Lo schianto dei Fratelli, tutta lotta e niente governo

Carlo Panella

Nel giorno in cui vengono massacrati nelle piazze di Egitto, non è facile rimarcare le terribili responsabilità politiche dei Fratelli musulmani. Ma è indubbio che da due mesi la Fratellanza ha deciso a freddo di arrivare a questo sanguinoso esito, rifiutando pervicacemente qualsiasi ipotesi di ricomposizione politica di un conflitto in cui peraltro le sue ragioni di sostanza democratica sono forti. Mohammed Badie, il loro leader spirituale, nel suo primo comizio a Rabaa al Adawiya annunciò chiaramente che avrebbe contrapposto “la piazza dei martiri” alla “piazza dei Tamarrod”.

    Nel giorno in cui vengono massacrati nelle piazze di Egitto, non è facile rimarcare le terribili responsabilità politiche dei Fratelli musulmani. Ma è indubbio che da due mesi la Fratellanza ha deciso a freddo di arrivare a questo sanguinoso esito, rifiutando pervicacemente qualsiasi ipotesi di ricomposizione politica di un conflitto in cui peraltro le sue ragioni di sostanza democratica sono forti. Mohammed Badie, il loro leader spirituale, nel suo primo comizio a Rabaa al Adawiya annunciò chiaramente che avrebbe contrapposto “la piazza dei martiri” alla “piazza dei Tamarrod”. Purtroppo c’è riuscito: ai trecento morti dei primi quaranta giorni dal 3 luglio, si sono sommate le centinaia di morti di ieri. Un bilancio spaventoso che diventa ancora più inquietante perché è chiaro che questa ferale “massa critica” è l’unico baricentro politico su cui i Fratelli musulmani intendono costruire la loro risposta al nuovo regime sanguinario (altro termine non si merita da ieri Fattah al Sisi), premessa quasi certa per una guerra civile come quella che dilaniò l’Algeria, in un quadro e con protagonisti maledettamente simili. Le anime belle che in occidente, in primis alla Casa Bianca, guardavano ai Fratelli musulmani come a un interlocutore intriso di fondamentalismo, ma pronto alle duttilità del gioco democratico, si devono ricredere. I Fratelli musulmani intendono l’esercizio del potere in modo autoritario e non dialettico, non concorsuale. Non condividono la logica occidentale di ricomposizione alta del conflitto politico, ma praticano la concezione jihadista della imposizione con la forza sull’avversario, da schiantare. Così è stato durante i 15 mesi di governo Morsi, così è stato quando egli ha rifiutato l’ultimatum di Fattah al Sisi che non gli ingiungeva affatto di lasciare il potere, ma solo di dare vita a un governo di unità nazionale. Così si sono comportati in questi ultimi giorni, rifiutando seccamente la mediazione seriamente tentata da el Baradei (che infatti si è dimesso per dissociarsi dalla strage) e dalla comunità internazionale (in testa l’ambasciatore Usa al Cairo Robert S. Ford) e si sono intestarditi su una occupazione delle piazze del Cairo che non poteva che avere la conclusione che ha avuto. Al Sisi, il più islamista tra i generali egiziani, scelto da Morsi proprio per questo, infatti, concepisce lo scontro politico esattamente come loro: imposizione violenta sull’avversario. Ma questa non è solo una catastrofe egiziana. D’ora in poi gli avvenimenti di sangue del Cairo avranno conseguenze drammatiche in tutti i paesi arabi in cui i Fratelli musulmani sono la più forte organizzazione di opposizione, con buone chance di aspirare al governo. Il loro fallimento al Cairo, la loro cieca scelta di seguire solo la “politica dei martiri” e non altro (identica a quella dell’ex fratello musulmano Yasser Arafat tra il 2000 e il 2004) li mostra per quello che sono: una organizzazione che non sa governare, capace solo di portare i propri adepti al macello, millantando per di più questa cieca follia suicida quale alta professione di fede.