L'ingenuo Allende. Quanti errori dietro la favola bella della rivoluzione socialista

Giuliano Ferrara

Viene da me Stefano Di Michele, ormai un vecchio amico oltre che uno scrittore della Civiltà Fogliante, e mi dice che per l’anniversario del colpo di stato in Cile vuole scrivere una doppia pagina con i suoi ricordi di tredicenne comunista di famiglia e di partito. Io quasi svengo dal piacere, ma siccome i suoi sono i ricordi della retorica aperta e necessaria di un partito che allora stava dall’altra parte rispetto ai Kissinger, alle Cia e al governo americano, sono ricordi magici e musicali e sentimentali. I miei sono ricordi di un ventunenne di ambiente togliattiano, smagato, con illusioni realiste se così si può dire, sempre da quella parte, che però assimilò, a dimostrazione della estrema forza e flessibilità storica della doppia verità comunista, tutta un’altra versione delle cose.

    Viene da me Stefano Di Michele, ormai un vecchio amico oltre che uno scrittore della Civiltà Fogliante, e mi dice che per l’anniversario del colpo di stato in Cile vuole scrivere una doppia pagina con i suoi ricordi di tredicenne comunista di famiglia e di partito. Io quasi svengo dal piacere, ma siccome i suoi sono i ricordi della retorica aperta e necessaria di un partito che allora stava dall’altra parte rispetto ai Kissinger, alle Cia e al governo americano, sono ricordi magici e musicali e sentimentali. I miei sono ricordi di un ventunenne di ambiente togliattiano, smagato, con illusioni realiste se così si può dire, sempre da quella parte, che però assimilò, a dimostrazione della estrema forza e flessibilità storica della doppia verità comunista, tutta un’altra versione delle cose, una retorica di politica e di ragion di stato e di partito, quello che si discuteva nei gruppi dirigenti, con la Federazione romana del Pci, i compagni e la famiglia e gli amici della famiglia, i Pajetta eccetera.

    Il Cile del tredicenne Stefano è la libertà di decidere e la sovranità calpestate dall’imperialismo americano, quello di Giuliano figlio di Maurizio e di Marcella è la critica inflessibile dell’estremismo politico, del radicalismo ostile alle masse e al popolo, dell’incomprensione dei tratti nazionali necessari per una via al socialismo, dell’ingenuità come colpa antimachiavellica, come sentimento da anima bella al posto della ragione, tutta roba che portò poi alla proposta famosa del compromesso storico, “nuovo grande compromesso storico”, tra le componenti popolari della società italiana, insomma niente governi di alternativa democratica o di sinistra con il 51 per cento dei voti, bisogna allearsi con la Dc e con i laici di terza forza se si voglia riproporre temi socialisti in occidente, fare il contrario di Allende mentre ci si stacca gradualmente dall’Unione sovietica in una visione eurocomunista della battaglia comune. Cose che mi portarono un anno dopo fino all’approvazione di tremendi e consapevoli commenti pro Pinochet di Enzo Bettiza, coraggioso cofondatore di un quotidiano di destra, dall’altra parte della barricata da anni. Era il Giornale di Montanelli, quando il principe del giornalismo conservatore non era ancora comunista e non era edito da Berlusconi. Per non parlare, tanti anni dopo, del disgusto che provai per la persecuzione giudiziaria internazionale di Pinochet, che gli inglesi mandarono fallita con una decisione dell’esecutivo contro Garzón il giustizialista, imbarcando Pinochet per il Cile di forza, per ovvi motivi.

