Pogrom italiano

Giulio Meotti

Sabato 9 ottobre 1982. Si celebra la festività ebraica di Sheminì Atzeret, giorno in cui è prevista la grande benedizione dei bambini. La sinagoga centrale di Roma è gremita. Alle 11.55 escono dal Tempio i primi ebrei, passano dalla porta laterale su via Catalana, in corrispondenza del numero civico 1/A. Due uomini lanciano bombe contro le famiglie che si accalcano all’uscita. Chi corre, chi cerca riparo dietro le macchine, mentre raffiche di mitra vengono sparate dai terroristi che si dileguano in direzione di via Arenula e poi di Campo de’ Fiori. Muore un bambino di due anni, Stefano Taché, il primo ebreo ammazzato sul suolo italiano in quanto ebreo dai tempi della deportazione nazifascista.

    Sabato 9 ottobre 1982. Si celebra la festività ebraica di Sheminì Atzeret, giorno in cui è prevista la grande benedizione dei bambini. La sinagoga centrale di Roma è gremita. Alle 11.55 escono dal Tempio i primi ebrei, passano dalla porta laterale su via Catalana, in corrispondenza del numero civico 1/A. Due uomini lanciano bombe contro le famiglie che si accalcano all’uscita. Chi corre, chi cerca riparo dietro le macchine, mentre raffiche di mitra vengono sparate dai terroristi che si dileguano in direzione di via Arenula e poi di Campo de’ Fiori. Muore un bambino di due anni, Stefano Taché, il primo ebreo ammazzato sul suolo italiano in quanto ebreo dai tempi della deportazione nazifascista.
    Adesso un libro, uscito per i tipi della Libreria editrice Viella e a firma di Arturo Marzano e Guri Schwarz, “Attentato alla sinagoga”, ripercorre il tragico episodio nel ghetto di Roma (il libro è stato presentato domenica al Salone del Libro). Non è la spy story del perché la polizia quel giorno non montò di guardia di fronte alla sinagoga (Francesco Cossiga avrebbe rivelato successivamente il “lodo” vergognoso, il patto fra il governo italiano e i terroristi palestinesi perché non attaccassero obiettivi italiani, un patto però che non includeva, anche se in Italia, obiettivi “sionisti”). Il libro è piuttosto il viaggio dentro la disumanizzazione che Israele, e con essa il popolo ebraico italiano, ha subito nel periodo precedente l’attentato.

    “Attentato alla sinagoga” dimostra in particolare come si fosse messo in atto un processo di diluizione dell’ebreo in carne e ossa nell’“ebreo in generale”, facendo riaffiorare sentimenti di rimorso e odio, inchiodando un intero popolo a un destino oscuro che perpetua il mito di una razza coinvolta in tragedie sanguinose. Per dirla con le parole dello psicanalista Antonio Semi sulla prima pagina del Gazzettino di Venezia nel 1982, “se fossi un ebreo, di questi giorni, nella nostra civilissima Europa, avrei paura”.
    Era l’epoca della guerra del Libano e a forza di fomentare l’odio, in questo clima di sordida ostilità, il terrorismo palestinese prese il coraggio di compiere l’assalto armato al Tempio che vide l’uccisione del piccolo Stefano Taché e il ferimento di decine di persone.
    L’Associazione nazionale partigiani del comune lombardo di Palazzolo sull’Oglio fece affiggere manifesti murali intitolati “Massacro ebreo a Beirut”, e si rivolse ai cittadini e alle autorità affinché fosse posta fine a un “genocidio che non ha precedenti nelle storie di ogni popolo civile”, chiamando gli ebrei “assassini”. Sulla rivista Quaderni piacentini apparve un articolo di Paolo Sornaga e Ugo Adilardi, un grande elogio della “guerriglia palestinese”, definita come “l’unica valida alternativa di sinistra al tentativo sempre più scoperto di risolvere la questione medio-orientale”. Il quotidiano Lotta continua accusò Israele di usare “i metodi classici delle invasioni hitleriane”. E’ la “ferocia del genocidio sionista” contro cui si oppone “la resistenza venuta dai mitra kalashnikov dei feddayn”. Israele, che utilizzava metodi “hitleriani” ed era colpevole di “genocidio”, era il “nuovo nazismo” contro cui combattevano i palestinesi, novelli partigiani, con il solo obiettivo di liberarsi dagli oppressori.

