Forse sarà peccato, ma trattare con Cosa nostra non sempre è reato

Redazione

La spinta a scrivere il saggio sulla cosiddetta “trattativa”, pur sapendo di affrontare un argomento delicato e divisivo e di poter essere, di conseguenza, politicamente strumentalizzato, è stata duplice. Da un lato, ho riscontrato un certo disagio, una certa difficoltà di comprensione – avvertita, mi consta, anche da magistrati autorevoli, siciliani e non siciliani – nei confronti di questa indagine sulla trattativa: come a percepire qualcosa di non chiaro, di non immediatamente comprensibile. Insomma, una qualche impressione di forzatura.

di Giovanni Fiandaca

    Questa è la sintesi, rivista dall’autore, dell’intervento conclusivo del professore Giovanni Fiandaca al dibattito di Palermo sulla “trattativa” tra stato e mafia. Dibattito contro il quale si è scagliato, sul Fatto di ieri, Marco Travaglio. Il professor Fiandaca è ordinario di Diritto penale e recentemente è stato definito da Antonio Ingoria “mio maestro”.

    La spinta a scrivere il saggio sulla cosiddetta “trattativa”, pur sapendo di affrontare un argomento delicato e divisivo e di poter essere, di conseguenza, politicamente strumentalizzato, è stata duplice. Da un lato, ho riscontrato un certo disagio, una certa difficoltà di comprensione – avvertita, mi consta, anche da magistrati autorevoli, siciliani e non siciliani – nei confronti di questa indagine sulla trattativa: come a percepire qualcosa di non chiaro, di non immediatamente comprensibile. Insomma, una qualche impressione di forzatura. A questo però si accompagnava una campagna mediatica tesa a diffondere quella che potremmo definire una “costruzione mediatica del reato”. Giornali e televisioni davano per scontato, usando il termine generico e vago di “trattativa”, che si fosse consumato un crimine gravissimo. Ma così scontato non era. Infatti, a lezione uno studente, anche a nome di altri colleghi, mi ha chiesto: “Professore, possiamo farle una domanda che non c’entra con il corso istituzionale? Ce lo spiega cos’è questo reato di trattativa?”. E allora mi sono accorto che i miei studenti non avevano capito nulla. Ho così avuto la conferma che c’era un’esigenza di fare chiarezza. Da qui una rafforzata sollecitazione a scrivere il saggio.

    Una volta pubblicato, diverse persone (magistrati, colleghi universitari, ecc.) mi hanno telefonato e mi hanno detto: “Giovanni ci voleva, perché tu hai chiarito tante cose che non risultavano chiare”. Questo saggio l’ho in origine destinato alla rivista giuridica Criminalia , e poi ho acconsentito a che fosse ripubblicato sul Foglio: invero con qualche titubanza, trattandosi di un giornale intelligente ma politicamente scorretto. Confesso che il titolo poi prescelto dalla redazione (“Il processo sulla trattativa è una boiata pazzesca”) mi ha turbato non poco. Ma alla fine ho superato questo piccolo trauma, rendendomi conto che fosse importante estendere il dibattito a un pubblico più ampio.

    Non ritorno nel merito delle questioni tecnico-giuridiche perché vi tedierei. Mi limito a rilevare che l’opinabilità dell’approccio giuridico della procura di Palermo è ulteriormente confermata da osservatori insospettabili come ad esempio Gian Carlo Caselli, il quale in un recente intervento sul Fatto ha ammesso che è legittimo ragionare dell’impostazione accusatoria anche in termini piuttosto critici. A parte l’assai dubbia applicabilità della figura di reato prescelta dall’accusa, e cioè la minaccia a un corpo politico dello Stato, un punto fondamentale trascurato dall’accusa è quello sul quale ha poc’anzi posto l’accento Salvatore Lupo: e cioè che la tutela della sicurezza collettiva in presenza di un rischio concreto di reiterazione di atti stragistici spetta in primo luogo al potere esecutivo. Mentre – aggiungo dal canto mio – la magistratura è competente a intervenire a posteriori, nell’eventualità che soggetti pubblici commettano azioni manifestamente illecite, pur a fin di bene. Ma il problema, nel nostro caso, è proprio questo: ad avviso non soltanto mio, ma di altri studiosi di diritto penale, la procura di Palermo non è finora riuscita a prospettare ipotesi di reato plausibili. (…)

