicati sul mensile della sez. Pci “Campo de’ Fiori” – sez. gloriosa, roba con iscritti da Comitato centrale, da Direzione nazionale – chissà come finito dalle nostre parti. “Ma io non so parlare davanti alla gente”, dissi. “E mica devi parla’, devi legge’! Che ci vuole?”. Provai, riprovai. Quasi quarant’anni dopo, quei versi ancora li ricordo meglio di “o Valentino vestito di nuovo” e “la nebbia agli irti colli”. Mi buttai sulla causa del Cile. Tutti eravamo per il Cile, allora – e il Cile ci è rimasto dentro, ha dato l’imprinting a ciò che ognuno di noi poi diventerà: come a Cioc e Martina, le papere di Lorenz. Tutti cileni, fummo, todos compañeros. La Moneda in fiamme, i baffi di Allende, l’ultimo discorso, il grugno di Pinochet, le facce padronali di Nixon & Kissinger, lo stadio pieno di vittime, le mani macellate di Victor Jara, “Gracias alla vida”, Pablo Neruda, il cardinale Henríquez, cordigliera, poncho, Inti-Illimani, nueva canción chilena, nuevo cinema popular, ITT, multinazionali, Cia, i sanguinari militari, i carabineros, Unidad Popular – “campesinos, soldados, mineros, / la mujer de la patria también / estudiantes, empleados y obreros”… Quarant’anni dopo quell’11 (primo) settembre (del 1973) è tutto ancora lì – certo con meno emozione (siamo diventati grandi e più accorti e forse più cinici) ma lo stesso incancellabile: ancora pagine e pagine sui giornali – nonostante altri golpe, altre carneficine, altro canagliume al potere. Ha la forza del mito, il Cile. Ben oltre la ragione, dicono. O forse proprio a ragione.

    Allende fu ucciso dai militari che assaltarono il palazzo presidenziale. Credevamo. O si è ucciso, pare, col suo mitra con l’iscrizione: “A Salvador, de su compañero de armas, Fidel Castro” – il mitra che stringeva tra le mani, un elmetto in testa, mentre quella mattina entrava per l’ultima volta alla Moneda, e gli aerei del golpista generale Guzmán cominciavano a bombardare: una foto che fece il giro del mondo. Ma comunque era lì, Allende, devastato dalle pallottole – lì, sul suo seggio di legittimo presidente del Cile, così da restare per sempre, nell’immaginario, il presidente del Cile. Mica era un re Faruk da esilio, Salvador Allende, mica un Fulgencio Batista (di suo golpista), mica un losco Trujillo. Era il presidente. Socialista. Legittimo. Del Cile. Ammazzato – dai fascisti ammazzato, dai militari ammazzato, dai padroni ammazzato, dagli americani (“cioè l’americani de Niujorche, / che vonno commannà sur continente / senza curasse de fa le cose sporche”, malamente recitavo io dal palco) ammazzato. Furono le facce a costruire, innanzi tutto, il mito – facce ancora faticosamente in bianco e nero, immagini che insieme sgranavano sangue e contorni. E le parole – che risentivamo, in quei primi anni Settanta, incise su disco, alla radio, amplificate alle manifestazioni. Le ultime parole di Allende, alla radio, dal Palazzo della Moneda, tra gli scoppi delle bombe: “Compatrioti!”. Pochi minuti – testamentari, però. E facevano lacrimare, cazzo!, lacrime e bandiere rosse. Che hombre vertical! Che compagno – el compañero presidente!
