Convertiti all'islam e in guerra contro gli “empi”

I figli perduti d'occidente

Giulio Meotti

All’inizio furono le sembianze indefinite della “voce italiana” nel video dell’esecuzione avvenuta in Iraq di Fabrizio Quattrocchi. Speravamo che fosse un equivoco, invece era un primo segnale di quanto tragici fossero diventati i nostri tempi. Oggi, con la storia di Ibrahim Giuliano Delnevo, il ragazzo genovese convertito all’islam morto in Siria combattendo contro il regime di Bashar el Assad, abbiamo una dimostrazione circolarmente perfetta di quanto grande sia il peso della autocoscienza dolente dell’occidente. Che minoranze di quel tipo, e perfino avventure esemplari e personali, rivelano a tutti noi in una allarmante chiarezza.

Leggi anche Perché la parabola di Delnevo verso il jihad e la morte ha inizio in Marocco di Pio Pompa

    All’inizio furono le sembianze indefinite della “voce italiana” nel video dell’esecuzione avvenuta in Iraq di Fabrizio Quattrocchi. Speravamo che fosse un equivoco, invece era un primo segnale di quanto tragici fossero diventati i nostri tempi. Oggi, con la storia di Ibrahim Giuliano Delnevo, il ragazzo genovese convertito all’islam morto in Siria combattendo contro il regime di Bashar el Assad, abbiamo una dimostrazione circolarmente perfetta di quanto grande sia il peso della autocoscienza dolente dell’occidente. Che minoranze di quel tipo, e perfino avventure esemplari e personali, rivelano a tutti noi in una allarmante chiarezza.
    E’ una generazione di occidentali in profonda intimità con la morte. Delnevo aveva lasciato scritto che “ognuno incontra le sue buone azioni nella tomba come un amico, le cattive azioni invece aumentano le sofferenze”. Questi convertiti all’islam che abbracciano il terrore amano una sura coranica molto particolare. Quella della caverna. Parla di sette pastori che, non volendo abiurare la fede, preferiscono essere murati vivi dentro una grotta. Secondo la leggenda, tre secoli dopo la grotta viene scoperta e i dormienti si risvegliano, convinti di aver dormito soltanto una notte.

    La loro non è la storia di Patricia Hearst, l’ostaggio dei terroristi che alla fine si arruola tra i suoi rapitori. Non c’è la sindrome di Stoccolma. Sono, invece, i figli perduti dell’occidente. Si ricordi la Rote Armee Fraktion, la banda Baader Meinhof nella Germania d’autunno degli anni Settanta, quando la sinistra parlava di militarizzazione e di regime – quando a militarizzarsi era stata una piccola borghesia colta e occidentalissima che, in nome della lotta di classe voleva, come diceva il poeta Jean Genet, piantare una lancia “nella carne troppo grassa della Germania”.
    I convertiti all’islam sognano la stessa catarsi, da attuare ora nella promiscua e confortevole multiculturalità drogata di piacere. E’ la prima generazione occidentale che s’immola sull’altare di una pura scelta di apocalisse. Non c’è Hanoi, dietro questi “nuovi vietcong” come li immagina l’immaginario malato di certa sinistra; non c’è Mosca, non c’è Pechino, non c’è l’Avana, neanche Ramallah. Non c’è, insomma, una “via”. C’è soltanto il iihad, la guerra per il paradiso, o per l’inferno. E il “paradiso all’ombra delle spade”.

    John Walker Lindh è l’inizio di questa metamorfosi misteriosa. Una storia emblematica di cosa significhi un occidentale che vuole morire per Allah. Lindh, irriconoscibile con la barba lunga quando verrà catturato dagli americani a Mazar el Sharif, è un ragazzo solare e spensierato cresciuto nella contea di Marin, la regione più celebrata per gli stili di vita hippie della California. Il tomo classico che ha impresso la regione nella coscienza americana è “The Serial: A Year in the Life of Marin County”. Pubblicato nel 1980, poco prima della nascita di Walker, George Will vi descriveva così il luogo: “I moderni nel Marin cercano di far dimenticare il passato delle loro madri di Spokane (quelle che fanno gli sformati), preparano adesivi per i paraurti delle loro Volvo, attaccano cucchiaini d’argento da cocaina ai loro braccialetti portafortuna per la scuola, bevono al The Silence Minority, comprano scarpe Earth al The Electric Poppy e si fanno tagliare i capelli al Rape of the Locks, dove uno sciampista militante nero sconvolge le clienti cambiando costantemente la stretta di mano soul. L’attività fisica principale consiste nel jogging Zen e nel vestirsi per il tennis”.