    Mancanza di rigore e incertezze emergono anche in punto di ricostruzione fattuale. Nell’ormai celebre memoria dei pubblici ministeri palermitani non è chiaro se vi siano state una o più trattative, se vi siano state una predeterminazione coerente e una regia unitaria, ovvero se si sia trattato di tentativi di intesa distinti e frammentati nel tempo, al di fuori di un quadro unitario. (…)

    Vi è di più. Se risultasse davvero provato in fatto il teorema accusatorio dei pubblici ministeri, e cioè se fosse vero che le condotte degli ufficiali dei carabinieri e dei politici favorevoli alla trattativa hanno finito per rafforzare Cosa nostra nel proposito di realizzare il progetto stragista, logica e coerenza giuridica imporrebbero di configurare fattispecie penali ben più gravi rispetto al discutibile delitto di cui all’art. 338 c.p.. E ancora: se i trattativisti esterni alla mafia hanno tutti funto da canale di collegamento, perché contestare il concorso esterno al solo Massimo Ciancimino e non anche agli altri complici? (…)

    A scanso di equivoci, mi preme a questo punto esplicitare che anche a mio avviso la dimensione strettamente giuridica è ben lungi dall’esaurire la valutazione sul possibile disvalore della trattativa. E’ più che legittimo disapprovarla da un punto di vista etico-politico, ma la disapprovazione politica o morale non è sufficiente a trasformarla in reato: come giurista di uno stato democratico di diritto, la distinzione tra politica, diritto e morale è una questione dirimente. E dell’importanza di questa distinzione dovrebbero rendersene conto anche i cittadini in genere (inclusi gli appartenenti al cosiddetto ceto medio riflessivo), che purtroppo hanno idee tutt’altro che chiare in argomento. (…)

    Comunque, la vicenda giudiziaria della trattativa assume interesse ben al di là del pur importante caso specifico, perché sollecita una riflessione critica di più ampio respiro destinata a coinvolgere, più in generale, i rapporti tra giustizia e politica degli ultimi vent’anni. Non credo che dobbiamo aspettarci nel prossimo futuro nuove rivoluzioni giudiziarie dopo Tangentopoli o nuovi eclatanti processi su mafia e politica come quello su Giulio Andreotti. Il contesto storico-politico è molto mutato da allora a oggi. Ma è anche vero che continua a essere radicata, nei magistrati di punta, una concezione di ruolo che attribuisce alla giustizia penale un controllo di legalità concepito assai estensivamente: cioè anche come tutela della buona politica e promozione della moralità pubblica. Questo atteggiamento tutorio e moraleggiante è, a mio avviso, destinato a perdurare come ideologia di ruolo anche a prescindere dalle prossime dinamiche del quadro politico. Voglio essere più chiaro. Non basterà il tramonto di Berlusconi per far sì che la magistratura d’avanguardia accetti l’idea che la giustizia penale non ha per compito di processare la storia e di favorire il rinnovamento politico. Ritengo che oggi, tanto più da giuristi progressisti, dovremmo impegnarci maggiormente nel dibattito pubblico per contribuire al recupero di un più equilibrato rapporto fra i poteri istituzionali. La strada è lunga. La contestazione del tradizionale sistema dei partiti si spinge non di rado oltre misura. I movimenti antipartitici nati per rinnovare la politica finiscono, purtroppo, per trasformarsi a loro volta in partiti che esibiscono difetti ancora maggiori dei partiti che li hanno preceduti. Ma equivarrebbe a una perniciosa coazione a ripetere illudersi che la magistratura penale, quale presunta espressione anch’essa della società civile, possa continuare a essere utilmente inclusa tra i soggetti politici realmente in grado di rinnovare il sistema. Oltretutto, a distanza di vent’anni da Tangentopoli, è assai dubbio che gli effetti politici di tante azioni giudiziarie abbiano davvero contribuito a un miglioramento qualitativo della politica italiana.

    di Giovanni Fiandaca