America autonoma

Ugo Bertone

Correva il marzo del 2012 quando Edward Morse, professore a Princeton ma con una lunga esperienza al dipartimento di stato ai tempi di Carter e di Reagan, diede alle stampe un corposo studio dal titolo “Energia 2020: l’America sarà la nuova Arabia Saudita?”. Nel giro di sei mesi il professor Morse fu costretto a metter nel cassetto il suo lavoro per produrne uno nuovo di zecca, uscito a febbraio. Il titolo? “Energia 2020: the Independence day”. Non è escluso che l’accademico di Princeton, alla luce degli ultimi dati, debba esibirsi in una terza fatica. Gli Stati Uniti, infatti, stanno diventando la nuova potenza dell’export di greggio e gas.

    Correva il marzo del 2012 quando Edward Morse, professore a Princeton ma con una lunga esperienza al dipartimento di stato ai tempi di Carter e di Reagan, diede alle stampe un corposo studio dal titolo “Energia 2020: l’America sarà la nuova Arabia Saudita?”. Nel giro di sei mesi il professor Morse fu costretto a metter nel cassetto il suo lavoro per produrne uno nuovo di zecca, uscito a febbraio. Il titolo? “Energia 2020: the Independence day”. Non è escluso che l’accademico di Princeton, alla luce degli ultimi dati, debba esibirsi in una terza fatica. Gli Stati Uniti, infatti, stanno diventando la nuova potenza dell’export di greggio e gas.

    Tra il giugno 2012 e la metà del 2013 il saldo positivo della bilancia energetica americana è stato di 110,2 miliardi di dollari, circa il doppio del saldo precedente (51,5 miliardi). Una vera e propria rivoluzione, insomma, che gli Stati Uniti devono a pochi, ostinati animal spirits piuttosto che all’iniziativa dei grandi gruppi industriali o tantomeno della Casa Bianca. Molto si deve a Greg Mitchell, un anziano petroliere da poco scomparso che, a 79 anni suonati, decise di investire tutto quel che possedeva per perforare con le tecniche del fracking un pozzo in North Dakota. “E’ grazie a lui se oggi l’America è di nuovo indipendente”, si legge nella lettera che Daniel Yergin, la massima autorità in materia di greggio, ha scritto al presidente Barack Obama perché premiasse Mitchell con la Medaglia della Libertà, la massima onorificenza presidenziale. Ma la Casa Bianca, che ora non ha presa né polso sui paesi mediorientali dai quali dipendeva per il petrolio, non ha risposto in tempo: Mitchell, nel frattempo è scomparso e il presidente non ha dovuto affrontare le critiche dei Verdi, una fetta rilevante del suo elettorato; a conferma che questa rivoluzione avviene senza alcuna pianificazione. Anzi la politica, quando interviene, non lo fa per incentivare o programmare, ma per ostacolare o rallentare. L’Alaska è ancora in ampi tratti off limits per l’esplorazione, come buona parte della costa atlantica e pacifica.

    Lì, le esportazioni di greggio e di gas sono vietate, anche se il divieto viene aggirato esportando benzina e prodotti raffinati. Il greggio dei nuovi giacimenti viene trasportato in treno verso raffinerie lontane migliaia di chilometri perché la costruzione di nuovi oleodotti e gasdotti è boicottata da Washington anche quando le comunità locali non hanno obiezioni. “Se la Casa Bianca non ci ponesse sempre nuovi ostacoli – si lamenta con il Financial Times il vicepresidente della Us Chamber of Commerce Christopher Guith – potremmo davvero risolvere il problema del deficit commerciale”. Ma Obama, pur attento a non infrangere le regole del politically correct, non disdegna affatto i vantaggi che derivano dalla rivoluzione energetica: una posizione più forte sullo scacchiere internazionale, perché gli Stati Uniti dipendono sempre meno (o non dipendono affatto) dal petrolio mediorientale; circostanza che spiega anche se non giustifica l’impegno più distratto nell’area più calda del pianeta. Senza trascurare altri aspetti positivi (le difficoltà dell’economia russa, di riflesso al calo delle quotazioni del gas) o la minor baldanza dei sauditi che, per bocca del principe al Waleed, cominciano a parlare di possibile decadenza dell’Opec.

    Forse, prevalgono i vantaggi economici e politici sul fronte interno. Il minor costo dell’energia potrebbe favorire la promessa elettorale del presidente: ridare peso alla classe media impoverita dalla crisi e decimata dal trend demografico. Grazie al greggio cheap l’America potrebbe ridare slancio al suo manufacturing. Per ora i numeri raccontano che la crescita dell’export americano ha poco a che vedere con la riscossa dell’acciaio, dell’auto o della tecnologia, o di altri settori che hanno abbondantemente fatto uso dell’outsourcing in giro per il mondo. Il recupero della bilancia commerciale dipende, per ora, dall’esplosione delle esportazioni del greggio, di metalli e del bestiame.  E’ grazie a questi settori che l’export di Washington, a giugno, ha raggiunto quota 191 miliardi di dollari, un terzo in più del 2010, quando Obama aveva lanciato la sua sfida: raddoppiare i volumi esportati entro cinque anni. Ci riuscirà? 

    Per ora il greggio ha fatto la sua parte. Non è quello che s’aspettava il presidente. “Quando Obama parla di creare lavori per la classe media – dice Alan Tonelson, economista dello Us Business and Industry Council – non si riferisce certo al petrolio”. Eppure la sorte ha voluto che Greg Mitchell, figlio di un barbiere greco, gli regalasse una rivoluzione energetica.