    I genitori di Walker, come quelli di Giuliano Delnevo, sono cattolici praticanti, ma lo incoraggiano a trovare il proprio percorso spirituale. Chiamato John per John Lennon, Walker si interessa al buddismo, per poi innamorarsi dell’hip-hop. Come molti, è un adolescente bianco e liberal e la cultura nera sembra rappresentare una ribellione contro la società che lo ha generato. Come molti adolescenti, Walker sente che “L’autobiografia di Malcolm X” è stata scritta per lui. Walker è il mistero di chi ha respinto la “rigidità della chiesa cattolica” per abbracciare la forma più austera di islam. “Sembra piuttosto strano tenere una convention musulmana in un parco a tema di proprietà della Disney, i cui produttori sono pieni di mitologia, magia, occultismo, sessismo, razzismo e omosessualità”, scriveva Walker in un diario. “Non è lo stesso parco a tema che quest’anno ha sponsorizzato il ‘gay day’?”. Leggete questa frase di Walker un’altra volta.
    Questi convertiti si credono gli eroi e le vittime di una società giudicata “indegna”, “empia”, “apostata”. Come tutti i convertiti all’islam, Walker ha unito la ripugnanza liberal dell’occidente con la ripugnanza conservatrice del permissivismo moderno. L’islam, per questi convertiti, è il punto in cui gli estremi si sono toccati. Ed esplodono. Nei diari e negli scritti di molti di questi convertiti si avverte “la sensazione forte e deliziosamente perversa del sangue versato”, come avrebbe detto Varlam Salamov.
    Nessuno cercava di far capire a Lindh che l’esecuzione degli omosessuali, l’eccidio di massa di innocenti in un jihad, convinzioni da lui maturate in seguito all’adesione a Osama bin Laden, in realtà erano principi “sbagliati”. Nelle enclave liberal della California, come nella Genova ex operaia e progressista di Delnevo, non esistono “torto” e “ragione”, ma soltanto il giudizio (odioso) e la tolleranza (ammirevole).

    In seguito, sempre incoraggiato dai propri genitori ultra progressisti che stravedono per lui, John Walker Lindh abbandona la scuola e va in Yemen. Qui decide di isolarsi, dedicandosi in modo maniacale allo studio di ogni parola del Corano. Poi l’Afghanistan. Reclutato nella guerra santa, Walker si stava lentamente trasformando in quello che Norman Mailer aveva descritto molti anni prima come il “negro bianco”.
    I dubbi e le scelte di un ambiente permissivo trovarono una “soluzione finale” nella certezza assoluta di una fede medievale, atavica, efferata, irresistibile. Il padre di Walker, come quello di Delnevo, non riuscirà mai a condannare le azioni del figlio. “Non credo che John stesse facendo nulla di sbagliato”, ha dichiarato in televisione. E avrebbe ripetuto a “Good Morning America”: “Vorremmo dargli un grande abbraccio e un calcio nel sedere per non averci detto quello che stava combinando”. 
    Le organizzazioni terroristiche apprezzano in particolar modo i convertiti. Perché conoscono la cultura autoctona e ne fanno parte. Perché non possono essere espulsi. Perché possono mascherare la loro affiliazione, bevendo bevande alcoliche e assumendo delle droghe per mantenere la copertura. Una guida raccomandava ai sedicenti attentatori suicidi che si recano in Iraq di “indossare blue jeans, mangiare ciambelle fritte e portarsi sempre dietro il walkman’”. Ci dice Daniel Pipes, islamologo di fama in America, che “i convertiti all’islam stanno acquisendo il controllo delle operazioni terroristiche, in precedenza condotte dagli immigranti di origine musulmana e dai loro figli”.