    Anch’io detestavo il generale dell’aviazione capo della junta, provavo orrore per gli stadi pieni di militanti della sinistra cilena, per le accuse di tortura eccetera. Naturale per me quel sentimento. Ma ero travolto dall’analisi razionale di quel che era successo. E in quel fuoco si sono formate molte idee che resisteranno nel tempo, anche nelle diverse incarnazioni che la storia italiana darà alle mie povere opinioni sulla politica.
    Primo, si diceva nel Pci interno, mentre quello esterno promuoveva la mobilitazione delle coscienze raccontata da Di Michele, Allende aveva poco più del trenta per cento dei voti, non la maggioranza.
    Secondo, Allende avrebbe dovuto cercare una alleanza strategica con la Democrazia cristiana cilena, invece di sfidarla con radicalismi vari e buttarla dall’altra parte.
    Terzo, l’esercito in quel paese era sempre stato custode della Costituzione, una delle più robuste e rispettate dell’America latina. Doveva essere considerato interlocutore ed entro certi limiti tutore del nuovo potere minoritario.
    Quarto, le masse mobilitate per il socialismo cileno ben presto si rivelarono minoranza chiassosa e inconcludente contro stuoli di camionisti che bloccavano il paese e massaie che sfilavano battendo i coperchi delle pentole, e questo perché il governo Allende aveva fatto di tutto per minacciare interessi popolari diffusi, la piccola proprietà dei cruciali mezzi di trasporto, e la borsa della spesa falcidiata dall’inflazione.
    Quinto, le classi dirigenti della sinistra erano inutilmente eroiche ed estremistiche, coltivavano un’idea di rivoluzione dal basso (lo storico Paolo Spriano a casa nostra parlava del sempre perdente “fronte unico dal basso”) che era in aperto conflitto con la strategia di una via nazionale al socialismo, fatta di alleanze sociali stratificate, di compromessi intelligenti con la società che riluttava ai cambiamenti riformatori non graduali, unidirezionali, basati sulla sola forza dello stato. Luis Corvalán, una volta scambiato con il dissidente sovietico Vladimir Bukovsky e liberato, venne a parlare nel teatrino di via dei Frentani della Federazione romana del Pci, e nonostante gli applausi e la solidarietà, anni dopo la tragedia, fece a tutti noi, dai dirigenti storici ai militanti giovani di un certo livello, l’impressione di un asino in mezzo ai suoni, di un comunista che aveva perso perché non era stato in grado di imporsi ai sindacati impazziti, al Mir o Movimiento de izquierda revolucionaria, al Partito socialista di Carlos Altamirano, che Pajetta considerava un coraggioso ma abietto demagogo. Risultato: un’immagine del nuovo potere minoritario, abbrancato ai valori della Costituzione, antinazionale, e una politica economica e sociale che aveva creato un esercito massiccio di nemici del cambiamento riformatore.

    Più tardi, liberato dalla sudditanza alla mia stessa scelta di fare il comunista e di esserlo, rivedrò anche il giudizio su Pinochet, che intanto aveva riavviato l’economia del paese con scelte di tipo thatcheriano, aveva rimesso in sesto le istituzioni sulla pelle e sul sangue delle sinistre represse con durezza militaresca, e alla fine aveva promosso il rientro della democrazia nel corpo della patria cilena, con l’aiuto di una Democrazia cristiana che non era mai stata messa fuorilegge, e con procedure referendarie da lui stesso rispettate nei risultati. Una personalità tragica, con ombre tremende e un ruolo storico tirannico, ma con quei chiaroscuri della storia che sono sempre stati il principio motore dell’interpretazione culturale dei “veri” e maturi comunisti di una volta, naturalmente all’insegna di un verità doppia e di un retorica doppia, che non doveva riguardare il tredicenne Stefano e le grandi moltitudini che ebbero raccontata solo nel suo lato solare la favola bella del presidente assassinato, dell’eroismo del popolo e della cattiveria dei tiranni e dei loro complici.

    • Giuliano Ferrara Fondatore
    • "Ferrara, Giuliano. Nato a Roma il 7 gennaio del ’52 da genitori iscritti al partito comunista dal ’42, partigiani combattenti senza orgogli luciferini né retoriche combattentistiche. Famiglia di tradizioni liberali per parte di padre, il nonno Mario era un noto avvocato e pubblicista (editorialista del Mondo di Mario Pannunzio e del Corriere della Sera) che difese gli antifascisti davanti al Tribunale Speciale per la sicurezza dello Stato.