Lingotto dolente

Sostiene Marchionne che l'Italia non è più un paese per industriali

Ugo Bertone

I conti Fiat vanno meglio del previsto. Quelli di Chrysler no. E in Borsa il Lingotto perde più del quattro per cento. A conferma che già oggi, prima del trasloco del titolo a Wall Street, il baricentro del gruppo si è ormai spostato in quel di Detroit, quella città in bancarotta che a Sergio Marchionne piace più di Torino (in riva al Michigan ha comprato non una ma due case). Il trasloco, però, si fa attendere. Ieri, giornata di conti sia in Fiat sia in Chrysler, molti avevano puntato sull'annuncio ufficiale dell'accordo con il fondo Veba, l'ente sanitario e pensionistico del sindacato americano che si rifiuta di cedere la sua quota in Chrysler alle condizioni fissate nel 2009, quando i titoli della Casa americana valevano zero o forse meno.

    I conti Fiat vanno meglio del previsto. Quelli di Chrysler no. E in Borsa il Lingotto perde più del quattro per cento. A conferma che già oggi, prima del trasloco del titolo a Wall Street, il baricentro del gruppo si è ormai spostato in quel di Detroit, quella città in bancarotta che a Sergio Marchionne piace più di Torino (in riva al Michigan ha comprato non una ma due case). Il trasloco, però, si fa attendere. Ieri, giornata di conti sia in Fiat sia in Chrysler, molti avevano puntato sull’annuncio ufficiale dell’accordo con il fondo Veba, l’ente sanitario e pensionistico del sindacato americano che si rifiuta di cedere la sua quota in Chrysler alle condizioni fissate nel 2009, quando i titoli della Casa americana valevano zero o forse meno. Ma, nonostante i buoni uffici del giudice del Delaware, l’intesa ancora non c’è: Marchionne non fa sconti alle tute blu, anche se dall’altra parte del tavolo ci sono gli “amici” che l’hanno aiutato a salvare la Casa di Jeep e Dodge. I metalmeccanici di Detroit, del resto, sanno giocare duro: nell’attesa di fare l’intesa con il ceo, tirano dritto per collocare i titoli a Wall Street con un’Ipo che potrebbe costare non poco a Fiat. Solo il 100 per cento di Chrysler, infatti, consentirebbe di unificare le finanze del gruppo, a tutto vantaggio di Fiat che ha un debito industriale di 7 miliardi. Ma quelle sono baruffe tra amici, con cui prima o poi si trova l’accordo. Tutt’altra musica per l’Italia.

    “Le condizioni industriali in Italia restano impossibili”, ruggisce l’ad di Fiat nel corso della conferenza con gli analisti. Dopo che la Corte costituzionale ha bocciato l’articolo dello Statuto dei lavoratori su cui si reggevano i contratti aziendali di Fiat, dice Marchionne, occorre una legge sulla rappresentanza per uscire dallo stato di incertezza, ma dal governo non è arrivato nessun segnale. E aggiunge: “Abbiamo le alternative necessarie per realizzare le Alfa ovunque”. Non è una novità, ma suona come una risposta al ministro dello Sviluppo economico, Flavio Zanonato, che poche ore prima aveva detto in Parlamento: “Abbiamo chiesto un incontro alla Fiat per avere un piano preciso sugli investimenti. I rapporti fanno pensare che questa cosa avverrà anche se non posso garantirlo al 100 per cento”. Marchionne risponde in altro modo a Maurizio Landini, il leader della Fiom, che gli ricorda via Sky nel pomeriggio la promessa di venti giorni fa per un incontro. “Vediamoci venerdì a Roma”, è la risposta di Marchionne. Prima il “nemico” della Cgil. Poi, probabilmente, il ministro. Ciò in attesa di un altro incontro che Marchionne ha già sollecitato, seppur in via riservata e senza alcun clamore: quello con Fabrizio Saccomanni, il ministro dell’Economia cui il ceo di Fiat-Chrysler cercherà di spiegare che la società nata dalla fusione tra Torino e Detroit dovrà, al pari di Cnh Industrial, eleggere a propria sede legale ad Amsterdam. Ma prima bisogna risolvere la partita industriale: un conto è lasciare l’Italia in punta di piedi, garantendo lavoro e investimenti agli stabilimenti di Cassino, Mirafiori e così via. Altro è sbattere la porta, con la prospettiva di fare dell’Italia, in pratica, solo il polo del lusso a quattro ruote (Ferrari più Maserati). Prospettiva ricca per gli azionisti, ma povera di posti di lavoro. Uno scenario da non escludere. Anzi, a stare al dialogo a distanza tra Fiat, governo e sindacato, pare di capire che il futuro di Mirafiori, possibile stabilimento della nuova Alfa, sia appeso a un filo esile.

    O forse, complice la sentenza della Consulta (ma non solo), quel filo si è già spezzato. Come già si era capito dalle parole di Marchionne in quel di Atessa, la fabbrica disertata dal presidente della Camera Laura Boldrini. “Senza regole certe – aveva detto – questo può essere l’ultimo investimento della Fiat in Italia”. Un ultimatum in linea con quel che emerge un po’ ovunque, a giudicare dagli annunci in arrivo dalle aziende su e giù per l’Italia. Con maggiore o minore verve polemica. Una settimana fa Gian Mario Tondato, numero uno di Autogrill (gruppo Benetton), ha prospettato un possibile abbandono dal mercato italiano se non verrà rivisto il sistema delle concessioni delle aree di servizio lungo le autostrade del nostro paese. Minaccia già nei fatti: per Autogrill, dieci anni fa, l’Italia rappresentava la metà del giro d’affari, oggi conta solo il 14 per cento. E in pochi anni scenderà a uno striminzito 3 per cento. Altri gruppi che già cavalcano la ripresa, per scelta strategica ma anche per necessità di business, stanno procedendo a tappe forzate a spostare il baricentro oltre frontiera: è il caso di Brembo, De Longhi, Piaggio per citare le aziende che hanno annunciato i conti nei giorni scorsi. (Ieri anche Giorgio Squinzi, presidente della Confindustria che Marchionne ha abbandonato due anni fa, era in Russia per aprire una nuova fabbrica dell’azienda di famiglia, Mapei, pur senza avere intenzione di trascurare l’Italia). E’ un trend che si può governare oppure subire, in assenza di soluzioni condivise: il mercato italiano non giustifica sempre e comunque la presenza di forti presidi di produzione, a meno che il sistema non sappia garantire flessibilità, infrastrutture e magari sostegni alla ricerca paragonabili a quelli dei paesi concorrenti. Un problema non da poco, anche per uno come Marchionne che, ancora una volta, è riuscito a contenere le perdite dove latitano le vendite: nonostante il profit warning di Chrysler e qualche scricchiolio in Brasile, Fiat mette a segno un utile netto nel trimestre di 435 milioni (contro una previsione di 305 milioni) e un trading profit di 1,03 miliardi (gli analisti scommettevano su 930 milioni).