    Come Adam Gadahn, il traduttore del Mullah Omar che figura nella lista dei dieci uomini più ricercati dall’Fbi. Come Shane Kent, che ha capelli rossi e carnagione chiara, ex musicista rock addestrato in un campo in Afghanistan. Come l’australiano David Hicks, che da conciatore di pelli di canguro diventerà “Al Qaida’s 24 Carat Golden Boy”. Come il francese Willie Virgile Brigitte, che ha partecipato all’assassinio del leader afghano Ahmad Shah Massoud. Come Alexandre D., un altro francese convertito che ha appena cercato di sgozzare un soldato francese di ronda a Parigi. Come Raphael Gendron, il terzo francese convertito morto ad aprile combattendo contro Assad. Come il quarto francese, Pierre Richard Robert, “l’emiro dagli occhi blu” che nel 2003 organizzò gli attentati suicidi di Casablanca che uccisero 45 persone. O come uno dei capi dell’Hofstad Group, la cellula olandese che ha pianificato le uccisioni di Theo van Gogh, Ayaan Hirsi Ali e Geert Wilders, un bianco convertito all’islam di nome Jason Walters.
    Figlio di un militare afroamericano di stanza nella base militare di Soesterberg e di una donna olandese, Walters aveva pochi sogni da ragazzo: “Sposarmi e fare due bambini, un buon lavoro e una casa” (dalla sua nota di fine anno al liceo). A sedici anni cambia nome in Jamal, va in Pakistan e rientra ad Amsterdam più fanatizzato di tutti. Proibisce alla madre e alle sorelle di bere alcolici e guardare la televisione (come Giuliano Delnevo). Come Michael Adebowale e Michael Adebolajo, che hanno appena macellato con un machete il soldato inglese Lee Rigby nel cuore di Londra. A scuola gli insegnanti li avevano scelti come “studenti modello”. Antoine Sfeir, studioso francese dei convertiti all’islam, dice che questi novizi vedono il terrorismo islamico come “un tipo di guerra contro i ricchi e i potenti da parte dei poveri del pianeta”. Le masse di islamici al posto del proletariato.

    Anche fisicamente, questi convertiti cercano di emulare i padri dell’islam. Indossano spesso una veste bianca con un leggerissimo mantello color cammello drappeggiato sulle spalle. Nei video parlano con voce monotona, soporifera, agitando l’indice lungo e ossuto. Citano dal Corano, capitolo XIV, terzo versetto: “Coloro che amano questa vita più dell’altra frappongono ostacoli sul sentiero di Allah e cercano di renderlo tortuoso! Sono infossati nell’errore”. La sua versione dopo l’11 settembre recita: “Gli americani amano la Pepsi Cola, noi amiamo la morte”. La loro guerra non è uno scontro terreno, il suo compimento coincide con la conflagrazione della fine dei tempi. Lo scontro non è logico, è teologico.
    Solo una piccola percentuale di convertiti all’islam abbraccia il terrorismo. Ma è vero che il numero sempre crescente di convertiti testimonia un fenomeno unico in occidente, paragonabile alla scristianizzazione che ha sconvolto l’Europa negli anni Sessanta. In Inghilterra sono centomila i convertiti, due terzi donne, il settanta per cento bianchi. Iniziò il musicista Cat Stevens, alias Yusuf Islam, e proseguì Richard Reid, il terrorista che voleva far saltare in aria il volo 63 Parigi-Miami dell’American Airlines con l’esplosivo nelle scarpe e che si era convertito all’islam in una prigione inglese. Ma anche negli attentati del 7 luglio 2005 c’era un convertito, Germaine Lindsay, “un padre e un marito amorevole”. Quando si fece saltare in aria a King’s Cross, sua moglie aspettava il secondo figlio. Germaine aveva appena comprato un seggiolino auto per il bimbo. Anche la moglie di Lindsay, Samantha Lewthwaite, si è convertita all’islam e si batte con gli Shabab somali. Fra i motivi addotti per la conversione, molti citano “la mancanza di moralità” e “il permissivismo sessuale” della società inglese. In una trasmissione della Bbc, Dart viene filmato mentre denuncia la cultura britannica che sta diventando “più omosessuale” con “uomini che si vestono come le donne”.