    In teatro spopolava intanto lo spettacolo “Feddayn” con la regia di Dario Fo e la partecipazione di Franca Rame. Israele vi era presentato come un insediamento coloniale da abbattere, mentre il feddayn veniva definito il “nemico numero uno dell’imperialismo, del sionismo e della reazione araba”. La presenza in scena di attori italiani e palestinesi dimostrava, persino visivamente, come il proletariato italiano e i guerriglieri palestinesi fossero “uniti in scena da un comune impegno di lotta”. Nell’atto di seppellire uno dei feddayn morti durante un attacco terroristico, infatti, veniva intonato un canto che aveva evidenti assonanze con “Bella ciao”. Fondi vennero raccolti per la “causa palestinese”.
    Commentando l’attacco terroristico compiuto a Monaco nell’ottobre 1972, il periodico Movimento studentesco scrisse che Israele era prossimo “a una mostruosa ‘soluzione finale’”. E nel marzo successivo accusò “il governo fascista israeliano” di perseguire “una politica di terrorismo, di massacri, di vero e proprio genocidio”. Lotta continua non esitò di nuovo a parlare di “fascismo espansionista di Tel Aviv”. Il Manifesto accostò alle SS naziste gli agenti israeliani che si erano infiltrati in Libano per uccidere i dirigenti di Settembre nero nell’aprile 1973.

    A Bologna il movimento studentesco, impegnato in una manifestazione a sostegno della Palestina, cercò di arrivare alla sinagoga, ma venne bloccato per poco dalla polizia. Per la prima volta dalla fine della guerra si era tentato un assalto contro un edificio della comunità ebraica. A Padova venne lanciata una bottiglia molotov contro il portone d’ingresso della sinagoga di via San Martino e Solferino. Il mese successivo alla strage di Monaco, a Torino, sul muro esterno della sinagoga di via San Pio V venne ritrovata la scritta “Viva settembre nero” con falce e martello disegnati accanto. Nel frattempo a Roma venivano distribuiti volantini per contestare lo spettacolo teatrale di David Zard, uno dei tanti ebrei libici rifugiatosi in Italia dopo il 1967. Zard era apostrofato con una serie di ingiurie antisemite, come “torturatore delle forze di Dayan”. In corrispondenza del Capodanno ebraico furono poi lanciate cinque bottiglie molotov contro la sinagoga centrale di Roma. Il gesto, avvenuto in concomitanza con una serie di attentati a ditte israeliane e americane, venne rivendicato dal Commando antisionista Ghassan Kanafani, dal nome dell’intellettuale palestinese portavoce del Fplp, ucciso nel luglio del 1972.
    Fu in questo clima che, il 15 settembre, giunse a Roma Yasser Arafat. L’aveva invitato Giulio Andreotti, in qualità di presidente dell’Unione interparlamentare. Il presidente del Consiglio Spadolini fu l’unico a rifiutarsi di incontrare il terrorista dell’Olp, che allora persino formalmente doveva ancora rinunciare alla lotta armata. I segretari dei tre principali partiti politici, Dc, Pci e Psi, dal canto loro, accolsero Arafat con gli onori di un capo di governo.

