L'Italia che va

Ugo Bertone

Finalmente. Uno dei gioielli famigliari del made in Italy, la Mossi & Ghisolfi di Tortona (M & G) ha deciso di quotarsi in Borsa. Ma non a Piazza Affari, bensì ad Hong Kong dove esordirà in autunno, forse già a settembre, con il marchio M & G Chemicals, con cui l’azienda piemontese si è imposta come leader mondiale del pet destinato agli imballaggi, per lo più di bevande e alimenti. Una decisione, quella di seguire le orme fortunate di Prada (più 90 per cento in due anni di permanenza nel listino asiatico), che, complice il Ferragosto, in Italia ha avuto un’eco modesta. Eppure Vittorio Ghisolfi, classe 1930, che giusto sessant’anni fa ha fondato l’azienda con il suocero non è un industriale qualsiasi.

Brambilla La relativa stabilità politica spinge la Borsa e attira gli investitori

    Finalmente. Uno dei gioielli famigliari del made in Italy, la Mossi & Ghisolfi di Tortona (M & G) ha deciso di quotarsi in Borsa. Ma non a Piazza Affari, bensì ad Hong Kong dove esordirà in autunno, forse già a settembre, con il marchio M & G Chemicals, con cui l’azienda piemontese si è imposta come leader mondiale del pet destinato agli imballaggi, per lo più di bevande e alimenti. Una decisione, quella di seguire le orme fortunate di Prada (più 90 per cento in due anni di permanenza nel listino asiatico), che, complice il Ferragosto, in Italia ha avuto un’eco modesta. Eppure Vittorio Ghisolfi, classe 1930, che giusto sessant’anni fa ha fondato l’azienda con il suocero non è un industriale qualsiasi: vicepresidente di Federchimica, grande aggregatore di aziende cedute negli anni da Montedison, Shell, Rhodia; simbolo, assieme a Giorgio Squinzi, della riscossa della chimica nostrana dopo i disastri di Enimont e dintorni. Possibile che uno così, con incarichi in Confindustria, scarti l’ipotesi di quotarsi a Piazza Affari? Oppure è la seconda generazione, i figli Guido e Marco, ad aver deciso per l’esodo finanziario? “Le ragioni sono due: il rapido tasso di crescita di M & G in Cina e nel Far East, innanzitutto. Ma, non meno importante, la Borsa italiana è troppo stretta per le ambizioni di quel collocamento”. Risponde così al Wall Street Journal, uno dei banchieri incaricati dell’operazione, tenuto al riserbo perché già è scattata la richiesta di quotazione. Una compagnia nutrita perché per M & G si sono mobilitati Deutsche Bank, Citi, Rothschild e, tanto per non tradire la matrice italiana, anche la meneghina Ambromobiliare. Un pool che dovrà raccogliere, secondo le indiscrezioni, almeno 500 milioni di dollari per finanziare lo sviluppo di questa multinazionale (neanche troppo) tascabile: 3 miliardi di dollari di fatturato, 3 mila dipendenti, il controllo del centro ricerche rilevato da Mitsubishi dove ha preso forma la scommessa del bioetanolo di seconda generazione, che utilizza come materia prima la paglia di scarto e non, come è accaduto finora, cereali e soia.  (segue dalla prima pagina)
    Produzione di carburante senza fare concorrenza alle colture alimentari, come capita per il bioetanolo derivato dalla canna da zucchero e dalla soia. Una scommessa che è diventata realtà a Crescentino, dove M & G ha rimesso in attività un’ex acciaieria Teksid assorbendo la manodopera espulsa dal ciclo siderurgico. Altro che fuga dall’Italia. Semmai, per avere un ruolo nell’economia mondiale, un’azienda italiana deve inserirsi nei flussi della ricerca, della produzione e dei servizi finanziari.

    Perché la ricerca nei laboratori di Rivalta, altra terra piemontese orfana di laminati ed acciai, dia buoni frutti, è necessario investire anche a Sharon Centre (Ohio) e a Pocos de Caudas (Brasile), per ottenere le migliori sinergie. Per garantirsi la leadership nel pet, insomma, non solo è necessario inseguire clienti e partner (tra cui Shell e Pepsi Cola) investendo in Messico, Brasile e Cina, ma anche mettersi al passo con i polmoni finanziari della crescita, le piazze ove si concentrano gli analisti specializzati nel settore chimico e le banche in grado di sviluppare business sul posto (e non solo). La scelta di M & G, al pari del matrimonio Fiat-Chrysler, non è un segnale di fuga dall’Italia, semmai una mossa per garantire una presenza italiana nelle dinamiche della crescita. In questi anni, secondo l’ufficio ricerche di Mediobanca, è avvenuta una rivoluzione copernicana: nel 2012 due terzi del fatturato dell’industria privata è stato realizzato all’estero (era il 53 per cento nel 2008). Gruppi come Luxottica, Pirelli o Danieli vendono oltre confine più del 90 per cento. Le due Americhe assorbono più della metà delle vendite di tutta l’industria manifatturiera (meno di un quarto cinque anni fa). La crisi, insomma, ha spostato il baricentro delle imprese. 

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