    Lo scorso febbraio il New York Times ha dedicato un servizio speciale ai convertiti di Francia. A Créteil c’è la “moschea dei convertiti”, dove ogni anno si celebrano centinaia di adesioni all’islam. Lo scorso ottobre la polizia francese ha arrestato tredici militanti sospettati di terrorismo. Tre erano bianchi convertiti all’islam. “Il fenomeno delle conversioni è impressionante, e inizia nel 2001”, dopo le Torri gemelle, ha detto alla stampa Bernard Godard del ministero dell’Interno. Hassen Chalghoumi, l’imam di Drancy accusato di “apostasia” dai fondamentalisti, sostiene che quasi sempre la conversione è una reazione al secolarismo. “Questo ha spinto la gente a scoprire l’islam”. Nel 2006 in Germania l’intelligence scoprì una cellula di quarantasette donne, tutte europee, tutte convertite all’islam. E tutte pronte a immolarsi in un attentato suicida. Due terzi di loro sono tedesche, le altre belghe o danesi. Poi sarebbe stata rivelata l’esistenza di un “villaggio tedesco” nel Waziristan controllato dai Talebani. Una colonia di convertiti all’islam tutti di nazionalità tedesca. In un video di propaganda il presentatore mostra in tedesco un bel villaggio pulito e ordinato, con scuole, ospedale, farmacie, case ridenti, e invita i tedeschi ad arruolarsi e addestrarsi a “una morte gloriosa”.

    La storia di Giuliano Delnevo ricorda quella di una kamikaze che fece strage di soldati americani a Baquba, in Iraq. Si tratta della panettiera belga Muriel Degauque, nata in un piccolo borgo di Charleroi, in una famiglia di umili origini. Secondo Olivier Roy, esperto francese di islam, “per i convertiti al Qaida sta occupando lo spazio vuoto delle proteste antiimperialiste ponendosi come successore dei vecchi gruppi di ultrasinistra e terzomondiste”. I servizi li chiamano “i kamikaze bianchi”. Tutti figli della buona borghesia europea, come Fritz Gelowicz, che voleva far strage all’aeroporto di Francoforte, un simbolo “dell’armonia della middle class tedesca”, il padre venditore di pannelli solari, la madre medico stimato. Una famiglia “astinente di religione”, che voleva avviare i figli agli studi di ingegneria. I convertiti si abbeverano a un libro del 1954, “The road to Mecca”, scritto da Muhammad Asad, alias Leopold Weiss. E’ “la storia di un uomo in cerca di avventura e verità”. Ma è molto di più.
    Leopold Weiss, il primo dei convertiti moderni, nato ebreo con un destino da rabbino, nel 1926 a Berlino scende nella metropolitana affollata di gente, squadra le facce che lo circondano e annota: “Cari miei, non parlo da islamico, ma da occidentale: siete ricchi, stanchi e decadenti, l’islam è più forte di voi”. Questa storia non si è mai spenta come cenere fredda. Leopold frequenta l’Università di Vienna, anni magici di Ludwig Wittgenstein e di Alfred Adler, “gli stimoli delle idee di Sigmund Freud mi intossicarono come un vino potentissimo”. Con alcuni membri del circolo di Vienna, Leopold discute di semantica, positivismo, psicoanalisi, logica linguistica. Nel 1922 una zia di famiglia, Dorian Feigenbaum, pupilla di Freud che gestisce un ospedale psichiatrico, lo invita per un periodo a Gerusalemme. Ma mentre i coloni ebrei chiamano “grano di Dio”, “collina della vita” o “faro di luce” le nuove città, Weiss si procura la fama di simpatizzante della causa araba. Comincia a scrivere corrispondenze per la Frankfurter Zeitung, articoli contro l’yishuv ebraico per perorare la causa araba. In Egitto entra in contatto con Mustafa al Maraghi, futuro rettore dell’Università al Azhar. Spende i due anni successivi fra Siria, Iraq, Kurdistan, Iran, Afghanistan e Asia centrale. A Berlino compie una prima traduzione del Corano. Poi la metropolitana, dove si accende la conversione.