    (Dall’ultimo discorso di Allende: “Posto in questa situazione storica, io pagherò con la vita la mia lealtà al popolo e posso assicurarvi che ho la certezza che al grano che noi abbiamo seminato non si potrà mai impedire di germogliare. Costoro hanno la forza, essi possono ridurci in schiavitù, ma non è con i crimini, né con la forza, che si possono guidare i processi sociali. La storia è nostra, sono i popoli che la fanno… Io sarò sempre con voi e lascerò almeno il ricordo di un uomo degno che fu leale di fronte alla lealtà dei lavoratori. Il popolo deve difendersi, ma non sacrificarsi. Il popolo non deve lasciarsi schiacciare e annientare, ma non deve lasciarsi umiliare… In questi momenti oscuri e amari in cui il tradimento pretende di imporsi, sappiate che presto o tardi – io ritengo assai presto – si apriranno di nuovo le grandi strade dove passeranno gli uomini degni, per costruire una società migliore. Viva il Cile! Viva il popolo! Viva i lavoratori! Queste sono le mie ultime parole e io ho la certezza che il mio sacrificio non sarà invano, io ho la certezza che sarà almeno una lezione morale che condannerà la fellonia, la viltà, il tradimento”. Così parlò Allende, presidente del Cile da tre anni. Così parlò la giunta militare (la Junta), l’11 settembre: “La popolazione di Santiago deve restare in casa per evitare massacri di vittime innocenti”. Firmato: “Generale Augusto Pinochet Ugarte, Comandante in capo dell’esercito; ammiraglio José Toribio Merino Castro, Comandante della marina; generale Gustavo Leigh Guzmán, Comandante dell’aviazione; generale César Mendoza Durán, Comandante ad interim dei carabinieri” – quest’ultimo si era appena autonominato capo dei carabineros, e da Allende nel suo discorso definito “spregevole”).
    Le facce, si diceva. C’è un destino nelle facce – persino prima dei colpi di mitra, persino prima del crimine: la chiamano fisiognomica, deve avere un suo fondamento. La faccia di Allende era una faccia simpatica, da medico di famiglia, da professore di Applicazioni tecniche alle superiori. Faccia che la vita non inquieta, faccia perciò affidabile. A vederlo – grosso e tondo, un mite piccione sembrava. Aveva il mitra? Aveva estremisti matti nella sua maggioranza? Peccava di populismo? Erano quelli gli anni, i luoghi, le consuetudini. E poi, allora: o di qua o di là. E di là, appunto, c’era la faccia di Pinochet, Su Excelencia a massacro eseguito. Bruttissima faccia, faccia quasi iconografica da generale fascista golpista, ottima per un film di Petri o quello sui grotteschi colonnelli di Monicelli: occhiali neri, capelli impomatati all’indietro, baffetti da malvissuto di provincia, il collo della divisa che rigido sostiene il muso da beccamorto. Faccia secca e affilata, serpentina, adatta a scrutare dagli spioncini delle celle. Faccia da Dio-Patria-Famiglia – a toglier fiato a Dio e Patria e Famiglie tutte. “Il Merda”, ribattezzò il grande C. E. Gadda un suo consimile, “ciaveva na faccia de maccherone e de carogna giuntati insieme, incazzatissimo” – di quelli capaci di brancaleonate cupe, di spacconate comiche quando ancora non volgono al tragico. Genere proprio di Su Excelencia – tra cordigliera e corda per impiccare, “non si muove foglia in questo paese se non la muovo io”, “grazie a Dio, credo di tenere i pantaloni allacciati con il ferro”, “sono un tiratore scelto, dove miro colpisco”, “a volte la democrazia necessita di essere lavata nel sangue” – e lui fu sanguinosissima lavandaia, così da far sparire tutto il fiume d’acqua nel sangue. Così che effigie del perfetto golpista militar-fascista sempre sarà: meglio di un colonnello greco, meglio di un caudillo, meglio sempre di un patetico Tejero. Meglio – cioè peggio. Ecco a voi Su Excelencia Pinochet, per comodità e necessità e giusta definizione: El Carogna di quell’11 settembre 1973.