    Un articolo di fondo sul Manifesto, a firma di Valentino Parlato, paragonò Ariel Sharon ai capi nazisti Kesselring e Göring, perché a suo giudizio il “reale obiettivo israeliano” non era altro che “la ‘soluzione finale’ della questione palestinese: il massacro o la condanna alla diaspora di questi palestinesi, i veri ebrei del nostro tempo”. Un intellettuale come Lucio Lombardo Radice, all’epoca autorevolissimo membro del comitato centrale del Pci, scrisse che Israele stava mettendo in atto a Beirut ovest la strategia seguita per la liquidazione dei ghetti dell’Europa orientale nella Seconda guerra mondiale. E anche il celebre Fortebraccio scrisse che Menachem Begin e Ariel Sharon “somigliano a dei nazisti”. Era scontato che il Pci e i suoi dirigenti esprimessero contrarietà all’operazione politico-militare israeliana in Libano. Ma nel più grande partito della sinistra si impose con forza qualcosa di più: l’immagine dei “nazisionisti” e l’identificazione dell’ebreo con l’israeliano.
    Sulle pagine del Corriere della Sera Giuseppe Josca parlò di “soluzione finale”, mentre la Repubblica accusava Sharon di aver imposto al Libano il “nuovo ordine” d’Israele, con una chiara allusione al “nuovo ordine” di Adolf Hitler.
    Maurizio Chierici sul Corriere della Sera paragonò più volte l’assedio di Beirut alla liquidazione del ghetto di Varsavia e i comandanti militari israeliani a Hans Frank, il governatore nazista della Polonia occupata. Lo stesso giornalista aveva già fatto ricorso a orrendi confronti di quel tipo, descrivendo la fuga della popolazione da Beirut con queste parole: “Viene in mente la fila delle vittime dell’assedio di Varsavia”. Sulla Stampa Giorgio Forattini raffigurava Hitler tra le fiamme dell’inferno mentre leggeva un quotidiano e diceva: “Vedrete che questi mi fregheranno anche i diritti d’autore”. Si può poi ricordare la copertina del mensile comunista Nuova Società, dove un ritratto di Begin era sovrapposto a bandiere naziste, e il titolo sovraimpresso recitava: “Beirut, soluzione finale”.

    La rivista satirica il Sale raffigura un Begin dall’incarnato giallognolo, le unghie come artigli, le mani insanguinate. Un mostro che si impone sullo sfondo di una Beirut in macerie e che incombe minaccioso sul cadavere insanguinato di un neonato. Un altro Forattini raffigura Begin seminudo, con la kippah e gli occhiali, e come Gesù porta la croce sulle spalle. La croce è però rovesciata, perché la sua punta, affilata tanto da sembrare una spada, gronda sangue. La didascalia recita: “Anch’io ho la mia croce”. Un’altra vignetta, tra le tante immagini disegnate da Forattini, mostra un Begin impiccato a un cedro, dalle cui tasche cadono delle monete, come Giuda, il traditore.
    Nelle strade d’Italia si aizzavano le masse contro gli ebrei. Durante  l’imponente manifestazione promossa il 25 giugno 1982 dalla triplice sindacale contro Israele, nel passare sul Lungotevere nei pressi della  sinagoga alcuni manifestanti gridarono slogan antisemiti e giunsero a depositare una bara davanti al muro dove erano apposte le lapidi che ricordavano gli ebrei romani trucidati alle Fosse ardeatine. L’episodio fu denunciato pubblicamente dal rabbino capo di Roma, Elio Toaff. Al suo allarme seguì una risposta ambigua del segretario della Cgil, Luciano Lama, che giustificava l’accaduto e suscitò critiche tanto dure da costringere il segretario a un secondo intervento in cui corresse il tiro. Michele Magno, responsabile del dipartimento internazionale Cgil, ammise per primo la confusione ideologica da cui nasceva l’ostilità antiebraica.
    Non mancarono atti di ostilità contro singoli ebrei. Al teatro San Carlo di Napoli il giovane direttore d’orchestra Daniel Oren fu ripetutamente insultato da un gruppo di sindacalisti che lo infamarono al grido di “ebrei nazisti, massacratori, assassini”, mentre a Torino un ragazzo venne aggredito, insultato e pestato poiché portava addosso una catenina con la stella di David. A Milano la rappresentanza sindacale di un grande albergo – adducendo preoccupazione per “eventuali ritorsioni internazionali” – impedì lo svolgimento di un ricevimento di una famiglia ebraica.

