Perché a noi italiani farebbe bene riscoprire l'etica sociale di Hume

Alfonso Berardinelli

Da diversi anni mi rallegro del lento ma sicuro declino della filosofia cosiddetta “continentale” e del suo gergo, a vantaggio delle correnti che dominano il pensiero anglosassone: empirismo, pragmatismo, filosofia analitica. Quando trenta o quarant’anni fa gli ex marxisti rivoluzionari hanno voltato le spalle alle teorie per avventurarsi nel gran mare della Filosofia maiuscola, pur di saziare il loro estremismo frustrato, scelsero l’ontologia, la metafisica, la teologia, le sapienze esclusive e occulte. E’ stata, questa, una delle forme prevalenti di quel fenomeno culturale da molti chiamato postmodernismo.

    Da diversi anni mi rallegro del lento ma sicuro declino della filosofia cosiddetta “continentale” e del suo gergo, a vantaggio delle correnti che dominano il pensiero anglosassone: empirismo, pragmatismo, filosofia analitica. Quando trenta o quarant’anni fa gli ex marxisti rivoluzionari hanno voltato le spalle alle teorie per avventurarsi nel gran mare della Filosofia maiuscola, pur di saziare il loro estremismo frustrato, scelsero l’ontologia, la metafisica, la teologia, le sapienze esclusive e occulte. E’ stata, questa, una delle forme prevalenti di quel fenomeno culturale da molti chiamato postmodernismo.

    Avendo afferrato che l’idea di rivoluzione era ormai inutilizzabile in occidente, ai loro occhi l’epoca moderna smise di avere il privilegio della centralità. Non si ragionò più sul presente partendo dall’illuminismo, dalla rivoluzione francese, dalle origini del capitalismo industriale e ci si ritrovò a parafrasare Tommaso d’Aquino, Meister Eckhart, Parmenide e Platone.

    Naturalmente anche nei decenni dell’impegno politico, dal 1930 in poi, filosofi e saggisti avevano continuato a riflettere sulla cultura greca, come dimostrano gli scritti di Horkheimer e Adorno, Simone Weil, Hannah Arendt, Nicola Chiaromonte, Albert Camus. Ma a un certo punto, con la metà degli Settanta, qualcosa cambiò. In Francia, in Italia e non solo, Nietzsche e Heidegger divennero, come testi sacri, l’oggetto di un commento e di una rimuginazione ininterrotti. La teologia politica e la mistica rivoluzionaria permettevano inoltre di conservare uno stile ultimativo che aveva riferimenti solo allusivi e metaforici alla realtà sociale. Le scorribande filosofiche che congiungevano l’origine e la fine “di tutte le cose” si moltiplicarono. Un’orgia dionisiaca del pensiero nella quale si precipitarono in folla la maggior parte dei nuovi accademici, forniti di stipendio sicuro e fondi di ricerca.

    In quei decenni ci si poteva chiedere dove fossero finiti filosofi e storici della filosofia come Guido Calogero e Mario Dal Pra, che partendo dal pensiero greco o medievale erano capaci di arrivare al razionalismo di Bertrand Russell o al pragmatismo di John Dewey, autori che le mode filosofiche europee hanno cancellato all’inizio degli anni Sessanta. In Europa continentale la filosofia inglese e americana erano sparite, mentre un retore della “mise en question” come Jacques Derrida conquistava con i suoi vocalizzi alcune università negli Stati Uniti.

    Questo breve prologo è diventato troppo lungo. Si tratta di recriminazioni di cui mi scuso, ma che possono venire in mente a chi legga oggi un eccellente libro di Alessio Vaccari, che va in tutt’altra direzione con una competenza e lucidità di linguaggio ignota ai postmodernisti: “Le etiche della virtù. La riflessione contemporanea a partire da Hume” (Le Lettere, 320 pp., 29 euro). Uno dei primi meriti del libro è che la ripresa e valorizzazione dell’etica secondo lo scozzese David Hume, illuminista antimetafisico, benché si prolunghi coinvolgendo l’individualismo di John Stuart Mill, non esclude filosofie morali radicalmente diverse, come quelle di Kant e Nietzsche. Le cento pagine finali del volume sono dedicate alla discussione inglese e americana sull’etica, pagine dalle quali si può imparare qualcosa sul pensiero di Bernard Williams, Michael Slote, Rosalind Hursthouse, Philippa Foot, Elisabeth Anscombe e altri. “L’etica della virtù che si ispira a David Hume è oggi in pieno svolgimento” scrive Vaccari. Cosa che permette di relativizzare sia l’assolutismo trascendentale di Kant che l’eroismo antimoralistico di Nietzsche.

