Dynasty - Pakistan edition

Tatiana Boutourline

Il perimetro della sua cella nel forte di Attock era lungo trentadue passi. Due volte al giorno, all’alba e al tramonto Mian Muhammad Nawaz Sharif misurava quei confini per scandire le ore nell’antica fortezza Moghul abbarbicata su una collina stretta tra l’Indo e la strada per Peshawar. Condannato a 14 anni di “carcere duro”,  imprigionato da un capo dell’esercito da lui stesso nominato – quel generale Pervez Musharraf oggi agli arresti domiciliari e interdetto a vita dai pubblici uffici – irriso dalle guardie e da ex funzionari passati con nonchalance nel campo dei suoi avversari, nel 2000 Sharif era un uomo finito. Nel dicembre di quell’anno la famiglia reale saudita negoziò la sua liberazione. L’ex primo ministro si trasferì a Gedda.

    Il perimetro della sua cella nel forte di Attock era lungo trentadue passi. Due volte al giorno, all’alba e al tramonto Mian Muhammad Nawaz Sharif misurava quei confini per scandire le ore nell’antica fortezza Moghul abbarbicata su una collina stretta tra l’Indo e la strada per Peshawar. Condannato a 14 anni di “carcere duro”,  imprigionato da un capo dell’esercito da lui stesso nominato – quel generale Pervez Musharraf oggi agli arresti domiciliari e interdetto a vita dai pubblici uffici – irriso dalle guardie e da ex funzionari passati con nonchalance nel campo dei suoi avversari, nel 2000 Sharif era un uomo finito. Nel dicembre di quell’anno la famiglia reale saudita negoziò la sua liberazione. L’ex primo ministro si trasferì a Gedda. Erano trascorsi quasi trentasei mesi dalla sua seconda vittoria elettorale e niente lasciava presagire che, come in un gioco di sedie musicali, tredici anni dopo Sharif avrebbe assaporato la disfatta del suo peggior nemico. 

    C’era una volta in cui il Pakistan veniva descritto come la Prussia: non un paese che ha un esercito, ma un esercito che ha un paese. Non più. Domani il Pakistan andrà alle urne e sarà la prima volta in 66 anni dall’indipendenza che un governo democraticamente eletto sarà sostituito da un altro. L’umiliazione di Musharraf segna un passaggio delicato nelle relazioni di forza tra le istituzioni civili e militari. L’influente generale Ashfaq Kayani giungerà il prossimo autunno al termine del suo mandato e c’è chi annovera la ritirata dei militari dalla prima fila come la fine di un’èra. C’è da credere allo scrittore Mohammed Hanif quando dice che ai militari “non resta più nessuno a cui mentire, nessuno da tradire”? Pare presto per consegnare alla storia il potere degli uomini di Rawalpindi, anche perché mentre a Islamabad parte un nuovo giro di giostra, dalle retrovie i generali si tengono stretti tutti i dossier strategici e stendono la loro longa manus sull’economia.

    Nelle ultime ore i toni si sono alzati: i talebani pachistani hanno minacciato un’ondata di attacchi suicidi durante il voto e l’ex primo ministro Yousuf Raza Gilani ha detto ieri alla Bbc che suo figlio, Ali Haider, candidato per il Partito del popolo (Ppp) dei Bhutto, è stato caricato a forza su una Honda nera a Multan. Gilani ha accusato i suoi oppositori di essere i mandanti del sequestro, durante il quale un altro uomo è stato ucciso. Ma i principali attori di questa competizione elettorale hanno persino mostrato un inusuale – e forse sospetto – fair play.