    Prima del Cile – del Cile si sapeva ben poco. Io, poi, niente. Il rame, il salnitro, le nazionalizzazioni. Dopo, fu un accorrere – dopo l’affogare nel sangue della “rivoluzione che sa di empanada e vino rosso” (Allende). Canti e poesie e fiorire di compagni in età da Fgci di colpo tutti bardati col poncho multicolorato – persino a disquisire (nella lotta si prende coscienza e sapienza) se era poncho chilote, quello che indossavano, o chamanto. Compagni esuli approdati in Italia che affogavano la malinconia preparando insalate di melograni per i compagni italiani – ed è faticoso assai, e lavoro assai di pazienza, sgranare melograni per un’insalata: tutti ammirati guardavamo, tutti un po’ annoiati guardavamo ancora, e du’ palle l’insalata di melograni!, perché compagno non prendi la chitarra e non ci canti “Venceremos”? Ma quello muto sgranava melograni, e allora gli altri della Fgci, in maccheronico spagnolo, s’inerpicavano faticosamente e solitari con chitarra e poncho: “Y ahora el pueblo / que se alza en la lucha / con voz de gigante / gritando: adelante! / El pueblo unido jamás será vencido!”. Anche nostrani cantautori politici si esercitavano sulla sorte del Cile e la fine eroica del suo presidente socialista: “E’ stato il popolo a darti in omaggio / questo tuo grande coraggio. / Questo coraggio che tu ora da morto / rendi al tuo popolo insorto. / Chi ti ha voluto render gli onori / sono milioni di lavoratori / di rivoluzionari…” (Fausto Amodei). Era pure disponibile un 33 giri, da ascoltare e riascoltare con comodo a casa, con bella intervista di Roberto Rossellini ad Allende: “Un socialista non poteva stare su altra barricata che quella dove sono stato io tutta la vita”. Però nella sezione del Pci non avevamo manifesti con Allende: sgattaiolai nella vicina sezione del Psi, e fraternamente discutendo, ne trafugai uno – mi sembrava più affidabile, la sua faccia, di quella del barbuto fascinoso e già declamato comandante Che. Ricordava quella di mio nonno, la faccia di Allende, e di mio nonno mezzadro e comunista io mi fidavo. Devotamente ci si recava nei cinema d’essai meglio attrezzati a rimirar l’opera del compagno regista Miguel Littín, da “La tierra prometida” ad “Actas de Marusia”: persino tre ore abbondanti, peggio che cavar semi per un’insalata da dieci melograni. La giovane supplente di italiano saltò vigorosamente il mortifero Vincenzo Monti, e ci instradò, virgulti militanti e poetici, verso Pablo Neruda – e certe sue poesie sulla guerra di Spagna: “Venite a vedere il sangue per le strade / venite a vedere il sangue per le strade / venite a vedere il sangue per le strade…”.
    (Neruda è perfetto poeta per amoreggiare in adolescenza e per formarsi coscienza politica negli stessi frangenti. Lo amammo subito – ancora lì sta, a una parte dell’esistenza consegnato. Sia che fosse fuoco d’amore: “Non t’amo come se fossi rosa di sale, topazio / o freccia di garofani che propagano il fuoco: t’amo come si amano certe cose oscure; / segretamente, tra l’ombra e l’anima”. Sia che fosse fuoco di politica: “Portava il popolo le sue bandiere rosse / e tra la gente sulle pietre che calcava / io mi trovai, nel giorno strepitoso / e sulle alte canzoni di lotta”. E poi la sorte che il mito consacra: il compañero poeta che muore pochi giorni dopo il suo amico compañero presidente, mentre la sbirraglia devasta la sua casa, le sue conchiglie, i suoi libri, il suo letto, i suoi quadri, le sue bottiglie colorate. E inonda quella casa di acqua e fango – il fango della terra e di quelle divise. Poi, al funerale, succede una cosa – che ci faceva piangere, in quel 1973, in una sorta di cupo orgoglio. Il racconto di Eduardo Galeano: “A tutti gli incroci si aggiungono persone che si mettono a camminare nonostante i camion militari irti di mitragliatrici e i carabineros e i soldati che vanno e vengono, su motociclette e autoblindo, che fanno rumore, che fanno paura. Da dietro qualche finestra, una mano saluta. Dall’alto di qualche balcone, sventola un fazzoletto. Oggi sono passati quattordici giorni dal colpo di stato, quattordici giorni di tacere e morire, e per la prima volta si ode l’Internazionale in Cile. L’Internazionale mugolata, pianta, singhiozzata più che cantata, finché il corteo diventa processione e la processione diventa manifestazione…”. Fu grazie alla supplente di italiano, e alle cronache dei giornali, che insieme ad Allende entrò Pablo Neruda nell’immaginario dell’adolescente del 1973).
    Per un mito è necessario sapere chi amare ed è necessario sapere chi odiare. Allende e Pinochet, i due attori principali sulla scena.

