Origini e segreti di Li&Fung, imprenditori globali “a contratto”

Ugo Bertone

La mano invisibile del capitalismo ai tempi dell’economia globale muove i suoi fili da Kowloon, il vecchio distretto manifatturiero di Hong Kong dove ha sede Li&Fung, il gigante sconosciuto che governa buona parte degli acquisti di una famiglia qualsiasi, in Europa, America o anche altrove. Che si tratti di scarpe di Calvin Klein (o di altre decine di marchi), camicie, jeans di Tommy Hilfiger o dell’abbigliamento di Hello Kitty, ma anche di organizzare la produzione di una linea cosmetica di L’Oréal, non manca mai il contributo dei fratelli Victor e William Fung, cinesi di nascita ma laureati ad Harvard, i creatori di quello che è definito nelle scuole di business il modello insuperato di “dispersed manufacturing”.

    La mano invisibile del capitalismo ai tempi dell’economia globale muove i suoi fili da Kowloon, il vecchio distretto manifatturiero di Hong Kong dove ha sede Li&Fung, il gigante sconosciuto che governa buona parte degli acquisti di una famiglia qualsiasi, in Europa, America o anche altrove. Che si tratti di scarpe di Calvin Klein (o di altre decine di marchi), camicie, jeans di Tommy Hilfiger o dell’abbigliamento di Hello Kitty, ma anche di organizzare la produzione di una linea cosmetica di L’Oréal, non manca mai il contributo dei fratelli Victor e William Fung, cinesi di nascita ma laureati ad Harvard, i creatori di quello che è definito nelle scuole di business il modello insuperato di “dispersed manufacturing”. L’outsourcing, nelle loro mani, è diventato un’arte raffinata: ogni settore, in tutto sono 180, è sotto la supervisione di un manager che controlla una nicchia di attività ben definita ma con la piena libertà di andare a coltivare il business ove meglio crede ai quattro angoli del pianeta (non a caso i capidivisione sono chiamati “piccoli John Wayne”). Sopra di loro il “cervello” è in grado di combinare le miscele più sofisticate: un pezzo prodotto in Thailandia, l’altro in Corea, il tutto assemblato dove la manodopera costa meno. Li&Fung, che ieri ha annunciato i conti del primo semestre (9,129 miliardi di dollari, invariato rispetto al 2012), è un gigante industriale che non possiede macchinari o fabbriche. Ma nel solo Bangladesh lavorano per conto di Li&Fung 150 fabbriche con 150 mila lavoratori che sfornano milioni di camicie o di jeans (costo unitario 90 centesimi di dollaro) che poi arriveranno negli scaffali dei negozi con il marchio alla moda.

    Li&Fung non produce per sé, ma s’impegna a individuare, per conto dei clienti, i produttori locali; tratta sul prezzo e vigila sulla qualità del prodotto. “Sono così forti – confessa Fred Gehering ceo di Tommy Hilfiger – che riescono a strappare le condizioni migliori”. Non solo in fabbrica, perché i fratelli Fung, assieme al ceo Bruce Rockowitz, una sorta di controfigura di Steve McQueen sbarcato a Hong Kong come campione di tennis, sono in grado di risolvere tanti, se non tutti i problemi, che possono turbare i conti di una multinazionale: hai urgente bisogno di una fornitura di seta cinese? Stai cercando un porto messicano per scaricare la merce senza attese? E chi è in grado di consigliare il percorso migliore alla luce delle previsioni meteo più aggiornate se non questo gigante della logistica che non possiede né un camion né una nave? E chi va a trattare con i sindacati di Dacca per assicurare, quando possibile, la pace sociale in fabbrica? Ci pensano loro, i capitalisti invisibili che senza dare nell’occhio hanno creato un colosso che opera in 40 paesi attraverso 300 uffici ove operano 28 mila dipendenti, costantemente alle prese con 15 mila aziende fornitrici che sfornano milioni di pezzi che si ritroveranno negli scaffali dei grandi magazzini: circa la metà dei prodotti di Wal Mart, la più importante catena commerciale del pianeta, è passata dalle mani di Li&Fung.

    Anche per questo gli analisti finanziari guardavano con una certa attenzione in questi giorni ai conti del gruppo, uno di quelli che ha pagato a caro prezzo la crisi globale, come dimostra il fatto che il titolo alla Borsa di Hong Kong ha perduto il 63 per cento dai massimi. I motivi? Gli anni d’oro, quelli in cui da Shanghai e Guangzhou si produceva a prezzi infimi e i consumatori statunitensi acquistavano a piene mani il made in China, sono finiti per sempre. Per giunta, clienti che sembravano solidi sono falliti, lasciando i due fratelli con container zeppi di jeans o di giocattoli (non a caso Li&Fung ha acquisito la catena Toys R Us in Asia). Nel frattempo, non è stata certo una bella pubblicità la tragedia della fabbrica di Tazreen nel novembre scorso, 112 operai morti nell’incendio dell’impianto (una parte della produzione era destinata a Li&Fung), o altre catastrofi in Bangladesh o altrove. A settembre anche Li & Fung sarà chiamata a partecipare al risarcimento dei familiari delle vittime sul lavoro in Bangladesh. Ma la grande frana, a giudicare dai conti di esercizio, sembra passata. Un po’ perché americani ed europei tornano ad acquistare scarpe e camicie, certo. Ma anche perché i fratelli Fung – Victor, 62 anni, e William, 65 – non sono stati certo con le mani in mano. In questi anni il Fung Group, che ha in cassa circa 700 milioni di dollari in liquidità, si è rafforzato a suon di acquisizioni, tanto per diversificare le fonti di reddito. E soprattutto ha allargato il raggio d’azione a livello globale, com’era nel Dna del gruppo, fin dalle origini, nel 1906.

    Allora, sei anni dopo la rivolta dei boxer, il capostipite Fun Pak-lin, insegnante d’inglese, convinse l’amico Li-To-lin, mercante di ceramiche, ad aprire una società in grado di far da ponte tra inglesi, francesi e le produzioni locali. Una ditta fiorente che, in piena guerra civile, Fun-Pak-lin decise di spostare a Hong Kong. Il salto di qualità avviene all’inizio degli anni Settanta, quando i due fratelli, che il padre aveva voluto che si formassero nelle università nordamericane, tornarono a Hong Kong con l’intenzione di sfruttare il basso costo del lavoro della colonia britannica per fare business con gli Stati Uniti. Di lì è cominciata la rincorsa all’economia globale. Dopo Hong Kong è toccato alla Corea e alla Malaysia, fino all’apertura della Cina di Deng Xiaoping. Ma in questi anni, di fronte all’aumento del costo del lavoro nell’ex impero celeste (vedi articolo in basso), Li&Fung ha allargato il suo raggio d’azione: oggi i satelliti del colosso cinese lavorano in Guatemala, Honduras e Messico per servire il Nord America. L’est Europa più a buon mercato e la Tunisia svolgono lo stesso ruolo per i clienti europei. La nuova frontiera, però, è l’Africa subsahariana, 37 paesi con cui la Cina ha già in atto un accordo fiscale. Insomma, la crisi passa, ma la mano invisibile resta. Con un pizzico di fortuna, come ama ripetere William: l’11 settembre del 2001 doveva imbarcarsi in aereo da Boston alla volta di Los Angeles. Ma al mattino, dopo un sogno premonitore, preferì cambiar programma e recarsi dalla sorella a San Francisco. All’arrivo seppe che quell’aereo si era infranto sulle Torri Gemelle.