In Iran i pasdaran sono divisi in tre parti (e nessuna è viola)

Tatiana Boutourline

A due giorni dal voto in una Teheran in cui non c'è grande piazza senza una mezza dozzina di camionette della polizia, restano solo “sei piccoli indiani” a contendersi la poltrona di Mahmoud Ahmadinejad. Ha abbandonato la corsa il consuocero di Khamenei, Gholam Ali Haddad Adel, e ha rinunciato anche Mohammed Reza Aref, il candidato “riformista” cui la strana coppia composta da Mohammed Khatami e Ali Akbar Hashemi Rafsanjani, numi tutelari del (fuorviante) “gradualismo democratico”, ha preferito il “moderato” Rouhani.

    A due giorni dal voto in una Teheran in cui non c’è grande piazza senza una mezza dozzina di camionette della polizia, restano solo “sei piccoli indiani” a contendersi la poltrona di Mahmoud Ahmadinejad. Ha abbandonato la corsa il consuocero di Khamenei, Gholam Ali Haddad Adel, e ha rinunciato anche Mohammed Reza Aref, il candidato “riformista” cui la strana coppia composta da Mohammed Khatami e Ali Akbar Hashemi Rafsanjani, numi tutelari del (fuorviante) “gradualismo democratico”, ha preferito il “moderato” Rouhani. “Il viola sarà il nuovo verde” è il motto ripetuto negli appelli e nei tweet dal suo quartier generale, ma più che dal responso delle urne – pochi i poster e i volantini in giro – gli iraniani sembrano catturati da quello del campo di calcio. A Teheran ieri si è disputata la partita tra la Nazionale iraniana e il Libano per la qualificazione ai Mondiali (ha vinto l’Iran 4 a 0) e i commenti sul post partita dominano le conversazioni. Tra calcio e politica in Iran c’è un legame stretto (c’è chi attribuisce l’inizio della parabola discendente di Ahmadinejad alle dicerie sulle sventure che piombavano sulla Nazionale a ogni sua apparizione con la squadra) e se la corsa elettorale seguirà le tendenze del pallone, quest’anno andrà di nuovo come vorranno i padroni del campionato: i pasdaran.

    L’ultima incognita a Teheran è chi saprà interpretare meglio i loro sogni. A differenza del 2009, quando il quotidiano dei falchi Kayhan già a maggio divinava la vittoria di Ahmadinejad con l’esatta percentuale del suo “trionfo” (il 63 per cento), oggi i segnali non sono univoci e tra i pasdaran sono emerse a oggi almeno tre linee diverse. La prima fazione sembra la riedizione del comitato segreto che nel 2005 persuase l’ayatollah Ali Khamenei a scaricare Mohsen Ghalibaf per schierarsi con Ahmadinejad. E’ capitanata dal capo delle Guardie rivoluzionarie, Mohammed Ali Jafari, e dall’hojatoleslam Mehdi Taeb (il capo della base strategica di Ammar secondo cui la Siria va considerata “la trentacinquesima provincia iraniana”), falchi che da due anni preparano il campo a un presidente-pasdaran riveduto e corretto, un uomo della provvidenza con l’afflato rivoluzionario dell’Ahmadinejad prima maniera, privo però del suo opportunismo e del suo deleterio spirito d’iniziativa: ossia Saeed Jalili.

    Secondo diverse fonti questo gruppo avrebbe stretto un patto con Mojtaba Khamenei, il figlio del leader supremo, regista degli exploit elettorali di Ahmadinejad. Tifa apertamente per Jalili anche l’ayatollah Mesbah Yazdi, ex mentore di Ahmadinejad e leader del gruppo ultraconservatore Jebheh Paaydaari-ye Enghelaab-e Eslami che gode di molto seguito negli ambienti militari e in particolare nella milizia bassiji. Lo slogan elettorale di Jalili: “Nessun compromesso, nessuna sottomissione, solo Jalili” riecheggia tanto gli appelli di Khamenei quanto gli articoli della rivista dei pasdaran Sobh-e Sadegh, che invoca “un presidente mai passivo e spaventato” e cita tra le qualità del candidato ideale “la resistenza dinnanzi al nemico”.

    Nonostante queste rosee premesse però la corsa di Jalili negli ultimi dieci giorni ha subito numerosi contraccolpi: pesa il disagio evidente durante i dibattiti elettorali – la battuta più gettonata tra gli osservatori iraniani è stata: “Quanto gli manca l’amica Catherine Ashton!” – e incide ancor di più il fuoco amico di Ali Akbar Velayati. “Quello che vede la gente, signor Jalili – ha detto il consigliere di Khamenei nel terzo dibattito elettorale – è che lei non è andato nemmeno un passo avanti. L’arte della diplomazia consiste nel difendere i nostri diritti nucleari, non nel far aumentare le sanzioni”. La virulenza dell’attacco di Velayati ha destato scalpore e sollevato dubbi sul fatto che Jalili sia ancora il favorito.
    Al momento no del negoziatore nucleare iraniano fanno da contraltare le speranze del sindaco di Teheran Ghalibaf che, dopo una partenza forse volutamente sottotono, pare indovinarle tutte. Convinto di aver già dimostrato di essere un buon amministratore – non ha nemmeno voluto adottare uno slogan elettorale perché “la sua esperienza parla da sola” – Ghalibaf più che dei suoi meriti ha parlato delle prerogative di Khamenei. “Il ruolo del presidente non è certo quello di decidere la linea sulla politica estera e nucleare del paese”, ha ripetuto ogni volta che ha potuto, attento poi a sottolineare che “da presidente devo sapere che non posso dire mi hanno messo un bastone tra le ruote e non ho potuto portare a termine il mio lavoro”, come a promettere che non solo sarebbe un presidente sottomesso, ma che sarebbe pronto ad addossarsi qualsiasi fallimento per proteggere la reputazione di Khamenei. La captatio benevolentiae pare aver sortito buoni effetti e la corrente pasdaran che gli sta dietro ha registrato adesioni significative. Lo sostiene una nutrita pattuglia di comandanti, ex generali, pezzi grossi dell’aeronautica militare e della polizia e, secondo rumors insistenti, lo appoggerebbe pure Ghassem Suleimani, un’investitura che (se confermata) potrebbe valere moltissimo tra le reclute pasdaran per cui il leader di al Quds è un mito inarrivabile.

    Ci sarebbe però anche una terza corrente al momento schierata con Mohsen Rezai, ex leader dalla ricchezza leggendaria molto popolare tra i “business pasdaran” (sono più di 7.000 le società riconducibili ai pasdaran che secondo le stime hanno in mano il 60 per cento dell’economia) che apprezzano la sua adesione formale ai diktat dell’ortodossia khomeinista e il suo realismo quando si tratta di affari. E’ il più piccolo dei tre gruppi ma potrebbe rivelarsi decisivo nel braccio di ferro tra sostenitori di Jalili e Ghalibaf. Gli ultimi sondaggi – per quel che valgono in Iran – attribuiscono la palma della vittoria a Ghalibaf.