    Ma perché Hume è così prezioso? Anzitutto perché invece di concepire l’azione morale in una purezza che va al di là dei sentimenti, pone i sentimenti alla base dell’etica. Più che essere un puro dovere e un imperativo svincolato dal carattere degli individui, dalle esperienze e dalle circostanze sociali (come avviene nel categorico “devi perché devi” di Kant), l’agire morale per Hume nasce dalla natura umana, da sentimenti morali resi stabili dalla formazione del carattere e dall’ampliamento dell’idea di bene al di là dei limiti individuali.

    Si tratta di un’etica che non ha bisogno della teologia, perché si produce gradualmente all’interno della socialità: “Il vizio e la virtù sono ‘oggetti relazionali’ che esistono nel mondo solo in quanto ci sono esseri umani costituiti in modo tale da approvare e disapprovare”. E’ necessario tuttavia avere un “punto di vista comune” e non solo individuale: “L’esperienza condivisa mostra infatti come vi siano beni elementari quali vivere in una società pacifica, raccogliere i frutti della divisione del lavoro e dell’organizzazione sociale, o coltivare i piaceri della vita privata”. Perciò senza “simpatia”, condivisione, discussione e stabilità di comportamenti non c’è moralità.

    Hume diffida delle virtù “monacali” e ascetiche che orientano al silenzio, alla solitudine e al sacrificio di sé, perché le ritiene socialmente dannose. E questo è comprensibile se si tiene conto che la morale non ha per lui un fondamento metafisico (in Dio) o trascendentale (nella Ragione) ma esclusivamente sociale. Più che la società come dato e fatto organizzativo ciò che conta è piuttosto la socialità come comportamento simpatetico.

    Solo che una malintesa simpatia può ostacolare o impedire il giudizio morale. Hume evita il rischio di conformismo sociale dell’etica della simpatia distinguendo due tipi di virtù: quelle “eroiche” (grandezza e nobiltà d’animo, orgoglio, onore) e quelle “benevole” (bontà, delicatezza, tenerezza di sentimento). La virtù degli “eroi del pensiero” contribuisce a mettere in discussione le norme comuni e abituali.

    Interessante è il fatto che John Stuart Mill, un secolo dopo, affermò che alla felicità generale contribuiscono più i comportamenti abituali moralmente “mediocri” che gli atti eroici e le azioni compiute in circostanze eccezionali. Una critica dell’etica di Nietzsche potrebbe partire proprio da qui, dal suo disprezzo della mediocrità. Il ruolo educativo che Nietzsche attribuisce ai grandi artisti e ai grandi filosofi è fondamentale: sono loro che aiutano di più a diventare coraggiosamente “quello che siamo”, a scoprire, accettare e votare fedeltà al proprio “vero io”, il che prevede un rifiuto e uno smascheramento della morale comune, in particolare del cristianesimo.

    L’etica di Nietzsche ha sedotto e seduce non a caso le élite politiche e intellettuali antidemocratiche: chiede all’individuo di realizzare se stesso e di ergersi al di sopra del “gregge” umano e impone una creazione del proprio io che somiglia più alla creazione di un’opera d’arte che all’invenzione quotidiana di una socialità migliore.

    Nella cultura di una democratica società di massa, il destino del pensiero di Nietzsche è inevitabilmente paradossale. L’estetica dell’io è oggi pane quotidiano, non ha bisogno di Nietzsche eppure è il primo comandamento di ogni produzione pubblicitaria. C’è poi il nostro caso nazionale. Noi italiani siamo naturaliter nietzscheani in formato minimale e non somigliamo affatto agli inglesi di Hume. Le nostre simpatie vanno all’estetica dell’immediatezza. L’eroismo morale antimoralistico di Nietzsche ci sfugge e la stabilità etica del comportamento sociale ci deprime.