    Neruda, poi – tra gli amati. E tra gli amati anche il cantautore Victor Jara. Lo arrestarono e lo portarono allo stadio, insieme a migliaia di altre persone. Lo torturarono, gli ruppero le mani con le quali suonava la chitarra (“le mie mani sono tutto quello che ho / sono il mio amore e il mio sostegno”, cantava), lo trafissero con colpi di pistola. “Era abbandonato sopra una montagna di altri cadaveri – raccontò sua moglie – Sembrava un fantoccio, il corpo scomposto, le ossa fratturate, i vestiti strappati in più punti. Persino le mutande erano a brandelli. Solo il viso esprimeva ancora forza, nella smorfia di dolore. Gli occhi aperti, profondi, decisi: aveva guardato in faccia fino alla fine i suoi assassini”. Prima di morire, riuscì a far uscire altri versi, dallo stadio di Santiago dove le vittime attendevano la sorte: “E’ questo il mondo che hai creato, mio Dio? / Per tutto questo i tuoi sette giorni di riposo e di lavoro?”. Doveva lo stesso inquietare i sonni orrendi di Pinochet, la macellazione del suo cadavere – così fu ordinato non solo di vietare i suoi dischi, ma anche di distruggere le matrici: farlo sparire per sempre. Adesso lo stadio di Santiago, dove fu ucciso, si chiama “Stadio Victor Jara”.
    Da odiare c’era Nixon, il presidente americano: la faccia che pareva sempre unta, la barba sempre mal rasata. Amerikano col kappa, come le sue multinazionali, come la Cia, come i sabotatori che si aggiravano per il Cile di Allende. E Kissinger, il suo braccio destro: la faccia rosea, la barba sempre ben fatta. Un’intelligenza danzante sulla lama del cinismo, lama con cui ti trafiggeva: “Non vedo perché dovremmo restare con le mani in mano a guardare mentre un paese diventa comunista a causa dell’irresponsabilità del suo popolo. La questione è troppo importante perché gli elettori cileni possano essere lasciati a decidere da soli”.
    (Nel marzo del 1976, Oriana Fallaci intervista l’ex capo della Cia, William Colby – che pure si proclamava innocente. E anzi, per costui era Allende “che si comportava in modo antidemocratico”. Fallaci: “Ma che diavolo sta inventando, signor Colby?!? Ma come si permette di falsificare la storia così? Ma se la stampa di opposizione tormentò Allende fino all’ultimo!”. Colby: “Che Allende fosse democratico è una sua opinione personale. Lo dichiarava lui stesso di voler sopprimere l’opposizione, la borghesia. Sopprimere! Era un estremista, il suo Allende, un oppressore. Io lo so. Io ho buone informazioni”. Fallaci: “Se tutte le informazioni assomigliano a questa, signor Colby, capisco perché la Cia si rende così spesso ridicola. Ma io voglio sapere questo da lei che si batte in nome della democrazia: avendo vinto democraticamente le elezioni, Allende aveva o no il diritto di governare il suo paese?”. Colby: “Bè, ecco…”. Fallaci: “Non esiti, signor Colby. Mi risponda”. Colby: “Mussolini non vinse le elezioni? Hitler non divenne cancelliere della Germania grazie alle elezioni?”. Fallaci: “Lei non può essere così in malafede, signor Colby. Lei non può paragonare Allende con Hitler e Mussolini. Questo è fanatismo”. Colby: “Io non sono fanatico. Io credo in una democrazia liberale occidentale”. Fallaci: “In che modo? Ammazzando? Mi racconti dell’assassinio del generale Schneider, il capo di Stato maggiore di Allende”. Colby: “Noi della Cia avemmo pochissimo a che fare con l’assassinio del generale Schneider. Pochissimo…”, ecc. ecc. Da “Intervista con la storia”, di Oriana Fallaci, edizioni Rizzoli).