    I protagonisti della nuova stagione sono politici spregiudicati come Nawaz Sharif e Asif Ali Zardari, il chiacchierato vedovo di Benazir Bhutto, i loro figli Maryam Sharif e Bilawal Bhutto Zardari e Imran Khan, già leggenda del cricket, filantropo, playboy e neo campione dell’orgoglio musulmano. Quando Sharif tornò in patria nel 2007 dopo otto anni di esilio tutti gli occhi erano per Benazir, la magnetica “figlia del Pakistan”, ex studentessa a Oxford, bella, sofisticata e di mondo, istintivamente da schierare nel campo filoccidentale. A lei era facile, quasi inevitabile, perdonare il fardello di un marito imbarazzante, conosciuto con il poco edificante soprannome di “Mister 10 per cento”: era stato un matrimonio combinato, ma poi stando alle cronache Asif è stato un compagno molto amato, “Asif è una boccata d’aria fresca, non si prende mai troppo sul serio”, spiegò lei agli inizi del matrimonio; “Asif non è un angelo ma nemmeno un delinquente”, lo difendeva mentre gli scandali affossavano la sua carriera. “La verità – ha aggiunto qualche anno prima della morte – è importante, ma altrettanto importante è la lealtà”. I consiglieri sperarono che potesse rompersi l’incantesimo, ma durante il fidanzamento Asif le aveva regalato un anello con incisa la frase “finché morte non ci separi” e così è stato.

    Per Benazir, per il sogno che incarnava di una donna musulmana alla guida di uno stato, si potevano dimenticare leggerezze, tratti arroganti, atteggiamenti spigolosi e persino un peccato non veniale come il sostegno organico ai talebani. Era la figlia di Zulfikar Ali Bhutto, l’erede di un fondatore della patria che rispondeva all’impiccagione del padre dichiarando che per lei non c’era miglior vendetta della democrazia. Così, quando il 27 dicembre del 2007 fu uccisa in un attentato, parve naturale che a raccogliere la sua eredità fossero il marito e un figlio adolescente. “Siamo in Pakistan e l’approccio dinastico alla politica è la norma piuttosto che l’eccezione”, sottolinea Rasul Bakhsh Rais professore di Scienze politiche alla Lahore University of Management Sciences.

    Zardari si è ritrovato alla guida del Ppp e del governo ed è riuscito a completare cinque anni di legislatura rattoppando di volta in volta una maggioranza zoppicante, ma l’economia è andata avanti a singhiozzo, la corruzione non è stata arginata e i black out elettrici hanno ritmato le giornate dei pachistani trasformandosi in un’emergenza economico-sociale. Il Ppp ha distribuito più di 1 milione di dollari a 5,2 milioni di persone attraverso un programma di sostegno al reddito opportunamente denominato “Benazir”. Non è bastato. Il partito ha deluso e “Mr 10 per cento” non si è redento.

    Intanto, un’ondata di violenza settaria ha travolto il Pakistan da Quetta, nella provincia occidentale del Balucistan, a Karachi, nel sud del paese, a Lahore, il cuore del Punjab, la regione più popolosa del Pakistan. Soltanto a Quetta tra gennaio e febbraio il gruppo terrorista sunnita Lashkar-e-Jhangavi ha ucciso con due attentati dinamitardi quasi 200 sciiti appartenenti all’etnia hazara. Per giorni dopo il secondo attacco, gli hazara si sono rifiutati di seppellire i loro morti e hanno bloccato le strade con le bare. Il 3 marzo a Karachi militanti della stessa organizzazione hanno ammazzato altri 50 sciiti facendo saltare un camion in un’area densamente popolata dalla comunità, cosicché il numero di sciiti uccisi dall’inizio dell’anno è già vicino a tutti i 400 del 2012, una cifra sensibilmente più alta rispetto al 2011.
    Gli sciiti non sono stati gli unici nel mirino dei terroristi. Il 9 marzo a Lahore una folla furibonda ha dato alle fiamme più di 150 case e due chiese della comunità cristiana. Allo stesso tempo molti attivisti di organizzazioni non governative sono stati assaliti da gang criminali ed estremisti sunniti. Parveen Rehman, direttore dell’Orangi Pilot Project, un programma per la riqualificazione delle periferie degradate, è stata freddata da un commando a Karachi. Ahsanullah Ahsan portavoce dei talebani pachistani ha riconosciuto: “Siamo nemici di tutti i politici che intendono far parte di un governo laico e democratico”. 

