Piazza araba contro piazza araba

Carlo Panella

I sedici morti della notte di martedì nei cortili dell’Università di al Azhar e nel quartiere popolare del sud del Cairo di Giza segnano una “svolta storica” nel mondo arabo. Sono ben più che i nuovi caduti del rivolgimento iniziato nel gennaio del 2011: sono le prime vittime del jihad tra piazza araba e piazza araba. Sono l’immediata, diretta conseguenza dell’irresponsabile appello al “martirio” della sua piazza lanciato lunedì da Mohamed el Beltagui, segretario generale del partito Libertà e giustizia, braccio politico dei Fratelli musulmani: “Il martirio per prevenire questo golpe è quello che possiamo offrire ai precedenti martiri della rivoluzione!”.

    I sedici morti della notte di martedì nei cortili dell’Università di al Azhar e nel quartiere popolare del sud del Cairo di Giza segnano una “svolta storica” nel mondo arabo. Sono ben più che i nuovi caduti del rivolgimento iniziato nel gennaio del 2011: sono le prime vittime del jihad tra piazza araba e piazza araba. Sono l’immediata, diretta conseguenza dell’irresponsabile appello al “martirio” della sua piazza lanciato lunedì da Mohamed el Beltagui, segretario generale del partito Libertà e giustizia, braccio politico dei Fratelli musulmani: “Il martirio per prevenire questo golpe è quello che possiamo offrire ai precedenti martiri della rivoluzione!”. I sostenitori di Morsi ormai scendono nelle piazze col copricapo bianco dei “martiri” sulla fronte e affrontano a pistolettate o a randellate l’altra piazza. Lo stesso Morsi ha solennemente promosso questo movimento di massa e lanciato la sua piazza di “martiri” contro i Tamarrod nell’irresponsabile discorso televisivo di martedì, in cui ha promesso: “La mia vita è il prezzo per preservare la legittimità del potere”. I Fratelli musulmani egiziani hanno dunque deciso di evolvere la figura del “martire” dello “shahid”, da kamikaze che si immola in un attentato, a massa di manifestanti che cerca la morte e si scaglia contro la piazza dei “ribelli”.

    Questa non è solo una scelta rischiosissima di Mohamed el Beltagui e Mohammed Morsi, ma il logico sviluppo della vittoria del veterinario Mohammed Badie, leader della componente più integralista del movimento, che il 16 gennaio 2010 si impose nella competizione per la leadership dell’organizzazione mondiale dei Fratelli musulmani. La vittoria del radicale Badie segnò una frattura rispetto all’ala riformista e dialogante con le altre forze politiche, capeggiata da Abdel Moneim Abul Fotouh, che uscì dalla Fratellanza, sfidò alle presidenziali Mohammed Morsi e prese un onorevole 17,8 per cento. Oggi Abul Fotouh, così come i partiti islamisti e salafiti al Nour e al Wasat e persino il partito islamista al Gamaa al Islamiya, che è parte del governo – per apparente paradosso – sono favorevoli a una discesa a patti con i Tamarrod e chiedono a Morsi di accettare la mediazione delle Forze armate. Ma evidentemente la Fratellanza musulmana ha deciso di portare alle estreme conseguenze il rifiuto opposto nei mesi scorsi a ogni ipotesi di mediazione con le altre forze politiche. Forte di un indiscutibile 52 per cento ottenuto da Morsi durante le elezioni presidenziali, la Fratellanza si fa scudo della difesa di una apparente correttezza istituzionale e democratica per imporre la sua concezione autoritaria e violenta della gestione del potere. Dalla difesa del risultato formale del voto alla chiamata al “martirio di massa” c’è un baratro, che è stato superato d’un balzo da tutti i dirigenti, spirituali e politici, del più grande movimento islamista del mondo. Emerge così l’essenza devastante dell’islam politico contemporaneo. Qualsiasi sia la soluzione della crisi, il veleno di questo appello al martirio di massa sarà d’ora in poi inestirpabile dalla vita politica egiziana e produrrà disastri. Dopo la normalizzazione seguente a quello che è pur sempre un putsch militare, sia pure gradito dai Tamarrod, seguirà una lunga fase in cui lo scontro tra la “piazza dei martiri” e quella dei Tamarrod sarà costante e sanguinoso. Né è possibile sperare che le Forze armate del maresciallo Abdel Fattah al Sisi siano in grado di disinnescare questa escalation. Durante i 18 mesi successivi alla caduta di Mubarak, il Consiglio supremo delle Forze armate comandato dal maresciallo Hussein al Tantawi (predecessore di al Sisi) ha dato ampia prova di inefficienza, lassismo, incapacità di governo. Quindicimila sono stati i civili portati in catene davanti ai tribunali militari, centinaia sono stati i manifestanti uccisi dalle forze di sicurezza a piazza Tahrir e altrove. E’ quindi facile prevedere che poco saprà fare al Sisi ogni volta che la piazza dei “martiri” si scaglierà contro i Tamarrod.