    Che pure di mattane ne aveva fatte, il governo di Allende. Gruppi di estrema sinistra come il Mir, i socialisti di Altamirano quasi più estremisti di loro, i comunisti filo sovietici di Corvalán. La nazionalizzazione di quasi tutto. Di là, lo sciopero dei camionisti che paralizzò il paese un anno prima del golpe (giugno ’72); la protesta delle donne del Barrio Alto – i quartieri bene: un “cacerolazo”, a colpo di pentole e casseruole. Operai che innalzavano cartelli con sopra scritto: “Questo è un governo di merda, ma è il nostro governo”. Altri che si lamentavano: “Il compagno Allende ha proceduto con troppa delicatezza. Non si accorge che queste mummie stanno di nuovo riempiendosi il portafoglio… Questo non può essere”. E del resto, anche Allende non era certo un socialista di quelli formato politicamente corretto di oggi. A un generale che il giorno del golpe gli chiese la resa, a nome di Pinochet, rispose: “Gli dica di non fare il finocchio e di venire a prendermi di persona – ma gli chiese pure, da medico, da prossima vittima, come stava il suo cuore”. Forse sarebbe tutto naufragato lo stesso, nella rivoluzione democratica del compañero presidente: bruciate le empanadas, a male il vino rosso. Però, i gangster al potere, ecco – i torturatori che nominavano Dio e Dio lordavano – questa non era accettabile contropartita. Se non per Nixon e Kissinger e il “signor Colby”. Nemmeno per il primate lo era, l’arcivescovo di Santiago Raúl Silva Henríquez – odiatissimo dai militari: aveva fatto assegnare dall’università cattolica la laurea honoris causa a Neruda, aveva celebrato un Te Deum il giorno della vittoria di Allende – che era massone, oltre che socialista. “Nel socialismo ci sono più valori evangelici che nel capitalismo”, disse Sua Eminenza. Così, nell’autunno del 1973, nella mia testa volenterosa e disordinata e adolescenziale di militante presero posto un presidente socialista, un poeta comunista e un cardinale primate.
    (Corriere della Sera, ottobre 1973. Reportage dall’inviato Goffredo Parise. “Santiago del Cile è una città in cui si può udire un grande silenzio interno. Esso emana dagli animi di un popolo che, oggi, non ha più alcun sogno di libertà. Questo silenzio interno è molto simile al silenzio che emana dal corpo di una persona amata e morta. Il corpo è lì, con tutte le sue illusorie forme, le parole e le azioni di un tempo, ma non parla e non agisce. Il silenzio non avvolge soltanto quel corpo ma anche i corpi di chi lo amò e ora vive, come il popolo cileno, soltanto perché non è tutto fisicamente morto. La persona morta e amata è Allende”).

    Cambiò pure la storia d’Italia, la storia del povero Cile in mano ai generali – e cambiò la nostra testa, oltre i cuori già mutati dalle cronache di quel settembre. Su Rinascita, Enrico Berlinguer scrisse tre poderosi saggi per spianare la via alla strategia del compromesso storico. “Ma non si può certo sfuggire all’altro grande problema costituito dalla esistenza e dalla forza di un partito politico come la Democrazia cristiana, che a parte la qualificazione di ‘cristiana’ che esso dà di se stesso, raccoglie nelle sue file o sotto la sua influenza larga parte delle masse lavoratrici e popolari di orientamento cattolico (…) L’errore principale da cui bisogna guardarsi è quello di giudicare la Democrazia cristiana italiana, e anzi tutti i partiti che portano questo nome, quasi come una categoria astorica, quasi metafisica, per sua natura destinata, in definitiva, a essere o a divenire sempre o ovunque un partito schierato con la reazione”. L’antico nemico che diventava più simile a noi – il gregge comunista spinto fuori dal tepore delle sezioni. “Quarche democristiano più cristiano…” – diceva già la poesia che mi fecero leggere, su quel palco.
    Poi, con gli anni, calò un po’ di silenzio, la frenesia si calmò, un principio di noia: anche le cose che sembrano epiche alla fine si dissolvono. Su tanto stornellare e cantare ed esibirsi, il genio di Lucio Dalla tirò una linea dritta – “la musica andina, che noia mortale / sono più di tre anni che si ripete sempre uguale”. Non ho più visto preparare insalate di melograni. Neruda si stanca sugli scaffali. Il socialismo non lo vuol fare più nessuno. I poster di Allende sono introvabili – quelli del Che si trovano. Nella testa, a volte, i versi che al cuore mirano di Violeta Parra – cantautrice cilena morta suicida per tristezza anni prima di Allende: “Grazie alla vita / che mi ha dato tanto, / mi ha dato il riso e mi ha dato il pianto…”. Polvere le vittime, polvere gli assassini. Il principale – il generale Augusto Pinochet Ugarte – morì a 91 anni. Purtroppo nel suo letto. Ma niente funerali di stato – come per la sua vittima Salvador Allende, presidente legittimo del Cile. Morì di mal di cuore, Pinochet. Curioso: perché tutti credevamo (crediamo, credo) che Su Excelencia non l’avesse – un cuore.

    Ferrara L’ingenuo Allende. Quanti errori dietro la favola bella della rivoluzione socialista