    Incapace di arrestare la spirale di sangue, il Ppp è precipitato nei sondaggi e il destino della dinastia si regge ora sulle spalle di Bilawal. A 24 anni non potrà partecipare alle elezioni (deve attendere il compimento del 25esimo compleanno) ma il 27 dicembre 2012, nel quinto anniversario della morte di sua madre, il figlio di Benazir ha tenuto il suo primo discorso. “Se uccidete un Bhutto, altri mille Bhutto si leveranno. Se una Malala sarà colpita nasceranno innumerevoli altre Malala che lotteranno per i loro diritti. La carovana dei martiri non può essere fermata”. Bilawal ha parlato in urdu, l’accento tradiva gli anni di lontananza dalla madrepatria e il testo era scritto in caratteri romani perché l’erede designato della dinastia Bhutto-Zardari non è ancora in grado di leggere l’urdu, ma l’eloquio è parso convincente, e quando Bilawal ha gridato lo slogan del nonno – “Pane, vestiti, case!” – il popolo del Ppp ha risposto con ardore: “Lunga vita Bhutto!”, mentre un mare di bandierine rosse nere e verdi fendevano l’aria al ritmo delle sue parole.

    Sulla strada di Bilawal il maggiore ostacolo pare rappresentato dalle ambizioni del clan Zardari. A marzo la stella della dinastia si è eclissata a Dubai. Bilawal ha lasciato il Pakistan senza motivo e una ridda di voci ha suggerito che il motivo del suo allontanamento fosse un dissidio politico con Asif. Al giovane Bhutto è stata attribuita la frase: “Nemmeno io voterei per il Ppp”. Il partito ha negato tutto, Zardari è corso a Dubai a recuperare Bilawal, specificando che il viaggio negli Emirati era stato motivato da rischi legati alla sua sicurezza. Il figlio di Benazir è tornato a parlare dei suoi sogni per il Pakistan, ma la speranza di sfruttare il giovane nei grandi happening elettorali che solitamente contraddistinguono l’atmosfera carnevalesca delle settimane prossime al voto si è presto arenata dinnanzi alle minacce terroriste. La paura tiene lontano Bilawal e molti altri dai grandi raduni e i comizi sono soppiantati dai social media e dai messaggi trasmessi sui maxischermi. Sarà per l’inquietudine, sarà per il peso di una vocazione forse più subita che scelta, Bilawal ha ripetuto in parecchie interviste: “I miei figli non entreranno in politica”. Nelle sue parole rieccheggia lo stesso disagio di Rahul Gandhi, l’altro grande erede della tradizione dinastica del subcontinente indiano. “Se mi sposassi e avessi dei figli – ha detto Rahul – diventerei un fautore dello status quo interessato soltanto a passare la sua posizione ai suoi cari”. 

    Maryam Sharif pare vivere in maniera meno tormentata il suo destino. “E’ così bello essere amati”, ha raccontato all’Observer che l’ha seguita due settimane fa a Lahore mentre i sostenitori della Pakistan Muslim League precedevano ogni suo passo con un tappeto di petali di rose. Il Punjab è il feudo degli Sharif e Lahore la loro roccaforte. La figlia di Nawaz Sharif si sente a casa e il compito di ingentilire l’immagine del padre non le riesce difficile: è nel suo elemento, suo zio è stato fino a poco tempo fa il premier di Lahore e negli ultimi mesi la città, capitale culturale del paese, ha beneficiato della generosità pre-elettorale del suo clan. Si sono moltiplicati i giardini e un efficiente sistema di metro-bus dotato di aria condizionata ha rivoluzionato i trasporti. Maryam è fiera, gli occhi le brillano, sorride con naturalezza e abbassa la testa con grazia per ricevere ghirlande di fiori. “E’ nei geni”,  dice al corrispondente dell’Observer colpito dalla sua disinvoltura (una tranquillità che secondo una nutrita pattuglia di osservatori è anche dettata da un patto di non belligeranza tra Sharif e la galassia dell’estremismo sunnita).