    Sono gli anni in cui un po’ in tutta Europa c’era grande prosperità dopo la risacca dell’inflazione. “Era un compartimento della classe più alta”, scrive Weiss. “I miei occhi caddero casualmente su un uomo vestito benissimo, forse un business man, con un magnifico diamante. Tutte le persone erano ben vestite, ma a ben guardare, non c’era una sola faccia felice. Non credono in alcuna verità, sono senza scopi, solo il desiderio di migliorare il loro ‘standard di vita’, senza speranze che non siano le amenità materiali, i gadget o forse più potere. Quando rientrai a casa, aprii la mia copia del Corano”. Va alla sura 102: “Nel nome di Dio, clemente misericordioso! Vi distrarrà da Dio la gara di ricchezza – fino al giorno che visiterete le tombe. Ahi! Ma presto saprete! Sì, ben presto saprete. Ahi! Se sapeste di scienza certa! Vedreste allora l’inferno! Sì, ancora, lo vedrete con occhio certissimo. E renderete conto delle vostre delizie, quel giorno!”. Nel suo diario Weiss scrive: “Ero senza fiato. Non è la risposta a quello che abbiamo visto nella metro?”.
    Il martire suicida lo affascinerà in quanto “testimone” della fine della città, del brechtiano “Im Dickicht der Städte”, della Nuova Canaan di Dvorak che Sayyid Qutb, padre del fondamentalismo islamico, vide a New York “satura di lussuria”. In Weiss incalza la “ville tentaculaire” e il deserto assale la città. Il fanatismo è preferibile al Komfortismus. Il giorno dopo la metropolitana, Weiss si reca dal capo della moschea vicina e gli dice: “Non c’è Dio ma Allah, e Maometto è il suo Profeta. Perché per i moderni europei, la questione del significato e dello scopo della vita ha da tempo perso tutta la sua importanza pratica. Il risultato è la creazione di un tipo umano la cui moralità è confinata nella sola utilità e la cui più alta distinzione fra bene e male è nel successo materiale”. E’ il settembre del 1926, l’inizio della sua nuova più pura vita islamica come Muhammad Asad.

    Trascorre sei anni in Arabia Saudita, tra Medina e Riad, dove il silenzio è illuminato e la luce è resa silenziosa, si innamora di quella aspra fonetica e di una religione che ammalia perché più giovane di seicento anni della cristianità, soprattutto ai suoi occhi molto più autentica. Uno dei suoi più intimi amici e confidenti è il re saudita Ibn Saud. Annota che “il programma dell’islam è meglio del socialismo, del comunismo, del fascismo e del capitalismo. Deve essere mostrato senza equivoci quali proposte alternative la sharia offra alle nostre vite”.  In lui è racchiuso il destino di Mohamed Atta, laureato in Architettura con una tesi sull’architeattura modernista ad Amburgo.
    Questi convertiti sono orgogliosamente traditori dell’occidente. Il loro momento più ambito è il trapasso. Credono che l’anima del “martire” viene afferrata da Azra’il, l’angelo della morte, accompagnato da ronzio d’api e cinguettio di uccelli, e avviata al regno dei morti. L’anima percorre un ponte “più affilato di una spada”. Gli infedeli precipitano, i giusti raggiungono il “Bacino del Profeta”, dove dimoreranno in eterno. Ad accoglierli le acque zampillanti di un fiume che estinguerà la loro sete.
    Inebriati di questa mistica, si appendono bombe come ghirlande sui propri bambini.

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    • Giulio Meotti
    • Giulio Meotti è giornalista de «Il Foglio» dal 2003. È autore di numerosi libri, fra cui Non smetteremo di danzare. Le storie mai raccontate dei martiri di Israele (Premio Capalbio); Hanno ucciso Charlie Hebdo; La fine dell’Europa (Premio Capri); Israele. L’ultimo Stato europeo; Il suicidio della cultura occidentale; La tomba di Dio; Notre Dame brucia; L’Ultimo Papa d’Occidente? e L’Europa senza ebrei.