    Il clima di antisemitismo indusse molte personalità ebraiche a prendere le distanze da Israele, secondo il vecchio adagio sovietico per cui erano da separare ebraismo e sionismo. Un noto appello “Perché Israele si ritiri” vide tra i firmatari (presto seguiti da altri mille) Franco Belgrado, Edith Bruck, Ugo Caffaz, Miriam Cohen, Natalia Ginzburg, Primo Levi, David Meghnagi, Luca Zevi. I promotori presero posizione “in quanto democratici ed ebrei”, con l’obiettivo di tutelare la democrazia israeliana da derive nazionaliste, e di sostenere una “convivenza pacifica con il popolo palestinese”. Affermarono che “la soluzione militare” scelta da Israele evocava “un linguaggio di triste memoria per ogni ebreo”, facendo così un’implicita concessione alla retorica dei “nazi-sionisti”.
    Dura fu la risposta sul mensile Shalom di Sion Segre Amar, un celebre esponente della comunità ebraica di Torino, coraggioso corsaro sionista della prima ora condannato dal tribunale speciale fascista e gettato in cella assieme a Leone Ginzburg, che si recò anche a casa di Primo Levi per convincerlo a non portare ulteriori attacchi contro Israele. Rosellina Balbi denunciò con forza quel clima in un memorabile articolo sulla Repubblica: “Davide discolpati”. Fu un periodo cupo. Le umilianti giaculatorie di molti ebrei di sinistra non servivano a placare le arroganti richieste di dissociazione.
    Gli ebrei di Roma che conobbero di nuovo la violenza antisemita sul suolo italiano dopo il 1945 erano stati disumanizzati da anni di antisemitismo giornalistico e ideologico imbracciato pressoché da tutta la classe politica e sociale italiana, con qualche nobile eccezione a sinistra e fra i liberali. Bruno Zevi rivolse un famoso j’accuse alla classe politica e sindacale, per il modo in cui aveva reso omaggio al leader palestinese, che non aveva mai riconosciuto il diritto all’esistenza dello stato d’Israele e si era speso, tramite la sua organizzazione, per promuovere atti terroristici contro israeliani ed ebrei. Ma anche e soprattutto ai mezzi d’informazione e agli intellettuali e giornalisti, che avevano contribuito a stimolare un clima antisemita.

    Una responsabilità collettiva ben sintetizzata da un manifesto, intitolato polemicamente “GRAZIE”, redatto dai giovani del Movimento culturale studenti ebrei, in cui era scritto in stampatello con un pennarello nero: “Ringraziamo la stampa: la Repubblica, l’Unità, Paese Sera, il Messaggero, l’Avanti, il Manifesto, Panorama, l’Espresso, il presidente Pertini, Andreotti, il Papa per i loro articoli e i loro incontri con Arafat. Questi hanno causato antisemitismo come durante il fascismo. Non desideriamo articoli di compassione”. Una ventina di giorni dopo alcuni militanti dei Gruppi comunisti metropolitani – una delle tante sigle dell’estremismo politico che affollavano quegli anni – marciarono sulla sinagoga di via Garfagnana, a Roma, e sul cancello impennarono la scritta: “Bruceremo i covi sionisti”. L’ultimo giorno di quell’anno di lutto il presidente della Repubblica Sandro Pertini si chiederà infastidito: “Ma cosa vogliono questi ebrei?”.

    Se il 16 ottobre 1943 è il giorno in cui gli italiani tradirono migliaia di connazionali ebrei diretti a Birkenau, il 9 ottobre 1982 deve essere ricordato come il giorno in cui l’Italia diede in pasto gli ebrei ai terroristi. A sparare furono i palestinesi di Abu Nidal. Ma ad avvelenare le coscienze fu la classe dirigente del nostro paese. Fu, in questo senso, un pogrom tutto italiano. Perché come avrebbe osservato Arnaldo Momigliano in un discorso pronunciato alla Brandeis University nel 1984, “sarebbe una follia concludere su una nota di ottimismo quando accade che un bambino ebreo possa essere assassinato nella sinagoga di Roma, come avvenne nel 1982, senza che si manifesti un sollevamento dell’opinione pubblica”.

    • Giulio Meotti
    • Giulio Meotti è giornalista de «Il Foglio» dal 2003. È autore di numerosi libri, fra cui Non smetteremo di danzare. Le storie mai raccontate dei martiri di Israele (Premio Capalbio); Hanno ucciso Charlie Hebdo; La fine dell’Europa (Premio Capri); Israele. L’ultimo Stato europeo; Il suicidio della cultura occidentale; La tomba di Dio; Notre Dame brucia; L’Ultimo Papa d’Occidente? e L’Europa senza ebrei.