    Nel frattempo il mondo degli affari, come conferma un recente articolo del Financial Times, è già stato blandito e conquistato (Nawaz vuole trasformare il Pakistan in una “tigre asiatica” e il proposito pare aver convinto la Borsa di Karachi che dall’inizio dell’anno ha guadagnato il 12 per cento). La missione di Maryam è soprattutto quella di femminilizzare l’immagine della Pakistan Muslim League, far dimenticare all’elettorato più liberale il tentativo di imporre la sharia da parte di suo padre alla fine degli anni Novanta. Di appuntamento in appuntamento recita allegramente il mantra della dinastia: “La nostra filosofia si basa sul progresso economico”. Parla nelle scuole e alle operaie delle fabbriche. Se una nazione è forte economicamente – spiega – è in grado di risolvere tutti i problemi, anche l’estremismo politico.

    Nella Pml, in molti stanno iniziando a guardare a Maryam come a una leader in fieri. La figlia di Sharif è una donna forte che ha rifiutato un matrimonio combinato. Ha tre figli e sta conseguendo un PhD a Cambridge sul radicalismo islamico in Pakistan, un tema sul quale ostenta certezze tanto quanto nega la natura del problema: “Non c’è alcun posto per l’estremismo nell’islam”, tanto quanto specula sul fatto che Osama bin Laden in realtà potrebbe non essere mai morto. Racconta di aver incontrato Benazir Bhutto un’unica volta e confessa di essere stata molto colpita dal loro incontro. Parla con calore della sua famiglia e augura ogni bene a Bilawal anche se scherzosamente sottolinea che ha studiato “at the other place”, ossia a Oxford piuttosto che a Cambridge. Cortesie diplomatiche a parte, la benevolenza di Maryam è forse anche dovuta al fatto che il Ppp arranca al terzo posto nei sondaggi dopo il Pml (accreditato tra il 30 e il 40 per cento) e il Movimento per la giustizia di Imran Khan. La rivalità tra la dinastia dei Bhutto e quella degli Sharif è antica. Quarant’anni fa Zulfiqar Ali Bhutto nazionalizzò le fabbriche della famiglia di Maryam e il clan dovette rimboccarsi le maniche e ricreare quasi da zero la sua fortuna.“Il passato è passato, noi Sharif guardiamo avanti – ha assicurato Maryam a Newsweek – Il testamento politico di mio padre? E’ bellissimo. Chi non vorrebbe entrare nei suoi panni?”.

    Le brame di Maryam però dovranno fare i conti con quelle di Imran Khan. A 17 anni dall’inizio della sua avventura politica, l’ex capitano, l’osannato Kaptaan del dream team del cricket pachistano, può legittimamente aspirare a rovinare la festa di Sharif. Gli analisti concordano che, con ogni probabilità, nessuno dei partiti principali otterrà la maggioranza, il governo si formerà sulla base di alleanze e la caccia ai voti di coalizione è già partita. Khan però schernisce qualsiasi tentativo di seduzione da parte della Pml. Giura di voler trasformare il sistema e non entrare a farne parte. Prende in giro le nuove leve – soprattutto Bilawal e il suo urdu zoppicante – e accusa l’80 per cento dei protagonisti della vita pubblica pachistana di essere dei criminali (“ma ho dubbi anche sul restante 20”, puntualizza Khan). E’ l’unico che non rinuncia ai bagni di folla perché “non puoi guidare una rivoluzione da dietro un vetro anti proiettile”. Ed è proprio in uno di questi comizi pre-elettorali che Khan, qualche giorno fa, ha avuto un incidente: è caduto da una balaustra, ha pestato la testa, le immagini immortalano un volo piuttostogoffo e poi il corpo di Khan portato a braccia con la testa ciondolante nell’auto e via verso l’ospedale.

