Due dame e la politica estera

Tornano le valchirie Rice e Power a dare una mano interventista a Obama

I mattatori repubblicani di Susan Rice, quelli che mesi fa hanno combattuto furiosamente per far saltare la sua promozione al dipartimento di stato, si sono rapidamente addolciti quando Barack Obama ha annunciato la sua nomina a consigliere per la sicurezza nazionale. “Ovviamente non sono d’accordo con la nomina di Susan Rice, ma farò di tutto per lavorare con lei su questioni importanti”, ha scritto su Twitter il senatore John McCain, capofila di quelli che non volevano alla testa della diplomazia americana chi aveva dato voce a una versione politicamente edulcorata dell’assalto al consolato americano di Bengasi.

    New York. I mattatori repubblicani di Susan Rice, quelli che mesi fa hanno combattuto furiosamente per far saltare la sua promozione al dipartimento di stato, si sono rapidamente addolciti quando Barack Obama ha annunciato la sua nomina a consigliere per la sicurezza nazionale. “Ovviamente non sono d’accordo con la nomina di Susan Rice, ma farò di tutto per lavorare con lei su questioni importanti”, ha scritto su Twitter il senatore John McCain, capofila di quelli che non volevano alla testa della diplomazia americana chi aveva dato voce a una versione politicamente edulcorata dell’assalto al consolato americano di Bengasi. Il ruolo di consigliere per la sicurezza nazionale non richiede la conferma da parte del Senato, quindi sarebbe almeno imprudente per i critici di Rice dichiarare una guerra di palazzo senza avere le armi per vincerla; allo stesso tempo s’intravvede nell’avanzamento di Rice nei corridoi della sicurezza nazionale la possibilità di forgiare un’alleanza trasversale per promuovere un intervento in Siria. Da quando negli anni Novanta ha lavorato nel Consiglio per la sicurezza nazionale di Clinton per poi occuparsi di Africa, Rice è diventata un simbolo dell’interventismo liberal e un avvocato instancabile dei diritti umani. Le richieste, drammaticamente inascoltate, di un intervento americano per fermare il genocidio in Ruanda hanno segnato la sua identità politica e quella di una generazione di democratici ai quali appartiene anche Samantha Power, che andrà a rimpiazzare Rice come ambasciatore degli Stati Uniti presso l’Onu.

    La coppia Rice-Power ha lavorato, nemmeno troppo dietro le quinte, per convincere Obama a salire sul carro a trazione europea degli interventisti in Libia che volevano detronizzare Gheddafi e sostenere i ribelli. Rice ora potrà sostenere le sue idee da una posizione che Obama ha voluto dilatare in termini di influenza sulle decisioni interne e diminuire in quanto a profilo pubblico. Nella struttura obamiana tutta la politica estera e di sicurezza passa dal Consiglio per la sicurezza nazionale, senza le scorciatoie e gli scavalcamenti di alti funzionari del governo che hanno spesso fatto infuriare un’altra Rice, Condoleezza, durante il primo mandato di Bush. La metamorfosi strutturale riflette anche una tendenza storica degli ultimi decenni: la sovraesposizione mediatica e il ritmo serrato dei viaggi del segretario di stato hanno avuto l’effetto di rafforzare il Consiglio per la sicurezza nazionale.
    Il generale James Jones, primo consigliere per la sicurezza nazionale di Obama, ha abbozzato il nuovo assetto; il successore, Tom Donilon, ha fatto delle direttive una macchina di potere guidata da 370 funzionari, il più grande team della sicurezza nazionale nella storia americana. Così è diventato il “gray man di Obama”, come lo chiama la rivista Foreign Policy in un lungo ritratto pubblicato con il tempismo di chi la sa lunga. In quattro anni l’ufficio di Donilon è diventato il crocevia della politica estera americana, dai droni al riorientamento dello sguardo verso l’Asia, pietra miliare della legacy di chi vorrebbe affrancarsi dall’eredità della guerra al terrore per rivolgersi alle sfide del futuro.

    La fedeltà ricompensata
    Susan Rice erediterà tutto questo aggiungendo il suo tocco personale, che non è un dettaglio. Rice è uno dei membri del circolo ristretto dei confidenti di Obama, quelli che gli possono parlare a porte chiuse e viso aperto. Nel 2007 ha appoggiato la campagna del senatore dell’Illinois quando il risultato era tutt’altro che scontato e dall’altra parte della barricata democratica c’era Hillary Clinton, decisione che ha saldato un’alleanza indistruttibile fra i due. Poche volte il presidente si è lasciato andare come quando l’ha difesa dalle accuse di avere orchestrato il “cover up” di Bengasi. Ora il presidente ricompensa la fedeltà con un ruolo enorme in termini di influenza sulla politica estera. L’appoggio “esterno” di Power servirà a rinsaldare un fronte liberal che è rimasto silenzioso sulla Siria anche per via del rimpasto che il presidente aveva in cantiere. L’analista Jeffrey Goldberg dice che dopo l’esperienza della Libia la coppia interventista è più cauta nel proporre un trattamento simile per Bashar el Assad, ma da dietro le quinte sarà più facile sussurrare i messaggi giusti all’orecchio del presidente.