    All’inizio la situazione è apparsa drammatica, ma dopo un paio d’ore il quadro è migliorato: la prognosi è di dieci giorni. I suoi rivali politici Sharif e Zardari sono stati solidali: Sharif ha annullato un comizio in segno di solidarietà e Zardari gli ha mandato i fiori in ospedale, un fair play parecchio inusuale nella politica pachistana. Secondo Lyse Doucet, che segue le elezioni per la Bbc, le due vecchie volpi sperano con la loro cortesia di ottenere dividendi politici, ma altri notano che per Khan tanta gentilezza è dovuta, peccato che nessuno abbia mai pensato di fare lo stesso dopo uno qualsiasi dei sanguinosi attentati che hanno macchiato la campagna elettorale. E la domanda ancora senza risposta è: che ripercussioni avrà l’incidente sulla performance di Khan? Come saranno i pachistani, solidali con l’uomo ferito o gelidi verso la fragilità dell’uomo che pareva invincibile?

    Come Sharif anche Khan punta alla conquista del Punjab, la regione decisiva per ottenere la maggioranza dei seggi nell’Assemblea nazionale, ma più che vincere Khan rischia di erodere consensi decisivi alla Pml. Al pari di Sharif anche Khan parla alla classe media socialmente conservatrice. Per i detrattori l’amico di Mick Jagger e Lady Diana fulminato sulla via del risveglio identitario è un “Taliban Khan”, arrendevole e ingenuo nelle sue ricette di pacificazione nazionale e regionale dalle proposte di pace con i talebani, alle battaglie contro i droni della Cia. Ha fondato il suo Tehreek-e-Insaaf (Movimento per la giustizia) nel 1996, ma nessuno lo ha preso sul serio fino a quando nel 2011 una sua apparizione a Lahore ha attratto una folla di più di 100 mila persone. Da allora Khan è emerso sui radar nazionali come un contendente temibile e anche se i rivali minimizzano paragonandolo a una rockstar attempata che suscita più che altro curiosità, il suo movimento è in crescita e convince i giovani indifferenti ai partiti tradizionali.

    Khan non ha paura di assumere posizioni nette, è tranchant, semplifica le questioni complesse (spesso snaturandole) e la sua chiarezza si sta rivelando un atout vincente. L’estate scorsa non si è presentato a una conferenza a Nuova Dehli dopo aver saputo che Salman Rushdie sarebbe stato tra i partecipanti. Non poteva condividere la stessa stanza con un uomo responsabile di aver arrecato un’offesa ai musulmani di tutto il mondo con i “Versetti Satanici”. Rushdie ha commentato che Khan più che un “leader in the making” era piuttosto un “dictator in waiting”, un clone di Muammar Gheddafi, nell’aspetto oltre che nei convincimenti. Un’offesa capitale al vanesio Khan annoverato in Pakistan come il più fascinoso sessantenne del creato. Lo scambio di battute è andato avanti per giorni: “Ho sempre odiato la sua scrittura – ha puntualizzato l’ex campione di cricket – Rushdie vede sempre il lato brutto delle cose. E’ un musulmano che odia i musulmani”. Consapevole che la polemica avrebbe rinfocolato l’accusa di essere un nemico della libertà d’espressione ha aggiunto una glossa interpretativa: “Ma perché l’occidente non capisce? La prima volta che sono andato in Inghilterra sono stato scioccato dalla rappresentazione del cristianesimo dei Monty Python. Quella è la loro maniera, per noi musulmani, invece, il Corano e il profeta sono sacri. Abbiamo modi diversi di considerare le nostre religioni”, ha detto Khan, impermeabile al fatto che il contrasto di sensibilità si traduca anche in una diversa soglia di tolleranza nei confronti della violenza. Ma se lo accusano di strizzare l’occhio a estremisti e terroristi islamici, Imran si inalbera quasi a voler dire ma siamo matti?, ho frequentato l’università di Oxford e prima ancora una prestigiosa Grammar School, la sera a Londra andavo al Dorchester Club! Invece puntualizza come se parlasse a bambini che non vogliono imparare: “Basta leggere il mio libro per capire che a ispirarmi sono i sufi, i mistici dell’islam”.